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L’ ultimo pensiero di Shiru

Il quotidiano AVVENIRE, nel quadro di una iniziativa intitolata “Le capitali del mondo, racconti dell’ estate” mi ha chiesto il mese scorso di scrivere un racconto che aiutasse a capire un aspetto della vita di una citta’ africana. Ho scelto di scrivere su Nairobi, ed il racconto e’ stato pubblicato oggi.

 

Shiru raccolse le ultime forze che le rimanevano e riprese a camminare. Non conosceva bene quella zona di Kibera, ma sapeva che, da qualche parte, c’era un grande mucchio di spazzatura. Lì avrebbe potuto rifugiarsi per passare la notte tranquilla. Ormai era buio da qualche ora; faceva freddo e scendeva una pioggerellina leggera ma insistente. Il vento si infilava gelido sin dentro le ossa. La stradina, ripida e fangosa, si intrufolava tra due file di baracche di legno e lamiera; era così stretta e sconnessa che a volte, anche lei, per quanto piccola e minuta, faceva fatica a passare. Le porte delle baracche erano chiuse e la gente dormiva da un pezzo. Shiru sapeva che se avesse cercato di rifugiarsi sotto una tettoia, in un angolino riparato, gli abitanti avrebbero subito sospettato che volesse derubarli. E avrebbero scatenato una caccia all’uomo contro di lei. «Neppure i topi vengono trattati così», pensò Shiru. Sentiva che lei valeva meno di un animale.

Era solo una bambina di strada che non valeva niente, che non era nessuno. Una bambina che molto tempo prima era scappata da una mamma, capace solo mendicare e ubriacarsi.

Quella sera, si era beccata una bastonata alla gamba sinistra e ogni passo era una pena. Di tanto in tanto, senza fare rumore, per non farsi scoprire, si appoggiava alla parete di una baracca, aspettando che il dolore passasse. Ma il dolore più forte era alla testa, che sanguinava. L’avevano sorpresa con altre amiche, mentre cercavano di rubare da una bancarella sulla Ngong Road. Erano tutti bambini e bambine di strada come lei, dai dieci ai quattordici anni, spinti dalla fame e dalla disperazione. Speravano di trovare un po’ di pane e salsicce, ma il proprietario, che dormiva sul retro, le aveva scoperte e si era scagliato su di loro come una furia. Con un bastone li aveva picchiate senza pietà. I più veloci erano scappati in tutte le direzioni, ma lei e Shiko’ erano troppo impegnate a riempirsi la bocca col pane secco trovato su uno scaffale, che si erano fatte prendere. Nella fuga, Shiru e Shikò si erano perse di vista.

Dov’era, dunque, quel Dio buono e padre di tutti, di cui ogni tanto parlava suor Elisa, dopo aver distribuito un po’ di pane e latte al loro gruppo di bambine? Suor Elisa era buona e dolce, ma le aveva ingannate. Anche quel Dio doveva essere un padre egoista e cattivo, che si preoccupava di mangiare lui primo, invece di occuparsi dei suoi figli. E poi era lui, quel Dio, che mandava in quei giorni di fine luglio quel tempaccio gelido, che inaspriva la vita in strada e le sofferenze delle bambine. «Altro che Dio!», pensò Shiru. E intanto non vedeva l’ora di trovare quella discarica che aveva notato mentre passava di lì qualche giorno prima. Ormai doveva essere vicina.

È vero, la spazzatura puzzava, ma bastava scavarla un poco e ci si poteva ricavare un “nido” tiepido. Shiru pensava che ci si sarebbe accucciata, coprendosi con un po’ di carta e sacchetti di plastica per proteggersi dalla pioggia. «Domani – pensava – sarò di nuovo forte e capace di trovare qualcosa da mangiare…».

Mangiare, mangiare, mangiare… l’ossessione di sempre! Poi, le venne un pensiero improvviso: «Forse Dio è lì, nella spazzatura che mi proteggerà; è lì, in tutto quello che i ricchi gettano via e che i carretti scaricano vicino alle case dei poveri…Li trovo sempre qualche rifiuto da mangiare e il caldo che mi protegge».

Il dolore per la ferita alla testa era ormai insopportabile e usciva ancora un po’ di sangue. Finalmente, dietro l’ultima fila di baracche e un rigagnolo puzzolente, trovò la discarica illegale. Era un posto orribile, ma era pur sempre un rifugio perfetto per una bambina come lei. Così pensava Shiru, mentre si preparava una “tana” in mezzo all’immondizia, e ci si intrufolava, coprendosi con un gran mucchio di sacchetti di plastica.

«Ehi, tu, che fai? Non rubare la nostra plastica!», le urlò un bambinetto molto più piccolo di lei, sbucando da un altro buco, dove si erano rifugiati altri bambini. «Quella plastica è nostra, domani dobbiamo andare a venderla». «Beh, lasciamela usare almeno stanotte per proteggermi dalla pioggia», disse Shiru. Nessuna reazione…

«Finalmente in pace!», si disse tra sé e sé la bambina. Ma il dolore non la lasciava dormire. E poi pensava a Kavaya, che lo scorso marzo era morto, buttato giù da un autobus. Era salito su un matatu e mentre si frugava in tasca per cercare qualche spicciolo, era stato spinto fuori dalla porta dal controllore. Che gli aveva gridato: «Fuori di qui chokora!». Chokora, ovvero “spazzatura”; è così che chiamano i bambini di strada a Nairobi… Kavaya aveva battuto la testa sulla strada. I suoi amici avevano capito che era grave e, prendendolo per le braccia e i piedi, lo avevano portato all’ospedale. Ma non ce l’aveva fatta; era arrivato già morto, un pupazzo disarticolato e sporco. Shiru aveva pianto, perché Kavaya a volte era buono e la proteggeva.

