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Verso il sinodo Africano – La Parola agli Oppressi

L’appuntamento per il secondo Sinodo Africano, nel 2009, avrà come titolo “La chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. Due i soggetti da ascoltare: le vittime e gli esperti di pace. La chiesa deve evitare la visione sterile sull’Africa contenuta nei Lineamenta e non può temere di affrontare la questione tribale.

Nell’aprile del 1997, tre anni dopo il genocidio rwandese e la celebrazione del Primo sinodo africano, la chiesa africana tenne a Nairobi una “Consultazione sulla crisi nella regione dei Grandi Laghi”. Fu un evento ad altissimo livello, finanziato dal Vaticano e organizzato dal Simposio delle conferenze episcopali dell’Africa e del Madagascar (Secam), vide la presenza di una decina di cardinali (africani e rappresentanti delle congregazioni romane) e di circa sessanta tra vescovi e arcivescovi di tutto il continente. La stampa, però, non fu ammessa, a motivo della riservatezza e importanza dei temi trattati.
L’incontro avrebbe dovuto essere l’occasione per un serio esame di coscienza sulle responsabilità che la chiesa stessa – nelle persone di alcuni vescovi, preti e suore – aveva avuto negli eventi del Rwanda. Tutti si aspettavano che una cosi alta consultazione potesse produrre un documento forte e dare indicazioni concrete su come la chiesa si debba porre e debba agire di fronte alle guerre etniche.
Invece, il documento finale – una decina di pagine – è di una povertà sconcertante: un susseguirsi di luoghi comuni, di pie esortazioni e di generiche e scontate raccomandazioni, per di più espresse con un linguaggio timido e timoroso.
La prima raccomandazione, incredibilmente, chiese «alla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli di continuare a sostenere i vescovi di questa regione con aiuti speciali e far crescere nelle chiese sorelle di tutto il mondo la consapevolezza della necessità di una generosa solidarietà con queste chiese vittimizzate». L’aver messo in cima alla lista delle raccomandazioni la richiesta di fondi evidenziò, ancora una volta, una malsana mentalità di dipendenza: più che pensare alla formazione delle persone e all’uso delle risorse umane locali, si fece appello all’elemosina. Chi lesse il documento non percepì l’urgenza di avviare programmi concreti per educare la gente alla riconciliazione, alla convivenza e alla pace.
Solo alla fine, come ultima raccomandazione, si invitò «gli episcopati del continente a preparare una struttura competente (think-tank) che li possa aiutare nell’analisi dei problemi e delle situazioni, cosi da poter allertare in tempo il popolo di Dio e intervenire adeguatamente, specie nei momenti di crisi». A tutt’oggi, non sono a conoscenza dell’esistenza, in tutto il continente, di una qualche struttura di questo genere che possa essere considerata la risposta pratica a quella raccomandazione.
Di fatto, la consultazione del 1997 cadde presto nel dimenticatoio. Per trovare una qualsiasi notizia su di essa e copia del documento finale – mi ricordavo di questo “evento”, perché m’era stato negato l’accesso all’aula in cui si svolgevano i lavori – ho dovuto scartabellare in diverse biblioteche di Nairobi.

