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October, 2008:

Guarire un’ Economia Malata

L’ ultimo libro di Muhammad Yunus, UN MONDO SENZA POVERTÀ’, uscito in Italia lo scorso aprile, e’ lettura importante. Yunus, del Bangladesh, e’ un economista ed e’ diventato famoso per aver fondato la Grameen Bank, o banca di villaggio, che ha ispirato nel mondo intero migliaia e migliaia di progetti di microcredito. Nel 2006 gli e’ stato assegnato il premio Nobel per la pace.

Non e’ il libro di un economista che usa linguaggio da iniziati e note a pie’ di pagina. E’ il racconto di un’ esperienza, e forse, piu’ in profondita’, della sua convinzione che bisogna costruire un’ economia che valorizzi tutti gli aspetti della natura umana. La ricerca della pienezza di vita, o della felicita’ come si dice nella costituzione degli Stati Uniti, non puo’ essere ridotta alla massimizzazione del profitto ad ogni costo.

Scrive Yunus:  “La teoria economica convenzionale, per ricoprire il ruolo di guida dell’ impresa, ha escogitato quell’ essere umano a una dimensione che e’ l’ imprenditore. Lo ha isolato dal resto della vita, separandolo dalla sfera religiosa, da quella delle emozioni, da quella politica e da quella sociale, cosi che non gli resti che occuparsi di una sola cosa, la massimizzazione del profitto. In questo si fara’ aiutare da altri uomini ad una dimensione che gli procureranno il denaro necessario. Per citare Oscar Wilde, si tratta di gente che conosce il prezzo di tutte le cose, ma il valore di nessuna.
…Il mondo moderno e’ cosi ipnotizzato dal successo
del capitalismo che nessuno osa mettere n dubbio la teoria che sta dietro a quel sistema…. In realta’ le cose sono molto diverse.  Le persone non sono entita’ a una sola dimensione, ma esseri sorprendentemente multidimensionali. Emozioni, convinzioni, priorita’, schemi di comportamento formano un pluralita’ che richiama i milioni di sfumature cromatiche che si possono costruire a partire dai tre colori fondamentali”.

Un citazione cosi breve ovviamente non rende giustizia al libro di Yunus che e’ ricchissimo di esempi e di esperienza. E’ cosi concreto da poter essere un manuale per chi si interessa di superamento della poverta’. La sua proposta di impresa sociale e’ la conclusione di un ragionameto ma soprattutto di un’esperienza convincente

Straordinariamente interessante il capitolo in cui racconta passo passo come ha lavorato insieme alla multinazionale Danone per produrre, facendo un profitto che viene reinvestito nel sociale, uno yogurt nutriente, con ingredienti locali, a basso prezzo, di ottimo gusto, ben distribuito e pubblicizzato, che possa aiutare i bambini del sua paese a crescere meglio.

Sembra la realizzazione di un sogno che hanno i tanti che onestamente fanno proposte per superare la poverta’. Lo yogurt ha problemi di conservazione che Yunus ha brillantemente superato potendo contare su attivita’ che gia’ aveva avviato, ma sarebbe bello poter avviare in Kenya o in Zambia un fabbrica di biscotti proteici, gustosi, a basso prezzo, che possano essere venduti con profitto e che rappresentino un supplemento nutrizionale importante per i  bambini. In una fabbrica che usi ingredienti locali e lavoro locale. Ci sono gia’? Si e’ vero, ci sono, e forse anche a basso prezzo, ma sono venduti su un mercato particolare, che e’ quello dell’intervento umanitario, confezionati in pacchi da 15 kg simili quelli del sapone, e sembra che si faccia di tutto per non renderli appetibili ai bambini. E’ un settore di mercato che non interessa a chi vuole fare il massimo profitto, ma che sarebbe interessantissimo per un’ impresa sociale che, facendo profitto, metterebbe sul mercato un prodotto di grandissima utilita’ sociale. Invece gli scaffali dei supermercati di Nairobi e anche delle baracchette di Kibera sono pieni di sofisticati biscotti importati, costosi, magari infarciti di creme tossiche, piu’ ricche di additivi chimici che altro.

