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Viaggio a Nairobi: Riflessioni, Impressioni, Emozioni

Maria Carla Acler mi ha mandato gia’ da qualche tempo questo testo in cui racconta la sua visita a Nairobi, quasi un anno fa, da 24 aprile al 3 maggio. Mi sembra interessante e che possa essere condiviso.

Qualche giorno prima di partire dissi ad Anna, amica e collega, che sarei andata per la prima volta in Africa, a Nairobi. “Ma Nairobi non è Africa – sottolineò lei che aveva viaggiato in Mali – Nairobi è contaminata dall’occidente!” Alla fine del viaggio, mentre mi accingo a raccontare per far sì che ciò che ho visto, vissuto, sentito trovi integrazione dentro di me e non rimanga solo un insieme di sensazioni, odori, immagini, emozioni slegate tra loro, non so rispondere alla sua provocazione. So solo che l’esperienza è stata forte, profonda, ha toccato corde emotive dimenticate, si è mossa da ciò che conoscevo perché letto o visto al cinema o in televisione dandogli colori intensi, reali, fatti dagli sguardi delle persone, dai movimenti dei visi, dalle mani dei bambini, dagli odori del fumo, del cibo, dei corpi, dei fiori dei giardini o della terra bagnata, dello smog che fa tossire quando lo sbuffo di un tubo di scappamento di un camion centra giusto il finestrino aperto dell’auto su cui ti stai muovendo.
P. Kizito ci aspettava all’aeroporto, con lui le sorelle di Harriet la ragazza keniota che studia a Trento e che faceva il viaggio con me e mio marito Carlo. Mi sentivo frastornata, mi guardavo in giro, nessuna difficoltà al controllo dei passaporti, le valigie in brevissimo tempo, tutto pulito e efficiente. Ma appena saliti in macchina ecco il primo impatto con il traffico! Macchine dappertutto – era anche l’ora di punta, verso le sei e mezzo di sera – la maggior parte vecchie, rotte, alcune nuove e grandi tra le quali non mancavano i suv, i matatu che schizzavano a destra e a sinistra con la musica africana a tutto volume che usciva dai finestrini accompagnata da frequenti colpi di clacson che chiedevano strada, continuamente fermi dietro a camion puzzolenti e altrettanto fatiscenti, nell’aria piena di smog. E tra una macchina e l’altra, spesso a ridosso della grandi ruote dei mezzi pesanti in lento movimento, bambini e ragazzi che vendevano di tutto. Qualche scellino fu speso a comprare dei cartocci di noccioline, più carta che contenuto: io, ancora troppo spaventata dalle raccomandazioni del medico che ci aveva fatto le vaccinazioni, non mi sono azzardata ad assaggiarle!! Qualche giorno dopo toccò la stessa sorte alla canna da zucchero che, spellata e tagliata a tocchetti, viene venduta lungo le strade: mentre Harriet e Fr. Alberto se la gustavano, io li guardavo inorridita dopo aver osservato come veniva preparata. Ma come fa uno che viene da un mondo dove l’igiene è una delle preoccupazioni fondamentali a fidarsi e ad assaporare qualcosa che ha l’aria di essere proprio appetitoso? – riflettevo tra me e me! I bambini di Kariobangi non se lo sono certo chiesto, visto l’assalto e i gridolini felici quando capirono che i sacchetti erano per loro!
La strada dall’aeroporto a Shalom Haouse, il centro gestito da Koinonia, l’associazione fondata da P. Kizito che ci ospitava, fu il primo incontro con la città e i suoi contrasti. Tutti i sensi erano all’erta, la vista, l’udito, l’olfatto. Soprattutto gli odori colpiscono subito. Non solo l’odore dello smog, ma quello del cibo, dei fiori e della terra bagnata, del fumo, dei corpi delle persone.
