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Sinodo Africano / African Synod

The African Synod: A Task for the Future

Waiting for the Second Synod for Africa

Il Secondo Sinodo Africano

Il Secondo Sinodo Africano si terrà nel prossimo mese di ottobre a Roma. Il tema scelto da Benedetto XVI é: “La chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”.
Quando era stato annunciato il primo Sinodo Africano, tenutosi nell’aprile del 94, in drammatica quanto imprevista coincidenza con il genocidio Ruandese e la fine dell’apartheid in Sudafrica, erano nate grandi speranze che il Sinodo sarebbe potuto essere l’inizio di una nuova era per la chiesa africana. Non solo teologoi e vescovi africani, ma anche personalità di grandissimo rilievo come il teologo Bernhard Haring, avevano cominciato a sognare di un rito africano e di un Patriarcato per l’Africa, sul modello delle chiese orientali. Cosi non è stato. Il primo sinodo africano ha approvato, e disinnescato, la bomba dell’inculturazione, ancorando sicuramente la chiesa africana nel rito latino.Ma ha anche confermato, attraverso i numerosi interventi in aula sul tema della giustizia, l’impegno delle chiesa africana per la trasformazione del sociale, che fino ad allora alcuni osservatori consideravano come una dimensione minore nella vita della chiesa africana.
Ricordo, dopo la conclusione del primo Sinodo Africano, il commento disincantato di un Cardinale: “Ormai tutti i Sinodi sono diventati uno strumento di controllo e normalizzazione, non sono fatti per aprire a nuove pratiche pastorali, tantomeno a nuove visioni. Servono ad abbassare tutti al minimo comun demnominatore”.
Anche per questo imminente Sinodo Africano il lavoro preparatorio immediato non è stato particolamente approfondito e non ha neppure coinvolto un gran numero di fedeli. Ma, nonostante queste insufficienze ci sono delle premesse che possono far sperare in un Sinodo che superi la normale routine.
Innanzituto il tema, che ha una enorme rilevanza per la vita dell’Africa d’oggi. Anche se in Africa ci sono delle grandi isole di tranquillità e segnali di avvio verso condizioni di vita più giuste per tutti, non si può negare la presenza e la ricorrente esplosione di gravissime ingiustizie sociali e mancato rispeto di diritti umani, di guerra e violenza come metodo di soluzione di ogni tipo di conflitto, di una classe politc e dirigenziale tanto corrotta quanto incpace. Recentemente alla lista dei mali africani si sono aggiunti i disastri ecologici. Certamete non si può puntare l’atenzione solo su carestie, rifugiati, o sulle piste di migranti migranti in movimento verso l’europa alla ricerca di una vita più umana, ma non si può neanche negare che questi siano i grandi fallimenti su ciu l’Africa ha bisogno di riflettere e di fare dei programmi di azione.
E’ proprio su quesi temi che sta emergentdo una riflessione di laici che sta lentamente cambiando la\ percezione della realtà: I responsabili non sono più le vecchie e nuove dominazioni ma siamo noi. Per esempio lLe commissioni “Giustizia Pace” costitute dalla chiesa a livelo nazionale e diocesano – qualche voltea anche parorchiale – sono ancora fragili e sono riuscite a fare solo pochi passi concreti. Ma hanno fatto esperienza, sono vive e attive, e potenzialmente potrebbero mobilitarsi intorno ad un programma comune di formazione e azione. Oltre a queste commissioni ci sono una miriade di iniziative per giustizia, pace e riconcilaizion, magari spesso spesso condotte in modo velleittario, che però rappresentano un capitale importante di buona volonta e con le quali si può collaborare e ripartie isieme. In particolare non dovrebbero essere trascurate le iniziative di questo tipo nate nell’ambito del mondo musulmano. Questa ricca esperianza di vita potrebbe essere la solida base su cui il sinodo africano potrebbe costruire un programma e una visione.
I vescovi africani, sopratutto negli ultimi due decenni, sono stati stati sempre più partecipi della turbolenta storia africana. A volte ne sono stati vittime, anche pagando con la vita, a volte, purtroppo in qualche caso è successo, sono stati dalla parte dell’ingustizia e dei carnefici. Ma questa turbolenza li ha simolati a parlare e scrivere sui temi fondamentai della pace, delle ingiustie sociali, sfruttamento dei poveri, diritti umani, violenza, tribalismo, unità nazionale, bene comune, servizio. Da quanto so, sono stati fatti pochi tentativi di raccogliere e analizzare questa imponente massa di insegnamento episcopale e livello di tutta l’Afirca, e perfino i documenti preparatori del Sinodo l’ hanno sostanzialmente ignorato, ma sarà comunque presente in aula sinodale nella persona degli stessi vescovi e non potrà mancare di venire alla luce.
Infine c’è la grande rihceza di un magistero papale che su questi temi è continuativo, coerente, avanzato, elaborato senza essre chiuso. Un magistero che ha avuto il coronamento nella recente enciclica di Benedetto XVI “Caritas in Veritate”. Se il sinodo di ottobre riuscisse anche solo a “inculturare” per l’Africa questa enciclica sarebbe già un grande successo. Tra l’altro in essa ci sono delgi spunti nuovi, come per esempio quando il Papa introduce nel discorso economico il dono e la grauità. considerato da alcuni come elementi fondanti dell’economia tradiziale africana. Basti ricodare il libro di Serge Latouche, L’Autre Afrique, entre don et marché, del 1998.
Quindi la chiesa africana sa di avere non solo il dovere di riflettere e di dare indicazioni sui temi di giustizia pace e riconcilaizione, ma anche di avere il diritto e l’autorevolezz di proporli all’attenzione di tutti. Poche altre istituzioni africane possono vantare uno “stato di servizio” paragonabile a quello della chiesa in simili questioni. E ciò non è dovuto solo alle sue dichiarazioni ufficiali, ai trattati di teologia, ai seminari e simposi indetti sull’argomento, ma anche – e soprattutto – al sudore e al sangue di migliaia di fedeli e comunità che hanno profuso energie, offerto amore e, in alcuni casi, sacrificato la propria vita per costruire una società più giusta, riconciliata e rappacificata.
I segnali di debolezze non mancano. Primo fra tutti, perchè segno di una pesantissima dipendenza dall’esterno, la debolezza economica che diventa poi dipendenza in campi ben più impotanti per la chiesa. Cosi il SECAM (Symposium of Episcopal Conferences of Africa and Madagascar), l’istituzione a livello più alto della chiesa cattolica africana, ha dovuto annunciare a fine agosto di annullare la propria 15sima Assemblea Plenaria che si sarebbe dovuta tenere a Frascati nei giorni immediatamente precedenti il Sinodo. Avrebbe potuto essere un momento di coodinamento degli interventi pù importanti, oltre a portare avanti il normale coodinamento. Era stata prevista in questo periodo per poter approffittare della presenza dei vescovi a Roma e non gravare i costi delle diocesi con un latro biglietto aereo per il vescovo. Eppure l’annullamneto è dovuto al fatto che i vscovi africani non ce la fano a pagare di tasca propria una decina di giorni in pesnioni di sandad medio.
E’ una situazione che la dice lunga sulla dipendenza di una chiesa che non ha i fondi per oganizzare i propri incontri.
Le debolezze non possono non far riconoscere alla chiesa africana una fondamentale coerenza, una una prontezza d’impegno tra la gente in termini d’interventi caritativi rivolti a tutti, a prescindere dal tipo di affiliazione, e una decisa volontà di lottare per la creazione di uno stato di diritto e spingere i governi a orientare le proprie politiche verso la protezione dei gruppi più deboli e vulnerabili.
Il cammino che la chiesa africana deve affrontare per superare gli ostacoli dei condizionamenti storici e culturali è ancora lungo. Ma questo sinodo, magari proprio perchè ci si aspetta ben poco, potrebbe sorprenderci con qualcosa di profetico.

