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February, 2013:

Kenya: La Gente Vuole Pace

La scorsa domenica all’Uhuru Park, il grande “Parco della Libertà’” al centro di Nairobi e tradizionalmente luogo di tutti i grandi eventi della vita nazionale del Kenya, c’è stata un grande momento di preghiera, al termine di tre giorni e tre notti di un incontro che ha visto migliaia, decine di migliaia, di persone invadere il grande prato verde. Il popolarissimo Dr. David Owuor, o meglio Profeta Owuor, come ama farsi chiamare il fondatore della Repentance and Holiness Church (Chiesa della Penitenza e Santità), ha celebrato un servizio penitenziale alla presenza di quasi tutti i candidati alle elezioni presidenziali, che si terranno il prossimo 4 marzo. Fra gli uomini politici importanti mancava solo Musalia Mudawadi.

Gli elettori keniani saranno chiamati a scegliere non solo il Presidente e Vicepresidente – che corrono in coppia, sul modello americano – ma anche tutti i senatori, i parlamentari, i governatori delle 47 nuove counties o provincie, e i consiglieri per le stesse provincie. E’ un fatto nuovo, perché queste saranno le prime elezioni tenute per mettere in pratica i dettati della nuova costituzione, approvata con un referendum nell’agosto del 2010, che prevede un radicale cambiamento delle strutture di governo. Il senato, e il potere dato alla provincie con la figura del governatore sono una novità assoluta e queste elezioni avrebbero potuto promuovere un completo rinnovamento della classe politica. Invece non solo gli uomini politici più navigati hanno mantenuto un saldo controllo dei principali partiti, ma anche lo spettro della violenza che ha devastato il paese dopo le elezioni di cinque anni fa, è riapparso con forza negli ultimi mesi. Secondo un rapporto di Human Rights Watch intitolato “High Stakes: Political Violence and the 2013 Elections in Kenya,” (La posta in gioco: Violenza Politica e le Elezioni del 2013 in Kenya) nel 2012 e nelle prime settimane di quest’anno gli scontri inter-etnici in Kenya hanno causato più di 477 morti e 118,000 sfollati. Molti di questi incidenti sono legati a manovre pre-elettorali e sono stati pilotati da politici locali in cerca di voti.

L’evento all’Uhuru Park è stato più che altro un modo per cercare di esorcizzare questo spettro. I fatti ci diranno se il “Profeta Owuor” ha avuto successo, certo lui ha usato tutti i mezzi che la tradizione evangelico-pentecostale gli offriva, compresi i continui coreografati “alleluia”, le braccia alzate, lo sventolare di fazzoletti bianchi, i pianti e le manifestazioni di pentimento fra i partecipanti. Sul finale, mentre il profeta proclamava che “da oggi la pace regnerà in Kenya e Dio si prenderà cura delle vedove e degli orfani” qualcuno ha opportunamente portato sul palco un bambino di dieci anni, che secondo le affermazioni della madre sarebbe nato cieco e avrebbe acquistato la vista al passaggio del profeta. “E’ il simbolo del nuovo Kenya” ha gridato trionfante Owuor, nell’entusiasmo generale, mentre il bambino, ripreso in primo piano dagli operatori televisivi presenti, non sembrava affatto sorpreso di aver improvvisamente acquistato la vista, ma era evidentemente felice per la grande bottiglia di aranciata che gli è stata subito offerta, e se la teneva ben stretta al petto.

Gli uomini politici presenti durante il rito finale, inclusi i rappresentanti dei due principali partiti, Raila Odinga da un lato e Uhuru Kenyatta e William Ruto dall’altro, hanno partecipato in modo composto, lasciandosi andare solo ad uno spropositato uso della parola “fratello”, a sorrisi, strette di mano e di abbracci. Infine hanno solennemente promesso di mantenere la pace, chiunque vinca. Tutti in Kenya sperano che queste promesse non svaniscano come purtroppo svaniscono spesso le emozioni, le conversioni e le guarigioni che avvengono nel corso di queste grandi predicazioni. Tra l’altro gli scettici non possono dimenticare che Kenyatta e Ruto, rivali acerrimi cinque anni fa, sono accusati di crimini contro l’umanità alla corte penale internazionale dell’Aja.

Pochi giorni prima alcune chiese cristiane e la televisione governativa avevano organizzato un dibattito pubblico con i canditati presidenziali su temi considerati di rilevanza per le chiese cristiane, come l’aborto e il matrimonio omosessuale. Raila e Kenyatta non vi avevano partecipato, e il dibattito non ha avuto nessuna rilevanza pubblica. E’ un altro segno che le chiese cristiane più tradizionali, chiesa cattolica inclusa, stanno attraversando in Kenya un periodo di grande perdita di credibilità e autorevolezza. Non tanto a causa degli scandali di varia natura che hanno devastato le chiese negli ultimi anni, ma perché troppi pastori, preti e vescovi sono stati percepiti come persone di parte, quando addirittura non legati a una visione tribalista della società keniana. Sia prima delle elezioni che durante le violenze del 2008.