Tra le strade di Kivuli –una delle tante baraccopoli di Nairobi – si leva il fumo di piccoli fuochi ai bordi delle strade – strade per modo di dire, larghi sentieri di terra battuta dai quali escono grossi sassi o si aprono altrettanto grossi buchi (chiamati pot-hole! ) tra i quali le auto che passano fanno lo slalom. Qui si dice che si riconosce un ubriaco alla guida perché va diritto! E su questi piccoli fuochi la gente cuoce il cibo, per sé o per venderlo. Ho visto un bambino, avrà avuto poco più di un anno, accucciato curioso a vedere il fuoco che si alimentava, più avanti altri che giocavano in mezzo a grandi pozze d’acqua, erbacce e rifiuti: a Nairobi era iniziata la stagione delle piogge.
L’odore del cibo riempie le strade, ma anche i ristoranti, dai più semplici ai più ricercati, almeno nelle periferie dove noi siamo stati: probabilmente in centro, dove la città non ha niente da invidiare ad una capitale europea, non è così. Jeff sabato ci accompagnò a visitare le sue iniziative di sviluppo locale e di inserimento lavorativo dei ragazzi del Kivuli Centre. “Bella ciao” si chiama il piccolo ristorante, due stanze riverniciate a nuovo in cui tavoli e sedie sono uno diverso dall’altro, dove, con giusto orgoglio, ci fu servito il pranzo da un cameriere in addestramento e cuoco in apprendimento: due tipi di riso, uno al pomodoro e uno speziato alla cannella, due “cose” arrotolate, una via di mezzo tra una piadina e un’omelette che imparai poi essere il loro pane, il chapati- accompagnati da un po’ di spezzatino e da una verdura che sembrava cavolo, piatti rigorosamente di plastica con il bordo a fiorellini, tutto così dimesso, ma così rigorosamente pulito, come la tovaglia bianca messa apposta per noi, che dopo un po’ non mi accorgevo più dell’ambiente. E’ l’orgoglio che si legge negli occhi di chi impara e di chi addestra, una giovane cuoca che fa del suo meglio, che fa accogliere tutto con semplicità e gratitudine! Fu sicuramente il pranzo meno costoso della nostra vita, un euro e venti a testa e solo perché abbiamo bevuto una coca cola, altrimenti sarebbe stato molto meno! A fianco del ristorante c’è il deposito della plastica, una montagna di secchi e contenitori colorati e sfasciati che i ragazzi impiegati qui raccolgono con un carretto sgangherato o comprano a chi li va a cercare nelle discariche e poi triturano per rivendere la polvere così ottenuta. Ci mostrano il loro lavoro: versano la plastica in una macchina rumorosissima da cui si espande un fumo greve, ma non importa, sono produttivi e sperano di poter arrivare all’acquisto di altre tre macchine uguali per aumentare la produzione. Qui i ragazzi che erano dei bambini di strada si addestrano al lavoro per qualche mese e poi vengono inseriti all’esterno. Il pensiero non può non andare alle nostre cooperative sociali che in fondo fanno lo stesso lavoro di reinserimento sociale… le idee frullano, si potrebbe fare un gemellaggio!! E memore dei nostri vincoli della legge sulla sicurezza, chiedo se usano i tappi e qualche mascherina: mi rassicurano, era solo una dimostrazione per noi. Speriamo sia proprio così!!
Ogni mattina, a Shalom House arriva un matatu pieno di gente che fa una deviazione dal solito itinerario e scarica nel cortile davanti al Baraza caffè dove si fa colazione cipolle, caschi di banane verdi e gialle, patate. E se ne va subito dopo sgommando sul ghiaino del cortile. Verdure e frutta rimangono lì abbandonate per un po’, finché non arrivano dei robusti ragazzi che le portano all’interno. Dopo poco, magari mentre ci gustiamo l’ultima tazza di tè aromatico prima di incominciare la giornata escono dalla cucina gli odori forti del cibo in preparazione che si attacca ai nostri vestiti, riempie le narici: nessuno sembra farci particolarmente caso. Forse sono solo io che ogni tanto mi annuso perché mi sembra di essere circondata da un alone di odore di soffritto!!