Giustizia e pace, cioè chiesa

Le comunità cristiane e le gerarchie sono impegnate nella costruzione di una società più giusta e riconciliata. E quando sbagliano, com’è accaduto di recente in Kenya, sono pronti a fare ammenda. È giusto, perciò, che il Sinodo sia incentrato su questi temi.

Il tema scelto da Benedetto XVI per il secondo Sinodo africano (ottobre 2009) è certamente azzeccato: “La chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. Mai come oggi questi tre valori appaiono di capitale importanza per l’intero continente. La chiesa sente di avere non solo il diritto di proporli all’attenzione di tutti, ma anche l’autorità morale per dire la sua al riguardo. Poche altre istituzioni africane possono vantare uno “stato di servizio” paragonabile a quello della chiesa in simili questioni. E ciò non è dovuto solo alle sue dichiarazioni ufficiali, ai trattati di teologia, ai seminari e simposi indetti sull’argomento, ma anche – e soprattutto – al sudore e al sangue di migliaia di fedeli e comunità che hanno profuso energie, offerto amore e, in alcuni casi, sacrificato la propria vita per costruire una società più giusta, riconciliata e rappacificata. Anche a livello di gerarchie, notevoli gli sforzi compiuti. Basti pensare alle azioni e alle prese di posizione delle conferenze episcopali di Mozambico, Sudan, Rd Congo e Nord Uganda.
Particolarmente illuminante è il caso Kenya dopo le violenze innescate dalle elezioni presidenziali del 27 dicembre 2007. I vescovi cattolici (ma anche i responsabili delle altre denominazioni cristiane) sono stati colti di sorpresa dallo scoppio delle rivolte e sono apparsi del tutto incapaci di svolgere un ruolo guida. In quelle lunghe settimane di totale confusione e di scontri, invece, folti gruppi di semplici fedeli hanno saputo fare la cosa giusta: hanno invitato alla pace, raccomandato la riconciliazione e offerto ospitalità e assistenza a migliaia di senzatetto e feriti.
Oggi, otto mesi dopo, decine di migliaia di persone vivono ancora in campi per sfollati, condannati all’odiosa condizione di “rifugiati in patria”. Mentre il governo di coalizione occupa il suo tempo a gestire la routine amministrativa e a superare alla bell’e meglio le periodiche mini crisi politiche, questa gente è dimenticata.
In verità, l’intera faccenda dei profughi è stata relegata in fondo alla lista delle preoccupazioni dei politici appena la polvere degli scontri interetnici (1.500 vittime e 350mila sfollati) si diradò. L’assillo dei grandi era di giungere al più presto un accordo per un governo di colazione. Che è nato mastodontico: guidato dal presidente, Mwai Kibaki, e dal leader dell’opposizione, Raila Odinga, il nuovo gabinetto conta 42 ministri e 52 vice ministri. Stampa nazionale e organismi della società civile l’hanno subito definito «malato di elefantiasi» e «costosissimo».
Impazienti di mettere in moto la complicata macchina amministrativa, i due leader si sono affrettati a varare un avventato piano di rimpatrio degli sfollati. A nulla sono valsi gli appelli di alcuni parlamentari perché si esaminassero a fondo i fattori che avevano portato a uno spargimento di sangue senza precedenti. Kibaki e Odinga hanno inviato automezzi militari per riportare gli sfollati alle loro case. E la televisione ha dato loro una mano: per giorni, i telespettatori hanno visto immagini di gente bramosa di saltare sui camion, di mamme e bambini che venivano aiutati a salire sugli autocarri, di distese di tende della Croce Rossa ormai deserte… I volti sorridenti sui teleschermi erano messaggi di speranza e, per un breve momento, si pensò che l’operazione fosse un successo. Subito, però, sono cominciate a circolare lamentele: gli sfollati stavano lasciando i campi di raccolta dietro intimidazioni. Asserzioni pesantissime, rimaste senza conferma fino al momento in cui l’associazione Medici senza frontiere ha fornito prove inconfutabili.
A fine luglio, la Croce Rossa stimava a 70mila le persone rimaste nei campi e asseriva che molte di esse erano fatte oggetto di minacce di morte da parte degli abitanti locali «alquanto etnocentrici».
Mentre un significativo risarcimento agli sfollati rimaneva – e tuttora rimane – di là da venire, il primo ministro Odinga, appoggiato da parlamentari della provincia della Rift Valley, ha dato il via a un’accesa controversia, suggerendo di concedere, «in nome della riconciliazione nazionale», un’amnistia generale a tutti i sospettati di violenze e omicidio, arrestati dopo i disordini post-elettorali. Il presidente Kibaki ha rigettato la proposta. La diversità di vedute in tema di amnistia è data dal fatto che la grande maggioranza degli arrestati proviene dalla Rift Valley, roccaforte del Movimento democratico dell’arancia (Odm), di Odinga, mentre le vittime sono state per lo più originarie della Provincia centrale e appartenenti al gruppo etnico kikuyu, quello del presidente. Così, la disperata situazione dei rifugiati è gradualmente scemata dall’attenzione pubblica, per essere riesumata – di tanto in tanto, e sempre ad arte – per motivi politici.