Il “Profeta Owuor” ha evidenziato che in questi giorni prima delle elezioni che la pace e il superamento del tribalismo (o negative etnicity come si dice in linguaggio politically correct) sono aspirazioni profonde della maggioranza della gente.

Benedetto XVI e l’Africa

Ho letto tante cose molto belle sullo straordinario gesto di Papa Benedetto e mi è sembrato veramente inutile dire la mia. Poi gli amici di Famiglia Cristina mi hanno fatto una breve intervista al telefono e l’hanno pubblicata nel loro sito, non nel cartaceo. La trovate a

http://www.famigliacristiana.it/chiesa/dossier_2/dossier/e–l-ora-dell-africa/padre-kizito-la-chiesa-dafrica-attende-il-via.aspx

ma per vostra comodità la copio qui sotto.

Padre Kizito: «La Chiesa d’Africa attende il via»

«Questa Chiesa ha una grande ricchezza. Un laicato generoso, magari non pienamente formato, ma con enorme disponibilità a servire la chiesa e i fratelli». Padre Renato Kizito Sesana, da molti anni missionario a Lusaka e poi a Nairobi, sta parlando della Chiesa africana, quella che considera ormai la “sua” chiesa.

«Benedetto XVI», aggiunge, «ebbe un’espressione quanto mai felice quando la descrisse come il “polmone spirituale dell’umanità”. «Un potenziale, quello dei cristiani d’Africa, certamente non sfruttato al massimo, perché la spinta che aveva portato al primo Sinodo del 1994 si è poi fermata. La Chiesa africana negli ultimi 15 anni ha segnato il passo».

– Perché, padre Kizito?

«Per diverse ragioni, una delle quali è che – questo va detto – l’azione di papa Benedetto XVI è stata molto eurocentrica. Ma anche prima del suo pontificato: diciamo che, nel momento in cui il dibattito ricco ed effervescente è arrivato al suo culmine, col Sinodo del 1994, anziché decollare gli è stata messa la sordina.

– Un esempio?

«La questione dell’inculturazione, ossia la modalità con cui l’Africa incarna il messaggio evangelico, è un processo rimasto ancora tutto da realizzare. Se n’era discusso molto negli anni ‘70 e ‘80. Mentre la Chiesa latinoamerica parlava di Teologia della liberazione, quella africana parlava di inculturazione. Ad esempio, prima del 1994 si era arrivati all’approvazione del rito liturgico zairese per l’Eucarestia. Non ce ne sono stati altri, né per altre aree culturali e linguistiche, né per gli altri sacramenti. Un altro esempio è il lavoro pastorale delle piccole comunità cristiane, che doveva servire a rendere la chiesa vicina alla gente: a partire dai primi anni ’90 è stato dimenticato. Quel cammino si è bloccato, ora c’è bisogno di riprenderlo».

– Si è fermato per cause interne o esterne?

«La responsabilità non è della Chiesa africana. Se ci domandiamo perché, la risposta non è molto bella. Si è scelto negli ultimi decenni di porre alla guida delle diocesi più dei buoni amministratori che dei grandi pastori. Forse per non correre rischi. Il risultato è che oggi sembrano mancare i grandi vescovi, come pure i grandi teologi che avevano caratterizzato la “primavera” del cristianesimo africano degli anni ’70. Forse solo Peter Turkson può essere paragonato a quelle figure di allora: dei veri punti di riferimento che non ci sono più».

– Come può essere stato letto il gesto delle dimissioni del Papa nel Continente nero?

«Credo sia un segno importante, anzi un vero dono fatto alla Chiesa alla fine del suo pontificato: dopo essersi posto di fronte a Dio e alla sua coscienza, ha deciso di rompere una tradizione secolare con un gesto di libertà e che apre alla novità. Le parole di Benedetto XVI pronunciate in questi giorni “sulle divisioni che talvolta deturpano il volto della Chiesa” sono un messaggio forte anche a quella parte del clero africano troppo attento alla “carriera”, che ha portato molti a “stare buoni” in attesa di una promozione. Paolo VI, nel 1969, sollecità l’Africa ad avere “un cristianesimo africano”, a far penetrare fin nel più profondo della vita e della cultura il messaggio evangelico. Ecco, oggi c’è bisogno di chi sappia liberare le sue enormi energie».

– Alcuni vescovi hanno detto esplicitamente che forse è ora di guardare fuori dall’Europa per il prossimo Pontefice. Un africano?