E poi le persone, tante, adulti e bambini, quasi nessun vecchio, e i loro odori. Il mio olfatto occidentale è abituato a riconoscere i profumi, qui invece sono i corpi che lasciano tanti odori diversi. Tutti a Shalom House sono eleganti e azzimati – gli uomini in giacca e cravatta e le donne in tailleur – sono i bianchi delle ONG che frequentano il centro i più “scalcagnati” nel vestire, sembra di incontrare tanti studenti di Sociologia a Trento! Dopo un po’ però, nelle riunioni in stanze dove lo spazio è poco o dentro le auto, sotto il sole che lascia spazio ogni tanto alle nuvole di questo inizio di stagione delle piogge, si spande l’odore acre e forte del sudore. Non dà fastidio, dopo un po’ non ci si fa più caso. Ma sempre il pensiero va per conto suo, al nostro modo di vivere, al dare peso a cose che forse non sono veramente importanti.
Corpi e visi scuri, dal cioccolato al nero, che rappresentano le tante etnie del Kenia, ma anche altre nazioni, nei quali si aprono grandi occhi scintillati, soprattutto all’imbrunire. Dopo l’accordo tra Odinga e Kibaki non si può più chiedere a quale gruppo etnico si appartiene, mi disse Vera quando andammo, Harriet ed io, in uscita solo di donne – con il gruppo delle mogli dei ragazzi di KARDS (una delle tante iniziative ispirate da P. Kizito) – a visitare il Museo Nazionale. Ancora nel traffico, sobbalzando spesso dentro un pulmino (non proprio un matatu, ma dello stesso tipo, affittato per l’occasione) si affastellano parole, immagini e sensazioni, nel caldo umido e a finestrini chiusi: l’odore dei corpi, del sapone e dei vestiti puliti, gli sguardi curiosi delle giovani donne, le domande sulla vita al femminile in Italia, sui servizi all’infanzia per chi lavora, su come si mettono insieme lavoro e figli, il mio inglese un po’ approssimativo, le loro risate spontanee e la loro contentezza per la nostra gita al femminile libere dai mariti. Tutto questo rendeva poco importante il resto, il museo ristrutturato da poco, ma di piccole dimensioni, gli animali impagliati, la parte etnografica interessante, ma ridotta al minimo che avrebbe fatto arricciare il naso ad alcuni amici italiani sempre pronti alla critica. L’interesse, la curiosità, la gioia che sprizzava dagli sguardi e dalle espressioni delle ragazze (non riesco a chiamarle diversamente, sono così giovani) rende tutto più grande e più bello. Coglievo ogni tanto delle occhiate di sottecchi che controllavano se mi stavo divertendo: a tutti i costi, anche se era tardi, vollero che andassi a vedere anche la parte dedicata ai serpenti e ai rettili. Non amo gli zoo, gli animali rinchiusi, ma a loro questo pensiero era totalmente estraneo. Leggevo sui loro visi l’orrore, la paura, la sorpresa di riconoscere animali pericolosi che popolano la savana o la foresta, frutto dei racconti dei loro nonni, come il black mamba, il serpente dalla bocca nera, uno dei più velenosi. Non ho potuto spendere nemmeno uno scellino, erano troppo felici di fare qualcosa per me. E un po’ alla volta sentivo che l’apprensione si allontanava, mi stavo rilassando e si apriva l’interesse e la curiosità per le storie e la vita di tante persone diverse, per i loro pensieri e sentimenti: a volte mi vedevo così bianca che mi sentivo decisamente intimidita, mentre loro mi rassicuravano dicendo, “No, you are ok!!”
Fr. Alberto, nei vari trasferimenti in auto, facendo lo slalom tra sassi e pot-hole, mi diceva che il rispetto è la qualità più apprezzata dal mondo africano. Riconoscere la diversità e non oltrepassare i confini: anche tutta l’impostazione della formazione al Social Ministry si basa su quattro cardini – care, respect, responsability, lissening. Mi sentivo a casa mentre parlavo con lui, perché anche per me, per il mio lavoro in Italia, questi sono i valori di fondo che lo ispirano. Anche qui, come al Bella ciao, tante consonanze!