La buona strada
Ma la chiesa ha mantenuto il suo impegno per gli sfollati: ha offerto assistenza alle vittime e rinnovato i suoi sforzi per la riconciliazione e l’educazione alla pace. Le piccole comunità cristiane si sono attivate per promuovere la tolleranza etnica prima, durante e dopo i disordini. Il Consiglio dei Superiori maggiori degli istituti religiosi s’è preso l’impegno di identificare le radici degli scontri etnici e di suggerire via d’uscita dall’empasse. Tra le proposte: impegno del governo a diminuire la povertà, nuova costituzione, decentramento del potere politico, creazione di tribunali speciali incaricati di cercare la verità dei fatti e ristabilire la giustizia, maggiore responsabilità dei mezzi di comunicazione. La diocesi cattolica di Eldoret – al centro degli scontri interetnici – s’è distinta nel provvedere alloggio, cibo, vestiario e medicine a migliaia di senza tetto accampati nell’ampio cortile antistante la cattedrale dedicata al Sacro Cuore. Tutt’oggi, il vescovo, Cornelius Korir, e l’intera comunità diocesana sono impegnati in campagne di pace e riconciliazione per mobilitare la popolazione contro ogni forma di tribalismo.
Il cardinale John Njue, arcivescovo di Nairobi e presidente della Conferenza episcopale kenyana, il 16 giugno ha fortemente criticato l’appello fatto da alcuni politici per un’amnistia generale, spiegando che «l’impunità è da troppo tempo un problema che attende una soluzione».
Alcune istituzioni cattoliche, sotto il coordinamento della Conferenza episcopale e con la partecipazione di numerose personalità nazionali provenienti dai più svariati ambiti sociali, ha varato un’iniziativa che ha lo scopo di promuovere e facilitare il processo di guarigione e riconciliazione tra le diverse comunità etniche. L’attenzione verrà data alle aree e alle città più colpite: Nairobi, Nakuru, Kericho, Kitale, Eldoret, Kisumu e Kisii.
Le chiese cristiane e i loro leader hanno commesso errori, il più grave dei quali è stata l’incapacità di cogliere il livello di odio tribale raggiunto durante la campagna elettorale e di avvertire la popolazione. Sta di fatto che, una volta ritornata la calma, tutte le chiese, cattolica inclusa, hanno pubblicamente riconosciuto le proprie colpe e chiesto perdono alla nazione «per la nostra mancanza di oculatezza e di guida». Cosa che si sono guardati bene dal fare i leader politici che, dopo aver incitato i propri sostenitori alla violenza, siedono oggi in parlamento o occupano posizioni di governo, del tutto dimentichi del destino degli sfollati.
Anche il documento finale della 16a Assemblea plenaria dell’Amecea (riunisce i membri delle Conferenze episcopali dell’Africa orientale), tenutasi a Lusaka (Zambia) dal 27 giugno al 7 luglio, sembra aver fatto tesoro della lezione kenyana. Il testo è chiaro e concreto, con un taglio decisamente “politico” (nel senso migliore del termine). I vescovi, tra le altre cose, hanno deliberato di stabilire regolari contatti (attraverso uffici di collegamento) tra le chiese e i parlamenti nazionali in vista di un costante dialogo su questioni costituzionali e legislative. Forte anche la richiesta di una presenza delle chiese (con la qualifica di osservatori) a livello di Unione africana e di altri organismi regionali.
I vescovi hanno sollecitato tutte le istituzioni cattoliche «a dare priorità alla formazione di leader a tutti i livelli della società» e chiesto ai fedeli laici, forti delle rispettive competenze, non solo «di provvedere dati e analisi scientifiche tali da informare adeguatamente le chiese e di metterle nella posizione d’intervenire tempestivamente», ma anche di «suggerire strategie e sviluppare meccanismi di monitoraggio e di valutazione dell’efficacia dei vari piani pastorali».
Nonostante le non poche debolezze, vanno riconosciute alla chiesa africana (grazie soprattutto al suo vivace laicato) una fondamentale coerenza, una capacità di sguardo prospettico e una prontezza d’impegno tra la gente in termini d’interventi caritativi rivolti a tutti, a prescindere dal tipo di affiliazione, e una decisa volontà di lottare per la creazione di uno stato di diritto e spingere i governi a orientare le proprie politiche verso la protezione dei gruppi più deboli e vulnerabili. Tutto questo fa sì che la chiesa «continui a godere di una grande credibilità presso le popolazioni africane» (Lineamenta 6). Per molti, «essa resta l’unica realtà che funziona ancora bene e permette alle popolazioni di continuare a vivere e sperare in un futuro migliore» (ib.). C’è solo da augurarsi che il secondo Sinodo contribuisca a renderla ancora più acuta nella sua comprensione della realtà e più efficace nei suoi interventi.