Yunus e’ musulmano, ma questa e’ una cosa che non viene mai sottolineata quando lo si presenta. Non so se sia musulmano praticante ma certamente il suo approccio alla societa’ e’ anche profondamente religioso e afferma con la sua esperienza di vita cose che sono molto vicine alla dottrina sociale della Chiesa, al concetto di bene comune, alle proposte di una nuova economia che alcune organizzazioni religiose stanno portando avanti. Ha l’autorevolezza che gli viene da ormai trent’anni di successo della Grameen Bank e di altre decine di iniziative che ha portato avanti in questo tempo. Non gioca a fare il profeta, non lancia anatemi, non prende posizioni preconcette. Sta coi piedi in terra, e anche se negli ultimi capitoli si concede il lusso di sognare, lo fa sempre mentre sta costruendo alternative concrete al dominio del profitto ad ogni costo.

Ho terminato la lettura mentre nel mondo si scatenava il terremoto della finanza, con epicentri negli Stati Uniti e a Londra. Una bella lezione. Chissa’ se l’ abbiamo capita. Leggere Yunus dopo questo fatto puo’ essere una ottima guida per capire meglio come si potrebbe costruire un’ economia piu’ umana.

La Luce

Ieri mattina 35 ragazzi di Kivuli, dai 10 ai 16 anni, sono stati battezzati nella chiesa parrocchiale non lontana da noi. E’ stata una giornata molto bella, in grande semplicità, a conclusione di due anni di catechismo che gli interessati hanno personalmente deciso di seguire sempre nei locali della parrocchia, dalle 5 alle 6 di sera, appena ritornati da scuola, rinunciando magari ad attività come il calcio o le lezioni di karate, o semplicemente a rilassarsi. La sera abbiamo avuto un momento speciale di preghiera in comune, una grande famiglia di oltre sessanta persone, intorno ad un grande cerchio di candele che rappresentavano tutti coloro che sono stati per noi una luce. Hanno pregato per tutti, i genitori, i fratelli e le sorelle, gli amici che sono ancora in strada, quelli che non vanno a scuola, quelli che soffrono per le malattie e la fame, per gli amici che ogni anno vengono a trovarci e a stare con noi. Issa, l’ unico musulmano, ha chiuso con una preghiera lunghissima in cui ha fatto il riassunto di tutto ciò che avevano detto gli altri. Poi una fetta di torta e un bicchiere di succo di frutta,  musica e danze fino quasi alle 11, quando e’ incominciato a piovere ed e’ mancata la corrente. Ma c’era dentro una luce che non si e’ spenta.

Perché’ Kenya ed Etiopia Dovrebbero Annettere e Dividere la Somalia

Il 4 ottobre, nella pagine delle opinioni del Saturday Nation, che e’ il quotidiano di gran lunga più’ importante del Kenya, e’ stato pubblicato un articolo di  Donald B. Kipkorir. Opinione importante, perché’ era di lato ai due editoriali, e perché’ l’ autore contribuisce regolarmente su temi di politica estera.

Il titolo e’ “Why Kenya and Ethiopia ought to annex and divide Somalia”, il titolo che uso anche per questo post. Quando l’ ho letto pensavo si trattasse di una boutade, come a volte il Nation ama pubblicare. Invece no, e’ un pezzo estremamente serio, come lo sono di solito quelli di Kipkorir, e il titolo riflette perfettamente in contenuto dell’articolo, che e’ ancora leggibile nel sito del Nation.

In sintesi, l’ articolo afferma che il continuo disordine in Somalia e’ un pericolo per il Kenya, che, giustamente, e’ da tutti considerato un alleato dell’ occidente, e quindi un nemico fondamentale dei paesi arabi. Annettere la Somalia e’ perciò nell’ interesse strategico del Kenya, e questo e’ il momento opportuno perché il mondo e’ distratto dalla crisi economica. Una Somalia fallita potrebbe risucchiare il Kenya nel caos in cui e’ caduta. La proposta di Kipkorir e’ precisa: Kenya ed Eliotipia dovrebbero dividersi la Somalia usando il 4 parallelo come confine. Non ci saranno  problemi, afferma il nostro autore, e esemplifica col precedente storico degli USA che nel 1845 hanno annesso il Texasprendendolo dal Messico senza che ci fossero reazioni significative (e adesso il “Presidente George W. Bush e’ orgoglioso di essere un Americano-Texano”), tanto meno ci saranno problemi a convincere i legislatori somali, visto che quasi tutti vivono a Nairobi.La conclusione: Il momento di annettere e smembrare la Somalia e’ adesso; Washington e Mosca ce ne saranno grati.