Non ho ancora detto nulla dei bambini, dei tanti bambini, a frotte, presenti dappertutto, con i loro sguardi vispi, curiosi, con i loro sorrisi a volte sdentati che si aprono illuminando gli occhi dopo i primi momenti di diffidenza. Non ho detto nulla perché soprattutto loro colpiscono la vista e il cuore facendo affiorare la commozione che si ferma sotto le palpebre. “Non vorrai mica metterti a piangere qui, davanti a tutti!” mi dicevo nei momenti emotivamente più forti. E qualche volta il rischio c’è stato. Abbiamo attraversato Kivuli, Kariobangi, Kibera, tre baraccopoli delle tante che circondano Nairobi. Lungo le “strade”, queste piste sgangherate dove le macchine consumano gomme e ammortizzatori, si aprono negozietti di tutti i tipi, con un’aria completamente dimessa, in baracche sostenute da pali di legno. Si vendono cibo già cotto, banane, mango, patate e cipolle, ma anche CD e telefonini, divani, mobili, vestiti e scarpe, tutti esposti all’esterno, sul terreno battuto, spesso fangoso in questi giorni. A Kivuli abbiamo conosciuto un giovane uomo orgoglioso del suo lavoro di ciabattino: ripara le scarpe, ma le fa anche completamente usando una vecchia macchina da cucire. Il suo negozio è una baracca un po’ isolata, piccolissima, ci stiamo a stento in due o tre, sul pavimento di terra qualche vecchia scarpa rotta e delle cartacce, ma sulla parete di assi di fronte alla porta tante paia di scarpe nuovissime e lucide, pronte per la vendita. Un suo amico, uno splendido ragazzo alto in completo marron chiaro, con lo sguardo mobilissimo e sorridente aspetta paziente una riparazione e intanto ci saluta porgendoci la mano e dicendo il suo nome, poi esce contento, saltando con circospezione le pozzanghere e facendo attenzione a non inzaccherarsi.
Tutti qui se ti vogliono conoscere per prima cosa porgono la mano e chiedono: “How are you?” E magari, soprattutto i bambini, sono le uniche parole inglesi che conoscono! Ricordo una bimba – avrà avuto cinque anni – con un giubbotto di jeans e delle ciabattine di plastica che ridendo, senza un dentino davanti, con le treccine un po’ sfatte, reclinando la testa da un lato chiedeva in continuazione. “How are you?” . Anche davanti al Bella ciao, la curiosità per due bianchi che arrivavano proprio lì a mangiare aveva raccolto una quindicina di bambini, più in ordine di quelli visti nelle baraccopoli, con vestiti più curati e maglioncini sgargianti che ci seguivano a vista. Poi, prendendo coraggio, incominciarono a porgere le mani dentro lo steccato che circondava il ristorante, a salutare ridendo, dicendoci i loro nomi e facendosi fotografare. Immagini e modi di essere già visti in televisione o letti in tanti reportage sull’Africa, ma che quando diventano esperienza concreta lasciano dentro un segno di commozione e tanti pensieri.
Mi chiedevo: “Te li porteresti a casa?” Sempre la stessa risposta, sì, ma subito dopo un no più forte. Non è crescere in terra straniera che serve loro, ma l’impegno di tutti perché la qualità della loro vita proprio qui migliori, perché possano crescere sentendo che i loro bisogni almeno in parte possono trovare risposte, di affetto mentre sono così piccoli, di istruzione e di lavoro man mano che diventano più grandi. Ed è proprio il lavoro che spesso manca: fiumi di persone si riversano nelle strade la mattina alle sei, escono dagli slums, alcuni per raggiungere il posto di lavoro, ma tanti altri con la speranza di trovarlo, precario e giornaliero. Se ne stanno seduti, come grappoli umani in certi posti dove si sa che passeranno i camion a raccogliere operai o braccianti, spesso tornano la sera senza aver guadagnato uno scellino. Fiumi di persone che camminano, ai bordi delle strade, pochi in bicicletta, pochi che possono permettersi anche solo un matatu.