La voce delle vittime

Ho voluto ricordare questo “fallimento”, perché il secondo Sinodo africano, che è ormai alle porte (sarà celebrato nell’ottobre 2009), avrà come tema “La chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. Si tratta di un tema urgente nell’oggi della chiesa africana, Per approfondirlo, però, bisogna affrontare senza paure la questione dell’etnicità e dei conflitti etnici e poi suggerire precise indicazioni pastorali utili ad aprire piste concrete su cui camminare nel futuro. L’etnicità è un tema inevitabile, pena l’irrilevanza.
Per evitare di cadere nei soliti luoghi comuni, il sinodo potrebbe valorizzare il contributo di due particolari gruppi di persone.
Innanzitutto, le vittime. Mentre visitavo un gruppo di sfollati, in seguito alle recenti violenze post-elettorali nella baraccopoli di Kibera (Nairobi), un amico keniano m’ha detto: «Perché i nostri vescovi imitano gli uomini politici, limitandosi a fare dichiarazioni alla televisione, invece di essere qui con noi? Sì, proprio qui, senza automobili, senza segretari e giornalisti al seguito. Qui, con i vestiti da lavoro, come questi volontari, per distribuire pane e latte, imboccare i bambini affamati, lavare i loro vestiti e, soprattutto, ascoltare le storie della gente, Vedrebbero le loro lacrime e sentirebbero i loro singhiozzi. Solo dopo le loro parole suonerebbero più vere».
Forse Kamau esagerava. Ma il suo sfogo ci ricorda che le sofferenze delle vittime delle guerre e delle discriminazioni razziali e dei conflitti etnici dovrebbero essere presenti “con forza” in un sinodo ecclesiale che voglia avere credibilità. Si dovrebbe fare in modo che rappresentanti di gruppi umani colpito dilaniati dall’etnicità esasperata possano parlare ai vescovi. L’Africa, allora, farebbe il suo ingresso nel sinodo.
Il documento preparatorio del sinodo (Lineamenta), invece, dà dell’Africa una visione, magari puntigliosamente equilibrata, ma assolutamente sterile: non aiuta le comunità cristiane a mettere l’amore per le vittime al centro della propria attenzione. Questo “distacco” (sono gli altri a parlare dell’Africa, non l’Africa che si racconta) diventa preoccupante quando i Lineamenta sorvolano sulle responsabilità delle stessa chiesa (proprio come fece la consultazione del ’97). Nella prima stesura di un documento che i religiosi del Kenya stanno preparando come contributo al Sinodo, si esprime precisamente questa preoccupazione e si sottolinea la necessità di parlare onestamente dei peccati della chiesa. Vi si indicano, come punti critici, il ruolo e la pratica dell’autorità, la centralizzazione nel potere, la presenza del tribalismo nella chiesa stessa, i cedimenti e compromessi della chiesa di fronte alla politica. Dare voce alle vittime aiuterebbe a essere più concreti e a superare gli errori del passato e del presente.

Gli esperti

Non sono un fanatico degli “esperti” o di coloro che si definiscono tali. So, per averli visti in azione in Sudan e in altre parti dell’Africa, quanto questi experts di peace-making e peace-keeping (da quelli che imbracciano il mitra a quelli armati di buone intenzioni) siano spesso penosamente impotenti di fronte alle sfide poste dai conflitti etnici. Tuttavia, come la chiesa in passato ha accettato e assunto le competenze di esperti nelle più diverse scienze umane, oggi dovrebbe cominciare ad avvalersi delle esperienze e riflessioni degli “esperti di pace”. Gli studi sulla pace hanno compiuto progressi enormi.
La natura stessa del sinodo (un incontro di vescovi) consente a questi esperti di parteciparvi solo marginalmente. Ciò non toglie che le conoscenze e le tecniche che essi hanno sviluppato debbano essere presenti. Ci sono istituzioni cattoliche (Jesuit Refugee Service, Pax Christi…) che hanno dimensioni ed esperienze mondiali, con rilevanti strutture in Africa. La loro partecipazione al sinodo potrebbe essere valorizzata. Soprattutto, essi potrebbero aiutare i vescovi a dare non solo indicazioni generali, ma anche a preparare programmi pastorali mirati a superare il tribalismo dentro e fuori della chiesa.
In materia di etnicità, una questione che il sinodo potrebbe aiutare a chiarire è quella della terminologia. Capita che un problema non venga affrontato perché manca un vocabolario appropriato, o perché certe parole fanno paura. “Tribù” e “tribalismo” sono termini ormai squalificati dall’uso negativo (a volte denigratorio) che se n’è fatto in Occidente. Eetnia e etnicità sono più “neutri”; “comunità” è la parola entrata nell’uso comune in Kenya per indicare il proprio gruppo etnico, anche se ma diventa chiara solo in un preciso contesto. Ma dell’appartenenza etnica si dovrà parlare, anche solo per capirne le dimensioni positive.

One Comment

  1. Anche io spesso sento alcune parti della Chiesa un po’ lontane dalla vita della gente “comune”. Certamente in Italia i temi sono diversi da quelli di cui si parla in Africa: ma nelle condanne ripetute ed irrevocabili che vengono fatte in alcuni ambiti (per esempio, la morale sessuale), non accompagnate da parole altrettanto forti su altri ambiti, come le molte ingiustizie sociali che vediamo, leggo una difficoltà a confrontarsi con quella che è la vera vita delle persone.

    Intendiamoci, non oso criticare una lettera di quello che viene detto, e sono convinto che, in ogni caso, la riflessione etica e morale che la Chiesa porta avanti da duemila anni non possa che far bene al nostro mondo di oggi. Ma mi piacerebbe che nel modo di portare questo messaggio si mettessero in risalto altre cose, che sento molto più pressanti. Non vorrei, ma mi sembra che succeda, che ne risultasse l’immagine di una Chiesa che giudica e dà ordini al mondo, invece di una Chiesa che vive nel mondo.

    Continuiamo la preghiera allo Spirito Santo perché illumini tutti noi e ci spinga a nostra volta ad illuminare tutto il mondo!

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