«Questa è una Chiesa che fa fatica, nell’attuale momento storico. È inutile il ritornello del papa africano. Temo che, se oggi esprimesse un papa, sarebbe comunque ben poco africano».

Luciano Scalettari

Mogadiscio, la nuova frontiera

Kabiria Road è all’estrema periferia di Nairobi, oltre un chilometro di buche e dossi, e solo di tanto in tanto qualche metro di strada liscia. Un susseguirsi ininterrotto – e sempre in mutazione – di negozietti, bancarelle, donne che preparano frittelle, o chapati (il pane piatto di tipo indiano), o abbrustoliscono pannocchie di mais ai lati della strada. Ci sono macellerie con quarti di bue appesi a due metri dalle auto in movimento, polli in gabbia, capre legate ad un albero che cercano di mangiare tutto ciò che capita a tiro, anche i sacchetti di plastica vuoti, e dappertutto gente che compra, vende, passeggia e discute in mezzo alla strada e si sposta solo se minacci di investirli, barbieri all’aperto, posti di ristoro che offrono specialità locali come githeri (un straordinaria minestra di fagioli, chicchi di mais e patate), pensioni con due camere di lamiera e senza servizi ma con nomi altisonanti e fantasiosi come Regency Hotel Annex, o Mandela’s Hut o Mama Jane’s Villa. Il grande mondo modifica la vita di Kabiria non solo quando in televisione ci sono le partite del Manchester United e i negozianti per attirare clienti mettono una televisione accesa in vetrina, o arriva il politico candidato presidente alle ormai imminenti elezioni. La gente si muove, emigra in cerca di fortuna, e ritorna con racconti di terre lontane.

L’altro giorno vedo arrivare a Kivuli, dove Kabiria Road sta per esaurirsi nella campagna intorno a Nairobi, la mamma di un bambino che era in strada e che qualche mese fa ci è stato portato dalla polizia, pizzicato per aver tentato un furto di biscotti da una bancarella. La signora è tutta in ghingheri, strano per un giorno feriale. Non vorrei essere indiscreto e non le chiedo niente, ma dopo un po è lei che me ne spiega la ragione.”Sai, mio figlio maggiore, Caleb, quello che lavorava come magazziniere con uno stipendio da fame, che non gli bastava neanche per pagare l’affitto di una baracca e quindi viveva nella mia baracca con moglie e due figli, adesso è andato a lavorare a Mogadiscio come logistico per una ONG americana, e ha cominciato mandarmi qualche soldo ogni mese”.

La pace sta tornando in Somalia dopo venti anni di caos, e Mogadiscio è la nuova frontiera per i più intraprendenti lavoratori keniani di livello medio basso. Anni fa chi aveva delle competenze come meccanico, autista, logistico, operatore di computer, o anche semplicemente come affidabile guardiano ed era disposto a correre qualche rischio, cercava lavoro con le ONG che operavano con l’OLS (Operation Lifeline Sudan). Era una vita lontana da casa, segnata da sacrifici e incertezze, con tutti i rischi di una zona di guerra, ma si poteva prendere una salario cinque volte più alto che non in Kenya. Poi c’è stato il momento di Dubai e gli Emirati Arabi, dove cercavano mano d’opera a tutti i livelli ad anche personale con qualifiche superiori. Poi, con il trattato di pace fra Sudan e Sud Sudan, Juba la capitale del Sud, è stata per parecchi anni il nuovo punto di riferimento. Ma adesso l’OLS è chiusa da un pezzo, Dubai e gli Emirati Arabi sono pure vittime della crisi mondiale e la gente non ci va più volentieri per aver sentito raccontare troppe storie di discriminazione, a Juba i keniani erano diventati una presenza talmente ingombrante da provocare reazioni negative. Adesso, per chi è disposto a rischiare, Mogadiscio è il posto più vicino dove si può avere una buona paga senza affrontare le distanze e i rischi di un viaggio in Europa.

La città somala sta rinascendo dalle ceneri. Ovunque ci sono lavori di recupero e ristrutturazione degli edifici danneggiati dalla guerra – praticamente tutti – e se ne tirano su di nuovi. Non tutti gli esperti son convinti che questa fase di pace sia duratura, e che non sia semplicemente un momento di stallo della guerra civile in cui i contendenti stanno rafforzandosi e misurando le forzse degli altri, ma con le recenti avanzate della forza di pace panafricana AMISOM, con la sconfitta di Al Shabaab, la nuova costituzione e le elezioni la speranza che le pace possa durare è credibile.