Jack è un educatore del centro di primo contatto con i bambini di strada della baraccopoli di Kibera. Ci accompagna attraverso le strade dello slum fino alla struttura, due case in muratura dall’aria dimessa e un po’ fatiscente. Le immagini sono le stesse viste nelle altre baraccopoli: i negozietti, il fumo dei fuochi accesi, bambini e adulti dappertutto fra i quali la nostra auto procede lentamente, qualche capra scheletrica insieme a cani che annusano il terreno, gente curata o con i vestiti a brandelli, sguardi curiosi o sguardi impassibili che si tolgono appena incrociano il tuo. Non è la zona più degradata di Kibera che stiamo attraversando: in quella le auto non passano tra le file delle baracche e la povertà estrema è molto peggiore. Arrivati ad uno spiazzo sterrato non facciamo in tempo a scendere dalla macchina che siamo circondati da venti, trenta bambini che ci danno la mano, dicono il loro nome e ci trascinano verso le due costruzioni del Centro. Ogni dito delle mie mani è occupato da una manina, mentre altri si mettono in fila: mi trascinano con entusiasmo e curiosità mentre sento un nodo che mi stringe la gola. Entriamo nella prima sala, i bambini scivolano dappertutto, dietro o ai piedi di un lungo tavolone dove di giorno incominciano a fare esperienza di scuola. Brian si siede sulle mie ginocchia, sta fermo fermo mentre Jack descrive le attività del Centro, il modo in cui, girando per la baraccopoli cercano di individuare i bambini abbandonati per poterli poi avviare al processo di integrazione. Non è un lavoro facile: molti di loro hanno imparato ad avere paura degli adulti, di genitori violenti e alcolizzati, di poliziotti che li scacciano dalle strade della città dove chiedono la carità o rubano rovinando l’immagine di un centro pulito e sicuro; molti non reggono neppure una vita strutturata da regole o hanno già il cervello “bruciato” dalle droghe o dalla colla che sniffano per superare i crampi della fame.
Brian ha la pelle liscia e sorride con due fossette e gli occhi vivaci, è tutto il pomeriggio che gioca nella terra e la sua maglietta bianca è diventata color marroncino mentre i pantaloni di velluto verde a coste, troppo larghi e troppo corti hanno un gran bisogno di una lavata. Lì accanto a noi un altro ragazzino ha un berretto di lana a righe gialle e blu in testa, un po’ a sghimbescio, e due grandi occhiali da sole che non si toglie per nessun motivo. Sulla parete di fronte i loro disegni, il ritratto di padre Kizito, per un improbabile concorso di pittura iniziato per gioco. Nella sala accanto una ragazza dal viso aperto e sorridente ci mostra il lavoro iniziale per l’apprendimento della scrittura: dei cerchietti di plastica ricostruiscono lettere dell’alfabeto. Imparare a leggere e scrivere è il primo passo verso l’emancipazione. Dobbiamo andare, i bambini ci accompagnano e ci salutano. L’esperienza nel centro è il primo step di un percorso di crescita personale, di recupero dell’autostima, di educazione e formazione che continua per i maschietti nel Kivuli Centre o in altre due strutture più recenti, per le bambine, più difficili da individuare, nella Casa di Anita situata in un luogo bellissimo nei pressi di Ngong, alla base delle colline sacre dei Masai. Qui le bambine, reduci spesso da esperienze spaventose di violenza e prostituzione acquistano sicurezza, vanno a scuola, imparano l’uso del computer, coltivano l’orto e vivono in tre famiglie dove padre, madre e figli naturali della coppia si sono aperti all’accoglienza e hanno fatto loro spazio. Mi viene in mente il modello dei nostri Villaggi SOS: qui però ci sono anche i padri in carne ed ossa. Le ragazzine ci accolgono facendoci festa e cantandoci alcune loro canzoni.
Il canto e la danza ci accompagnano in tanti momenti del nostro soggiorno. Nella messa cui abbiamo voluto partecipare la domenica, coro, bonghi, altri strumenti che non conoscevo scandivano le preghiere, la gente cantava e batteva ritmicamente le mani, un gruppo di ragazzine danzava nei momenti forti della liturgia. Sembrava di rivivere alcune scene di Sister act! A me occidentale, abituata a riti sofisticati, ma “distanti”, suoni e colori davano l’idea di una fede semplice, genuina che permea le azioni della giornata. “L’africano ateo non esiste” sosteneva fr. Alberto in una delle nostre chiacchierate, che sia cristiano, mussulmano o seguace delle religioni tradizionali è sempre un credente. In ogni incontro infatti, riunioni comprese, il momento della preghiera spontanea, costruita al momento, dava sempre inizio all’attività. E durante la messa –durata ben due ore e un quarto – moltissimi bambini di ogni età, eleganti e azzimati, molti incredibilmente con un berretto di lana in testa, se ne stavano buoni buoni accanto a madri giovanissime.