Scusate, e il Dialogo?

La notizia sorprende: il corso di Studi islamici al Tangaza College di Nairobi è stato sospeso per mancanza di studenti. Creato nel 1989 dai Missionari d’Africa (già Padri Bianchi) presso il Pontificio istituto di studi arabi e islamici (Pisai) di Roma, il corso si proponeva di offrire una sostanziosa conoscenza dell’islam e una formazione al dialogo ad agenti ecclesiali di pastorale che lavorano in ambienti islamici. Dato che la maggioranza degli studenti provenivano dall’Africa, nel 2000 fu deciso di trasferire il corso al Tangaza College di Nairobi, un’istituzione universitaria fondata dagli istituti missionari e religiosi presenti in Africa Orientale. Nei primi tre anni, solo due o tre studenti s’iscrissero al corso a tempo pieno. Dal 2004, però, non c’è stato più alcun studente iscritto a tempo pieno al corso. Oggi, gli insegnanti – tutti altamente qualificati – si limitano a offrire corsi complementari (opzionali) agli studenti della facoltà di teologia. Corsi anche frequentati e molto apprezzanti, non si discute. Ma è scontato che non formano a una “competenza specifica” per il dialogo interreligioso.

Questa sospensione è un segno che, a oltre 40 anni dalla promulgazione della Dichiarazione sulle relazioni della chiesa con le religioni non cristiane, Nostra Aetate, del Concilio Vaticano secondo (ottobre 1965), il dialogo islamo-cristiano non è ancora considerato una priorità?

Una lettura attenta dei Lineamenta per il prossimo Sinodo africano sembra giustificare questa domanda. Nella versione stampata che circola in Kenya, una sola delle 66 pagine e una sola delle 32 domande del questionario allegato sono dedicate alle relazioni con l’islam. E questo, per preparare un sinodo che intende esaminare la situazione di un continente in cui la religione del Corano vanta una consistente presenza in moltissime nazioni (Somalia, Sudan, Editto, Tunisia, Algeria, Marocco, Senegal, Gambia, Mali e Niger sono a stragrande maggioranza musulmana).

Ne parlo con padre Paul Hannon, dei Missionari d’Africa, una vita intera dedicata all’incontro con l’islam e, fino a poche settimane fa, coordinatore del dipartimento di Studi islamici del Tangaza College. Sta per ritornare in una grande parrocchia di Khartoum, dove spera di poter esercitare il proprio ministero al servizio della comunità cristiana e degli amici musulmani.

Spiega così il mancato successo del corso di studi islamici. «Una ragione potrebbe essere l’elevato costo della vita a Nairobi. Ma il motivo principale è che l’incontro con il mondo islamico non è una priorità dei vescovi e delle congregazioni religiose, specialmente in paesi, come il Kenya, dove i musulmani sono una minoranza. La loro presenza non costituisce una minaccia e non si avverte la necessità di confrontarsi con loro. Così, però, si perde una grande opportunità di instaurare relazioni. In nazioni, come il Sudan, dove la chiesa ha sofferto persecuzione e marginalizzazione per mano di maggioranza islamica, si preferisce mantenere le distanze. Non mi permetto di giudicare chi ha patito grandi sofferenze. Credo, comunque, che le difficoltà vadano affrontate e superate, aumentando le occasioni d’incontro e di condivisione, che già esistono».