Sono andato a vedere sul sito del Nation le reazioni dei lettori: non ne ho trovata una positiva, ne’ dai keniani ne’ dai somali residenti a Nairobi. Anzi quasi tutte sono rabbiosamente negative, e molti keniani sottolineano amaramente che il Kenya ha già‘ i i sui bei problemi interni, come abbiamo visto quest’ anno, e non e’ il caso di creacene altri, e inoltre certamente il Kenya non può’ sognarsi di aver successo la’ dove hanno fallito gli americani e una serie di forze di pacificazione.

Parlavo di questo articolo con un gruppo di amici keniani, e alla fine, mettendo insieme altri tasselli come l’ evidenza che il Kenya sta riarmandosi e che i mass media internazionali stanno riaccendendo l’ attenzione sulla Somalia, ha prevalso l’ idea che probabilmente questo articolo e’ solo il primo tassello di una campagna per promuovere una “soluzione locale” del problema somalo, preparando l’opinione pubblica keniana per una decisione che e’ già’ stata presa, non in Kenya. Sembra impossibile, ma che sia cio’ che ci aspetta?

I Need the Others

In the early months of this year, young people I knew and had previously taught the basic principles of Christianity were going around in Riruta, brandishing slashers and chanting hate slogans against certain people they perceived as belonging to a different community. It was unfortunately a common sight in Nairobi, especially in the poorer neighbourhoods, where an irresponsible and vicious campaign against “them” found fertile ground in the widespread lack of hope for a better future, and sometimes outright desperation. A very legitimate aspiration and request for social justice had been manipulated and turned into hatred for the “others”.

Now, normality seems to be back. Dozens of meetings, celebrations and festivals have been held around the theme of peace, headlined with such slogans as “Youth for Peace” and “Nyama Choma for Peace”. Yet today, we cannot pretend: there are too many desperate young people who are still ready to return to the streets, to loot, to kill and be killed, as long as they find somebody to incite them or promise a reward. They are culprits and victims – both at the same time – of a society where law and order are too often allied with injustice and corruption, and we are scared of the evil forces they have inside them. We know that given the chance, the same demons could be unleashed again. We are even more afraid because we are fully aware that the same negative forces are also present within each one of us. This is obviously not simply a Kenyan issue, it is a human issue. We have seen foreign workers being targeted in South Africa, while in Europe, especially in Italy, public opinion has been manipulated into seeing the foreign immigrants as the root cause of all problems of insecurity and crime.

We are all susceptible to manipulation, especially in cases where the “others” are depicted as a threat to “me”, “my identity” and “my possessions”. The “others”, we are told, want “my home”, “my land”, and “my women”. They want to crush my very “self”, taking from me the values that give consistency and certainty to “my life”.

We are all very sensitive to this kind of talk, and vulnerable because it touches us at the deepest, innermost self, and can elicit an instinctive, unreasoned reaction.

This is the basic “clash of civilizations” that we face today: either we choose to close ourselves into our personal, tribal, cultural, national or religious identities, rejectin interreaction with the others, or we make a conscious effort to open up to new ways of reciprocal acceptance, tolerance  and collaboration. It is a choice between a civilization of exclusion or a vision of inclusion, based on all that is common to human beings.

Kenya has more than its fair share of bigots and fanatics, but the proof that this is a universal problem is in the fact that the two opposite visions have been clearly summarized by two European intellectuals, both French. They looked at their own society a few decades back, and while  Jean-Paul Sartre in his play No Exit wrote the famous line “L’enfer, c’est les autres”, or “Hell is other people”, the theologian Michel de Certeau wrote: “The other is the one without whom living is no life”.

There is no need for me to say that I agree with de Certeau. My Christian faith teaches me what I have been trying to teach to the youngsters of Riruta, “Love your neighbor as you love yourself,” and in the Sermon of the Mount, Jesus tells me that a positive, loving relationship with the “others” is the only path to reach and see God. How could I ever live without the “others” and the “Other”?

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