In tutte le strutture che visitiamo i ragazzi si riuniscono e ci salutano con il canto. Anche al Kivuli Centre hanno voluto mostrarci la loro bravura: uno di loro sembrava un rapper nato, altri erano acrobati e giocolieri e si muovevano ritmicamente alla musica che usciva fortissima da un registratore. Qui sono in tanti: molti giocano a pallone e fanno i turni per il campo senza litigare, prima i piccoli e poi i grandi, rincorrono la palla in un mix tra calcio e pallacanestro. Kivuli è anche il luogo per altre attività portate avanti dai ragazzi diventati grandi e che vengono inseriti nel lavoro, non solo ex street children, ma anche ragazzi della baraccopoli o della parrocchia che gravitano comunque sul centro. Ci sono una falegnameria, un’officina, un ristorante, la sede del Microcredito, un laboratorio dove lavorano il legno un gruppo di rifugiati, un piccolo negozio di manufatti artigianali. Shalom House, il centro dove dormiamo, è strutturata in modo simile: un’agenzia viaggi, un internet caffè, due ristoranti oltre all’attività alberghiera e la presenza di associazioni varie che hanno affittato dei locali. E in tutte queste attività sono impiegate tante persone giovani, molti ex ragazzi di strada o comunque conosciuti da P. Kizito, attivi, sempre gentili e disponibili dopo che hanno imparato a riconoscerti e a rispondere al tuo saluto, altrimenti occupati nei loro lavori. Il saluto è un’altra delle tante cose che ti colpiscono: rispondere al saluto e presentarsi è assumere l’ impegno della relazione, è entrare in un cerchio di fiducia. Ancora fr. Alberto raccontava che nel suo lavoro nella baraccopoli, a Kariobangi, i “banditi” si riconoscevano perché sfuggivano lo sguardo e quindi l’incontro e il saluto prima di tutto.
Odori, emozioni, incontri: tanti anche su un piano diverso. Dal lavoro di frontiera, nelle baraccopoli e per i ragazzi di strada, al lavoro per lo sviluppo e la formazione di persone che poi nel loro territorio portano avanti la crescita delle proprie comunità. E’ a Premise Africa, la prima mattina dopo il nostro arrivo, che mi faccio immediatamente l’idea di quanti ragazzi giovani hanno voglia di impegnarsi, di quanto tengano al loro Paese e ai suoi processi di sviluppo, di quanta voglia abbiano di far crescere le proprie comunità di appartenenza. Sono tantissimi, ammassati in ogni piccolo spazio di un’aula grande, scrivono su sedie attrezzate, aspettano di dare un esame, sono kenioti, ma anche somali, ugandesi, mozambicani. E con pazienza rimandano l’inizio per salutare noi, catapultati lì per avere un’idea dell’attività dell’istituto presso il quale studiano. Premise è una scuola privata che non ha mai accettato compromessi per avere facili contributi e che si sta interrogando su come stabilizzarsi al di là del proprio fondatore. E’ qui che incominciano, in parallelo con le visite ai diversi progetti di p. Kizito le riflessioni sull’impresa sociale e sull’esperienza europea. Da tanti anni lavoro nelle cooperative sociali, ma occupandomi di comunicazione interna o di progetti per l’inserimento lavorativo di persone in difficoltà non sono esperta in riflessioni più generali, però mi rendo conto, anche attraverso le visite, di molte consonanze possibili. E’ come incontrare qui in Africa le nostre prime esperienze degli anni 80, senza che ancora ci sia la riflessione teorica e la rete che tanta energia hanno richiesto nel nostro paese. Credo che queste furono le considerazioni che spinsero P. Francesco Pierli a volerci a Nairobi: era rimasto entusiasta e fortemente interessato all’esperienza italiana della cooperazione sociale perchè ne intravedeva tutte le potenzialità anche per l’Africa. Premise, Kards, Somirenec, lo stesso percorso di laurea in Social Ministry del Tangaza College sono strade, alcune più concrete, altre più