La mamma di Caleb dice che suo figlio le racconta al telefono di centinaia e centinaia di lavoratori keniani impiegati a tutti i livelli nella ricostruzione della città. I rifugiati somali che ritornano in patria – per approfittare del momento economico favorevole ma anche perché sono stanchi dai continui controlli e pressioni del governo keniano che non perde occasione per far loro capire che ormai è tempo di tornare a casa – sono per lo più scaltri commercianti con pochissime competenze in altri settori. D’altro canto la lunga guerra ha causato la sparizione di tutte le competenze lavorative, e quindi subito dopo essere rientrati i somali chiedono ai loro ex-dipendenti keniani di raggiungerli, come autisti, contabili, operatori di computer, tecnici del telefono, muratori, capomastri, falegnami, cuochi nei ristoranti che stanno riaprendo vicino alle spiagge dove i pirati somali tornano a fare i pescatori.

Ormai, continua la mamma di Caleb, accarezzandosi con orgoglio il bel vestito dai colori sgargianti, sono almeno una trentina gli abitanti di Kabiria Road che si sono trasferiti a Mogadiscio: “Le paghe sono ottime. Pensa che mio figlio prende quasi 400 dollari americani al mese!”

Paternità

Avevo intitolato “Fallimento” uno di questi post, qualche tempo fa, ricordando un desolante incontro che avevo avuto pochi giorni prima con un ragazzo che anni fa avevamo tentato di riscattare dalla strada. Commentandolo, l’amico Alessandro mi aveva giustamente fatto notare che noi non possiamo illuderci di salvare, c’è solo Cristo che salva. Anche se, scriveva Alessandro, comunque “l’uomo deve collaborare al disegno di Dio: mica possiamo stare con le mani in mano ad aspettarla passivamente questa benedetta salvezza”… Si, proprio perché noi non salviamo nessuno, perché siamo cosi incapaci e deboli, e nello steso tempo siamo sempre tentati di crederci al centro del mondo, abbiamo bisogno che i fatti ci ricordino i nostri fallimenti, ma anche che di tanto in tanto qualcuno ci faccia credere che il nostro impegno serva a qualcosa, che Dio lo usi per salvare e per far crescere gli altri.
L’altro giorno ho vissuto uno di questi momenti. A Kivuli, in cucina, stavo lavando un abbondante raccolto di verdure provenienti dall’orto della Casa di Anita. Ero con tre ragazzi, ed uno di loro, che era sempre stato in silenzio, dopo un po mi ha chiesto di parlarmi. Allora sono andato con lui a sedermi sui gradini fuori dalla porta di casa, ed ha incominciato a raccontarmi la sua vita. Non conosce il padre, ha un vago ricordo della mamma che e’ morta quando lui aveva sei anni. E’ cresciuto in casa di uno zio che ha nove figli. Anni di povertà, di fame profonda, permanente, fin quando ha deciso di scappare in strada. Dopo altri tre anni di vita allo sbando, è stato avvicinato in strada dal nostro Bonny che l’ha convinto a venire a Kivuli. Tutte cose che sapevo già, e, sapendole, ho sempre apprezzato come questo ragazzo abbia saputo gestire un passato tanto pesante. “Adesso – mi dice – son qui da otto anni, ne ho ventitré, e se penso alla mia famiglia, ho momenti di sconforto, anzi di disperazione, mi sembra di non valere niente, di essere nato e vissuto per caso. Anche Dio, in quei momenti, aiuta poco. In quesi ultimi tempi sono più tranquillo perché Bernard mi ha chiesto di essere il riferimento per un gruppo di bambini appena arrivati dalla strada, la sera, quando rientro dalla scuola di ragioneria. Mi accorgo che la mia presenza per loro è importante, che mi guardano come ad un esempio, e mi sembra finalmente di avere uno scopo nella vita. Vorrei continuare a fare questo lavoro di assistente sociale per sempre, mi da la certezza che potrò avere dei figli miei e aver cura di loro, farli crescere amati e felici”. Il suo sfogo, che ho riassumo in poche righe, è durato a lungo, inframmezzato da lunghi silenzi e da faticose riprese. Gli confermo che il suo impegno è apprezzato, che in tanti gli vogliono bene. Poi mi dice “Sai padre, hai notato una cosa? Io non ti chiamo mai padre Kizito, ti chiamo sempre e solo padre, fin da quando sono arrivato qui. Vedi, un bambino che chiama suo padre non lo chiama col nome, lo chiama semplicemente padre, perché per lui il padre è quello, e non altri. Io ho sempre segretamente pensato che tu sei veramente mio padre, solo mio. Questo pensiero mi da forza. Voglio che tu sappia che quando io ti chiamo padre lo faccio perché mi sento tuo figlio, non perché tu sei un prete. Posso continuare a chiamarti solo padre? Me ne dai il permesso?”

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