Davvero, ma dov’è questo Dio buono?

Anche il fratello maggiore di Shiru era morto, poche settimane prima, durante gli “scontri tribali”. Era grande e forte, ed era stato assoldato per gridare slogan e tirare sassi contro la polizia. Trecento scellini al giorno. Una piccola fortuna per lui che, lavorando da muratore alla giornata, ne prendeva al massimo centoventi. La prima sera aveva comprato quattro birre, di quelle vere, nelle bottiglie di vetro, e si era ubriacato come fanno i ricchi, non con quella porcheria del khumi-khumi. Poi, nei giorni successivi, comprava da mangiare: pane, latte, uova, carne, e li condivideva con il piccolo gruppo di disperati con cui stava in strada.  Ma gli scontri non erano durati a lungo e, prima che finissero, per Njaro era finita per sempre. La polizia aveva sparato e una pallottola gli aveva bucato la pancia, ed erano uscite tutte quelle cose che ci sono dentro, come quando si ammazza un capretto.

Al funerale, poche ore dopo, nell’immenso cimitero, fra cumuli di terra smossa, c’erano solo loro, i bambini di strada, a seguire la sgangherata bara di Njaro. All’ultimo momento era venuto anche un “padri” a dire una preghiera e dare una benedizione. Ma che gliene poteva importare a Dio di quel povero corpo? Il “padri” era un muzungu, un bianco; era giovane e sembrava quasi impaurito di trovarsi in loro compagnia.  Aveva detto delle cose giuste: che Dio non poteva benedire questa città, che condanna i suoi figli a vivere nella miseria; che non dà loro alcuna educazione; che insegna la violenza e poi li scaglia l’uno contro l’ altro. Una citta’ – aveva detto – che nutre i suoi figli con l’ immondizia e poi li lascia morire come immondizia. Dio non avrebbe lasciato che le cose continuassero ad andare così per sempre; sarebbe intervenuto a sostenere quelli che lavoravano per il bene e la giustizia. Belle parole…. Ma erano solo parole.

Shiru, invece, non aveva bisogno di parole; aveva bisogno di protezione e di affetto. Njaro la proteggeva quando i ragazzi più grandi volevano “giocare” con lei, e le dava sempre le cose più buone da mangiare.

Pensando ai gesti gentili di Njaro, in una “tana” scavata nella discarica di Kibera, Shiru si addormentò sorridendo, nonostante la testa le facesse ancora molto male.

Pensò che davvero Dio doveva essere lì e la coccolava nel tepore di quell’immondezzaio….


6 Comments

  1. Che gioia rileggerti!
    E’ vero, ci sono momenti della vita in cui si sente particolarmente vicino il Signore. E così si sopportano anche le prove più dure.
    Grazie di questa magnifica pagina di speranza.
    Un caro abbraccio
    laura e roberto

  2. Michele Mau Mau says:

    Carissimo Abuna Buono,

    so che hai pochissimo tempo a disposizione, anche solo per leggere il blog, con tutto quello che fai, però forse saresti veramente efficace in quello che fai, se potessi trasmettere la tua esperienza ai giovani sacerdoti e missionari Africani e non, che potrebbero imparare molto da te.

    Un abbraccio al cuore,
    Michele

  3. Michele Mau Mau says:

    Ciao Abuna Buono,

    saresti formidabile come Vescovo! Propongo un “Kizito Vescovo” subito!
    Prego per questo, anche se tu dici di non sprecare preghiere inutili in queste cose.

    Un abbraccio al cuore da un ragazzo che vorrebbe servirti,
    Michele

  4. Tommaso says:

    Caro Kizito, non vedevo l’ora di rileggerti; sono a Firenze da mia sorella fino al 24 agosto poi ritornerò in quel di Milano-Giambellino. Mi mancate molto, vi abbraccio,
    d.Tommaso

  5. Antonio Avezzano says:

    Ho riletto il racconto che è toccante ed esprime benissimo la realtà dei bambini di strada. Si vivono sensazioni forti, si accumula anche rabbia ed impotenza contro chi avrebbe il potere di evitare quelle situazioni disperate e continua invece a “fare politica” per il proprio tornaconto personale. Qualunque piccola cosa si riesce a fare sembra sempre troppo poco per cambiare il destino di quei bambini. Bisognerebbe che ci fossero qualche migliaio di Kizito ma, intanto, aiutiamo come meglio possiamo l’unico Kizito esistente che abbraccio qui fraternamente.
    Antonio

  6. Giorgio says:

    Ho avuto la fortuna di adottare una bella bimba in Africa… ma in Ethiopia… dove vedo che la musica è abbastanza simile… Grande Kizito!! Antonio dice bene … ce ne vorrebbero migliaia… ma per fortuna almeno uno c’è. Per il momento grazie di queste parole… veramente.
    Giorgio

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