teoriche, che riconducono tutte, in ultima analisi, a esperienze imprenditoriali di sviluppo di comunità attraverso progetti condotti da giovani del luogo che ritengono fondamentale il loro impegno in prima persona per la crescita e il cambiamento del proprio paese. E se, attraverso queste istituzioni, chiedono interventi economici non è per avere soltanto dei soldi, ma per finalizzare tutti gli aiuti allo studio (borse di studio per l’iscrizione all’università) o all’implementazione di attività che hanno bisogno di un input iniziale per poi andare avanti con le proprie forze. C’è ormai una diffusa consapevolezza che il futuro del Paese, ma anche dell’Africa, può passare solo attraverso la crescita delle persone e non più attraverso il finanziamento a pioggia di progetti che poi difficilmente trovano la strada dello sviluppo. Da qui, credo, nasce il grande interesse per la teoria che possa supportare la pratica concreta e che è evidente non solo nei missionari incontrati, ma anche nei tanti responsabili dei progetti di sviluppo locale. Per questo la conferenza di Carlo sull’impresa sociale ha raccolto tante presenze, per questo la mattinata di lezione, sempre di Carlo, agli studenti del Master in Social Ministry ha suscitato tanto interesse e tante domande, per questo l’entusiasmo di P. Francesco per la storia della cooperazione sociale ha permesso, credo, di dare chiavi di interpretazione nuove alle esperienze di sviluppo che già vengono portate avanti. Vedevo Carlo e P. Francesco sempre intenti a ragionare di questo mentre io mi lasciavo affascinare da tutto quello che accadeva intorno! In questi incontri ero solo spettatrice, ma mi rendevo conto di tutto il potenziale insito nei loro ragionamenti.
Così, mentre loro erano immersi in lunghe discussioni, io approfittavo della pazienza di fr. Alberto, responsabile del percorso di laurea triennale del Social Ministry, e mi facevo illustrare la filosofia che sta alla base del loro lavorare insieme. Parlando con lui ho ritrovato i capisaldi del mio modo di lavorare e di fare formazione: sviluppare l’empowerment, creare una comunità in apprendimento, utilizzare metodologie attive in modo che gli allievi apprendano modalità da replicare poi nelle proprie comunità, fondate sul rispetto dell’altro, sulla fiducia nelle potenzialità delle persone e così via. E anche qui, se pur in modo diverso, mi sono emozionata, io che sto progettando un corso per sviluppare capacità di leadership nei cooperatori italiani, a ritrovare tutto questo in un’università del Kenia! Bellissimo!
Altre riflessioni poi scorrevano ogni tanto nella mia mente. Mi colpivano le tantissime iniziative che vedevo, le loro potenzialità, ma anche la loro parcellizzazione e mi pareva che pezzetti della nostra strada fatta qui in Italia con le cooperative sociali avrebbe potuto essere loro utile. La scommessa che si fece nel corso degli anni ’80 aveva i suoi capisaldi in due polarità: la costruzione della rete e la ricerca e la riflessione teorica. Se per la seconda, l’esperienza già consolidata in Europa può essere una chiave di lettura per le tante iniziative che in Kenia si stanno consolidando, la costruzione della rete potrebbe diventare, a mio avviso, un obiettivo importante su cui puntare. Mettere in rete quanto si fa, scambiarsi idee e progetti, osservare cosa fanno gli altri, imparare dalle esperienze eccellenti per moltiplicarle, creare strutture di supporto per progetti simili, a questo pensavo quando vedevo tante energie spese e che avrebbero potuto essere condivise. Chissà se questi ragionamenti sono compatibili con culture così diverse dalla mia, magari è solo l’entusiasmo di voler far qualcosa di più che mi spinge a pensare in questo modo. Sicuramente, anche per il mio inglese imperfetto, non ho avuto la possibilità di approfondire oltre.