 L’incontro sul sociale

Eppure, il dialogo con il mondo islamico sembra ormai avviato, anche se l’atmosfera non è sempre serena e distesa. Dopo la lectio magistralis di Benedetto XVI a Ratisbona nel settembre 2006, 38 saggi islamici hanno inviato una prima lettera a commento (ottobre 2006) e, un anno dopo, una seconda lettera (sottoscritta da 138 saggi, diventati in seguito 216), per cercare un terreno comune di collaborazione fra cristiani e musulmani. A sua volta, il 19 novembre scorso, Benedetto XVI ha risposto alla lettera dei 138, aprendo a una possibile collaborazione su diversi campi. Gli incontri ad alto livello si sono susseguiti con un fitto calendario. L’ultimo (a Roma, alla fine di aprile) ha visto otto delegati dello Islamic Culture and Relations Organization di Teheran discutere con i vertici del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso su “Fede e ragione nel Cristianesimo e nell’ Islam”. Insomma, un vero “dialogo di civiltà” sta lentamente emergendo, ben diverso dallo “scontro delle ignoranze” che è, invece, alimentato da chi, in entrambe le parti, si rifà a luoghi comuni.

Secondo padre Hannon, non bisogna trascurare le possibilità di collaborazione islamo-cristiana che si presentano nelle vita quotidiana: «A livello di base, prima d’incominciare a parlare di dialogo, bisognerebbe parlare d’incontro. Innanzitutto, diventando consapevoli che, ovunque in Africa, intorno a noi ci sono musulmani. Bisogna saper “vedere” questa presenza e riconoscerla, per poi promuovere occasioni d’incontro, non necessariamente su temi religiosi, bensì su temi sociali d’interesse comune, quali giustizia e pace, diritti umani, sviluppo economico e uguaglianza sociale. Per citare un esempio: i recenti gravi problemi riscontrati in Kenya avrebbero potuto diventare un’occasione di comune riflessione e azione. In Kenya ci sono alcuni musulmani aperti e illuminati, con i quali è possibile incontrarsi e incominciare un confronto fraterno su questi temi».

 Qualcosa si muove

Questo incontro è potenzialmente più facile e fruttuoso proprio in Africa, dove le comunità islamiche hanno spesso assorbito lo spirito di tolleranza e la capacità di convivenza tipica delle culture tradizionali. Basti pensare all’islam delle comunità senegalesi e, in genere, della regione saheliana.

Padre Hannon parla con entusiasmo del positivo lavoro svolto dell’Associazione interconfessionale del Kenya, di ciò che viene fatto da suoi confratelli a Tandale alla periferia di Dar es Salama (Tanzania), nonostante le resistenze e incomprensioni di alcuni leader musulmani, e delle varie esperienze di dialogo interreligioso in atto in Uganda, dove diverse organizzazioni civili e religiosi, sia cristiane che musulmane, s’incontrano ogni mese all’università di Makerere, pubblicano la rivista trimestrale Together e organizzano in ogni parte del paese seminari sulla necessità dell’incontro tra le due religioni: una collaborazione, questa, che ha convinto perfino alcuni membri del Supremo consiglio islamico dell’Uganda che il dialogo non è una strategia segreta della chiesa cattolica per convertire i musulmani.

Parla soprattutto della sua esperienza personale a Hajj Yousif, alla periferia di Khartoum, sulla strada per Kassala. «È una parrocchia difficile, dove l’atmosfera può infuocarsi facilmente. Nell’agosto del 2005, quando John Garang, leader della lotta di liberazione del Sud Sudan, perse la vita in un incidente di elicottero da molti considerato frutto di un sabotaggio da parte delle forse islamiche sudanesi più intransigenti, in città si ebbero violenze, omicidi e saccheggi. Un anno dopo, tuttavia, sia pure fra molte difficoltà, abbiamo ottenuto, per la prima volta dopo decenni, l’autorizzazione a costruire una chiesa».

Il tema del prossimo sinodo è “La chiesa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. Due le possibili vie da percorrere in materia di relazioni tra cristiani e musulmani. Innanzitutto, c’è la via della riconciliazione fra le due religioni: dobbiamo imparare a riconoscerci, a guardarci negli occhi, ad avere il coraggio di mettere sul tavolo tutte le negatività del passato (divisioni, conflitti, perfino stragi in nome della religione, come accadde a Mombasa, sulla costa del Kenya, nel 17° secolo), per poi incominciare a considerare ciò che ci unisce più che ciò che ci separa, come le comuni origini e la fede nello stesso Dio. A Mombasa c’è un’iniziativa diocesana per bambini di strada che, con una felice intuizione, è stata intitolata “Figli di Abramo”.