Ci sono stati ancora altri incontri, con le sorelle di Harriet così sorridenti e affettuose, con il loro cugino che volle venire a salutarci la sera prima della partenza a nome di tutta la famiglia, lui che insiste che Harriet studi il più possibile, sul suo esempio, per essere d’aiuto poi al proprio paese, con suor Palmina il giorno della festa dei fratelli comboniani che mi venne incontro dicendomi che era una suora della Val di Non e che, ormai un po’ avanti negli anni, rimpiangeva tantissimo il lavoro sul campo, con altre suore comboniane in missione in Sudan, che nel mio immaginario dovevano vivere costantemente in situazioni di pericolo, con Bernard che fuori dalla messa la domenica ci comunicò tutta la sua voglia di studiare e l’impossibilità di farlo perché non aveva i 700 € necessari per iscriversi alla facoltà che avrebbe desiderato frequentare, con Felix, un ragazzo di P. Kizito che dopo avermi fatto da sostegno nello scendere per un sentiero un po’ impervio con le scarpe meno adatte che possedevo, mi disse che avrebbe pregato perché potessi tornare, con due medici italiani che spendono ogni anno le loro vacanze a lavorare nel piccolo dispensario costruito a Kibera, con Mario Raffaelli un amico trentino molto conosciuto non solo a Nairobi, ma in tutta l’Africa per il grande contributo portato a nome dell’Italia nel processo di pace in Mozambico, con Ida e la sua bambina, rispettivamente moglie e figlia di Richard che fa il dottorato a Trento, con Sebastian, il cameriere che la mattina voleva che mangiassi uova e salsiccia e non solo del pane e marmellata, con Patrik, l’autista che domenica pomeriggio ci accompagnò al Nairobi National Park dove finalmente riuscii a vedere qualche giraffa e uno struzzo in lontananza, con Mark, un poliziotto in borghese che collabora con Somirenec per lo sviluppo di progetti di pace in alcune zone a rischio e che, con la sorpresa dovuta alla mia ignoranza, si è formato in Italia, presso la scuola dei Carabinieri a Vicenza, con Fr. Pietro che appena arrivati nella sede della Parrocchia di Kariobangi, visto che erano le due e non avevamo mangiato ci preparò con semplicità un piatto di spaghetti, con le responsabili delle attività di formazione per le donne abusate sempre a Kariobangi… E con loro altre persone, altri visi, che ogni tanto passano come immagini fugaci davanti ai miei occhi.
Persone, esperienze, racconti, incontri, profumi di un mondo pieno di contrasti, con una natura bellissima e rigogliosa dove i gerani e le sulfinie non sono nei vasi, ma diventano siepi, dove la terra rossa e ricca mostra tutte le proprie potenzialità, ma anche lo sfruttamento insensato e le recinzioni ingiuste e poco rispettose: tutto questo, ma tanto di più raccontano di otto giorni desiderati e paventati, procrastinati da gennaio ad aprile a causa dei disordini in seguito alle elezioni, vissuti intensamente con la sorpresa di chi, come me, che mi sono sempre pensata poco coraggiosa e troppo legata alla propria terra, ha invece lasciato lì un pezzo di sé e la voglia di tornare.

Trento, maggio 2008

One Comment

  1. Carlotta says:

    Da educatrice, da italiana, da donna e dopo aver conosciuto molti dei luoghi e delle persone che Maria Carla cita, mi sento felice e quasi sollevata di leggere le sue riflessioni su tante cose. In particolare ho sorriso, contenta, leggendo quelle frasi riguardanti la non correttezza e la non necessità di portare via i bambini (per quanto in difficoltà) dall’Africa, nonostante l’istinto a volte ci possa portare a sperare di “salvarli” in questo modo.
    Dopo aver incontrato molti giovani (e giovanissimi!), in Kenya come in Zambia, che dimostrano un enorme senso di responsabilità verso la loro comunità, non posso che continuare, sempre più orgogliosa, a sostenere te, Kizito, come anche Amani e Koinonia, per il lavoro assiduo, responsabile e rispettoso, sempre volto a non sostituirsi a nessuno, ma a dare gli strumenti, se mai, perché i bambini possano crescere nella loro terra, fieri delle loro radici e forti del desiderio di diventare la generazione degli adulti africani di domani.

    Buon lavoro a tutti, dunque!
    Carlotta

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