L’altra via è quella dell’azione comune al servizio della giustizia e della pace, in cui credenti di ambedue le religioni s’impegnano per il bene di tutti. Non si tratta di un sogno. Una intesa è possibile: basta decidere. Riferendosi ai progressi fatti negli ultimi anni, padre Hannon sottolinea: «Risultati positivi si sono avuti dove singoli o gruppi cristiani si sono lanciati in azioni coraggiose, lasciandosi guidare dallo Spirito e non da altri interessi».

Per quanto riguarda i Lineamenta, si può solo sperare che il testo – penosamente inadeguato, anche solo come strumento per una iniziale riflessione sul possibile incontro e su una fattiva collaborazione fra cristiani e musulmani – venga sostanzialmente migliorato attraverso i contributi inviati alla segreteria del Sinodo dall’episcopato africano, e che l’Instrumentum laboris, il testo che servirà come base per la discussione sinodale, offra una visione più articolata e, nello stesso tempo, più profetica.

I Lineamenta e la Società Africana: un’Analisi Zoppa

Nel documento preparatorio al Sinodo mancano un’approfondita valutazione dell’impatto che il primo sinodo ha avuto sulla vita delle chiesa e un serio esame della situazione presente. Il pericolo è che da valutazioni generiche non potranno che scaturire visioni e proposte altrettanto generiche e inefficaci.

Il primo capitolo dei Lineamenta per il prossimo Sinodo africano – “L’Africa all’alba del 21° secolo” – è forse il più debole dell’intero documento. L’analisi proposta della situazione dell’Africa odierna elenca “alcune evoluzioni positive” (6-7) e “alcuni sviluppi negativi” (8) avvenuti dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica Ecclesia in Africa (1995), identifica “alcune priorità a livello socio-politico, socio-economico e socio-culturale” (10-23), esamina il ruolo che le religioni tradizionali africane, l’islam e le altre denominazioni cristiane possono dare “al servizio della riconciliazione, della pace e della giustizia in Africa” (24-29), e conclude con alcune impegnative domande e un primo abbozzo di risposta.

Nel capitolo ci sono 20 note di riferimento: 6 a discorsi e documenti papali, 11 ai Lineamenta, all’Instrumentum laboris e documento finale del primo sinodo, 1 al sito Internet del Symposium delle conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam), 1 all’annuario statistico della chiesa e 1 alla beata Elisabetta della Trinità, suora e mistica francese morta all’inizio del secolo scorso.

Tutto il capitolo è una enumerazione ragionata di fatti e di grandi tendenze, senza, però, un vero tentativo d’interpretazione. Un mero elenco – neppure esaustivo – che potrebbe essere fatto senza difficoltà da un giornalista mediamente competente sui fatti africani. Sorprende la totale assenza di voci che non siano strettamente ecclesiastiche. Ed è su questo elenco di fatti e autocitazioni che sono sviluppate le prospettive teologiche dei capitoli successivi.

Se si vuole fare teologia e suggerire proposte di programmi pastorali che incidano, è necessaria un’attenta analisi della società africana odierna. Un sinodo, del resto, intende un momento di autocomprensione e di presa di coscienza delle situazioni di un dato momento in vista di un maggiore impegno nel futuro. In caso contrario, si rischia – come è successo con il primo sinodo – di produrre un documento finale che non sa provocare veri cambiamenti.

Un’approfondita valutazione dell’impatto che il primo sinodo ha avuto sulla vita delle chiesa e una seria analisi della situazione presente non sembrano essere state fra le priorità degli estensori dei nuovi Lineamenta. Forse questi hanno voluto lasciare il compito al sinodo stesso. Ma l’esperienza di simili precedenti assisi induce a dubitare che un lavoro del genere possa essere fatto in aula. Sta di fatto che da analisi generiche non potranno che scaturire visioni e proposte generiche e inefficaci.

Il successo della teologia della liberazione in America Latina è dovuto al fatto che essa è nata e fiorita da un’analisi della società ampiamente condivisa da comunità cristiane, congregazioni religiose e vescovi. Insomma, una riflessione con profonde radici nel popolo cristiano.

In Africa, invece, un’analisi della società e dei problemi odierni non è stata ancora proposta, tanto meno condivisa. Se si parla con i cristiani del Sud Sudan – da poco usciti da una guerra civile, ma tuttora a rischio di ricaderci – sorprende notare come la loro analisi socio-politica si rifà esclusivamente alle posizioni dell’Esercito di liberazione del popolo sudanese (Spla) o di altri partiti. Non sono ancora capaci di formulare una propria visione della società che sia influenzata dalla fede cristiana: il messaggio evangelico viene “tirato in ballo” come cappello finale, senza alcuna efficacia storica.

La stessa cosa è balzata agli occhi durante la recente crisi del Kenya. In interviste alla radio si sono udite allucinanti dichiarazioni di cristiani: ammettevano di aver preso parte all’uccisione di persone o di aver bruciato le case di vicini per costringerli ad andarsene, affermavano di essere pentiti, ma s’affrettavano ad aggiungere che avrebbero rifatto le stesse cose se i vicini fossero tornati. La maggioranza dei cristiani kenyani è stata vittima di una esasperata interpretazione tribalistica dei fatti: non hanno capito che tale interpretazione nascondeva una sporca guerra per il potere economico delle due parti in causa, né la presenza di forze esterne, guidate da interessi particolaristici. Un tragico scollamento fra vita e fede, questa seconda intesa solo come guida per opzioni morali personali.

Il sta proprio nella mancanza di un’analisi sociale e di un “giudizio” cristiano condiviso sulla storia presente. Gli stessi leader religiosi spesso sembrano incapaci di vedere al di là del proprio angolino di mondo, troppo coinvolti nella loro piccola realtà tribale: avere una nipote che ha sposato un certo uomo politico può significare la possibilità di scorciatoie nelle pratiche burocratiche, non ricusando forme di corruzione (magari non a livello di mazzette, ma di scambi di favori e di silenzi colpevoli).

Se riteniamo indispensabile una presenza cristiana nel campo sociale, allora è necessario far crescere la consapevolezza dei problemi, delle ingiustizie, delle forze che sfruttano l’Africa solo come campo di battaglia.

In un recentissimo saggio, che ha il pregio di tentare di capire le ragioni delle guerre africane (L’Africa in guerra – I conflitti africani e la globalizzazione, Baldini Castoldi Dalai Ed., Milano, 2008), Alberto Sciortino scrive: «Le guerre africane, se non ci si vuole fermare agli aspetti apparenti e superficiali, sono interpretabili a tre livelli. Un primo livello è quello della lotta per la conquista del potere all’interno del ceto politico continentale: in questo senso la grande diffusione della conflittualità e della corruzione tra le classi dirigenti sono due aspetti degli stessi processi. Un secondo livello è quello del controllo dello sfruttamento delle risorse, spesso illegale anche se praticato dai governi: questo sistema economico implica la guerra come suo elemento costitutivo (…) modifica a proprio vantaggio l’intera struttura produttiva delle aree interessare e crea nuovi equilibri sociali che tendono a perpetuare i conflitti. Il terzo livello è quello degli interessi strategici delle potenze nel quadro dell’economia globalizzata, a cominciare dalla contesa per le risorse energetiche».

È solo un esempio – più o meno condivisibile – di un tentativo di capire. Sarebbe importante che il prossimo sinodo, dedicato non solo alla riconciliazione, ma anche alla giustizia e alla pace, ci regalasse una visione condivisa di quello che sta succedendo in Africa e di come potremmo reagire come cristiani. Se è troppo chiedere questo, si potrebbe almeno cominciare a muoverci in quella direzione, avviando un processo che renda i cristiani africani attori più informati e consapevoli della storia odierna.

Verso il sinodo Africano – La Parola agli Oppressi

L’appuntamento per il secondo Sinodo Africano, nel 2009, avrà come titolo “La chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. Due i soggetti da ascoltare: le vittime e gli esperti di pace. La chiesa deve evitare la visione sterile sull’Africa contenuta nei Lineamenta e non può temere di affrontare la questione tribale.

Nell’aprile del 1997, tre anni dopo il genocidio rwandese e la celebrazione del Primo sinodo africano, la chiesa africana tenne a Nairobi una “Consultazione sulla crisi nella regione dei Grandi Laghi”. Fu un evento ad altissimo livello, finanziato dal Vaticano e organizzato dal Simposio delle conferenze episcopali dell’Africa e del Madagascar (Secam), vide la presenza di una decina di cardinali (africani e rappresentanti delle congregazioni romane) e di circa sessanta tra vescovi e arcivescovi di tutto il continente. La stampa, però, non fu ammessa, a motivo della riservatezza e importanza dei temi trattati.
L’incontro avrebbe dovuto essere l’occasione per un serio esame di coscienza sulle responsabilità che la chiesa stessa – nelle persone di alcuni vescovi, preti e suore – aveva avuto negli eventi del Rwanda. Tutti si aspettavano che una cosi alta consultazione potesse produrre un documento forte e dare indicazioni concrete su come la chiesa si debba porre e debba agire di fronte alle guerre etniche.
Invece, il documento finale – una decina di pagine – è di una povertà sconcertante: un susseguirsi di luoghi comuni, di pie esortazioni e di generiche e scontate raccomandazioni, per di più espresse con un linguaggio timido e timoroso.
La prima raccomandazione, incredibilmente, chiese «alla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli di continuare a sostenere i vescovi di questa regione con aiuti speciali e far crescere nelle chiese sorelle di tutto il mondo la consapevolezza della necessità di una generosa solidarietà con queste chiese vittimizzate». L’aver messo in cima alla lista delle raccomandazioni la richiesta di fondi evidenziò, ancora una volta, una malsana mentalità di dipendenza: più che pensare alla formazione delle persone e all’uso delle risorse umane locali, si fece appello all’elemosina. Chi lesse il documento non percepì l’urgenza di avviare programmi concreti per educare la gente alla riconciliazione, alla convivenza e alla pace.
Solo alla fine, come ultima raccomandazione, si invitò «gli episcopati del continente a preparare una struttura competente (think-tank) che li possa aiutare nell’analisi dei problemi e delle situazioni, cosi da poter allertare in tempo il popolo di Dio e intervenire adeguatamente, specie nei momenti di crisi». A tutt’oggi, non sono a conoscenza dell’esistenza, in tutto il continente, di una qualche struttura di questo genere che possa essere considerata la risposta pratica a quella raccomandazione.
Di fatto, la consultazione del 1997 cadde presto nel dimenticatoio. Per trovare una qualsiasi notizia su di essa e copia del documento finale – mi ricordavo di questo “evento”, perché m’era stato negato l’accesso all’aula in cui si svolgevano i lavori – ho dovuto scartabellare in diverse biblioteche di Nairobi.

La voce delle vittime

Ho voluto ricordare questo “fallimento”, perché il secondo Sinodo africano, che è ormai alle porte (sarà celebrato nell’ottobre 2009), avrà come tema “La chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. Si tratta di un tema urgente nell’oggi della chiesa africana, Per approfondirlo, però, bisogna affrontare senza paure la questione dell’etnicità e dei conflitti etnici e poi suggerire precise indicazioni pastorali utili ad aprire piste concrete su cui camminare nel futuro. L’etnicità è un tema inevitabile, pena l’irrilevanza.
Per evitare di cadere nei soliti luoghi comuni, il sinodo potrebbe valorizzare il contributo di due particolari gruppi di persone.
Innanzitutto, le vittime. Mentre visitavo un gruppo di sfollati, in seguito alle recenti violenze post-elettorali nella baraccopoli di Kibera (Nairobi), un amico keniano m’ha detto: «Perché i nostri vescovi imitano gli uomini politici, limitandosi a fare dichiarazioni alla televisione, invece di essere qui con noi? Sì, proprio qui, senza automobili, senza segretari e giornalisti al seguito. Qui, con i vestiti da lavoro, come questi volontari, per distribuire pane e latte, imboccare i bambini affamati, lavare i loro vestiti e, soprattutto, ascoltare le storie della gente, Vedrebbero le loro lacrime e sentirebbero i loro singhiozzi. Solo dopo le loro parole suonerebbero più vere».
Forse Kamau esagerava. Ma il suo sfogo ci ricorda che le sofferenze delle vittime delle guerre e delle discriminazioni razziali e dei conflitti etnici dovrebbero essere presenti “con forza” in un sinodo ecclesiale che voglia avere credibilità. Si dovrebbe fare in modo che rappresentanti di gruppi umani colpito dilaniati dall’etnicità esasperata possano parlare ai vescovi. L’Africa, allora, farebbe il suo ingresso nel sinodo.
Il documento preparatorio del sinodo (Lineamenta), invece, dà dell’Africa una visione, magari puntigliosamente equilibrata, ma assolutamente sterile: non aiuta le comunità cristiane a mettere l’amore per le vittime al centro della propria attenzione. Questo “distacco” (sono gli altri a parlare dell’Africa, non l’Africa che si racconta) diventa preoccupante quando i Lineamenta sorvolano sulle responsabilità delle stessa chiesa (proprio come fece la consultazione del ’97). Nella prima stesura di un documento che i religiosi del Kenya stanno preparando come contributo al Sinodo, si esprime precisamente questa preoccupazione e si sottolinea la necessità di parlare onestamente dei peccati della chiesa. Vi si indicano, come punti critici, il ruolo e la pratica dell’autorità, la centralizzazione nel potere, la presenza del tribalismo nella chiesa stessa, i cedimenti e compromessi della chiesa di fronte alla politica. Dare voce alle vittime aiuterebbe a essere più concreti e a superare gli errori del passato e del presente.

Gli esperti

Non sono un fanatico degli “esperti” o di coloro che si definiscono tali. So, per averli visti in azione in Sudan e in altre parti dell’Africa, quanto questi experts di peace-making e peace-keeping (da quelli che imbracciano il mitra a quelli armati di buone intenzioni) siano spesso penosamente impotenti di fronte alle sfide poste dai conflitti etnici. Tuttavia, come la chiesa in passato ha accettato e assunto le competenze di esperti nelle più diverse scienze umane, oggi dovrebbe cominciare ad avvalersi delle esperienze e riflessioni degli “esperti di pace”. Gli studi sulla pace hanno compiuto progressi enormi.
La natura stessa del sinodo (un incontro di vescovi) consente a questi esperti di parteciparvi solo marginalmente. Ciò non toglie che le conoscenze e le tecniche che essi hanno sviluppato debbano essere presenti. Ci sono istituzioni cattoliche (Jesuit Refugee Service, Pax Christi…) che hanno dimensioni ed esperienze mondiali, con rilevanti strutture in Africa. La loro partecipazione al sinodo potrebbe essere valorizzata. Soprattutto, essi potrebbero aiutare i vescovi a dare non solo indicazioni generali, ma anche a preparare programmi pastorali mirati a superare il tribalismo dentro e fuori della chiesa.
In materia di etnicità, una questione che il sinodo potrebbe aiutare a chiarire è quella della terminologia. Capita che un problema non venga affrontato perché manca un vocabolario appropriato, o perché certe parole fanno paura. “Tribù” e “tribalismo” sono termini ormai squalificati dall’uso negativo (a volte denigratorio) che se n’è fatto in Occidente. Eetnia e etnicità sono più “neutri”; “comunità” è la parola entrata nell’uso comune in Kenya per indicare il proprio gruppo etnico, anche se ma diventa chiara solo in un preciso contesto. Ma dell’appartenenza etnica si dovrà parlare, anche solo per capirne le dimensioni positive.

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