Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

January, 2009:

Camminare Insieme

Il gruppo piu’ numeroso che sia mai venuto a visitarci a Nairobi ci ha mandato questa pagina di commento. Per loro e’ stata una bella esperienza, per noi e’ stata la conferma dell’importanza di questi viaggi, sia per noi che li abbiamo accolti come per loro, e della vocazione di Koinonia a far crescere fraternita’, al di la’ di tutte le barriere. Nel loro sito, indicato nel testo, potrete trovare spunti ricchissimi. Chi vuole imitarli? Non necessariamente dovete aspettare il Natale per condividere qualche giorno di vita coi nostri bambini.

 

 

E’ difficile riassumere il senso del nostro viaggio.

Un Natale a Nairobi inizia il suo avvento a Maggio 2008. Un gruppo di famiglie della provincia di Rimini, con legami trasversali, progetta un viaggio per famiglie in Kenya, per incontrare la Koinonia community. Il viaggio si svolge dal 22 Dicembre al 05 Gennaio.

Che cosa fanno a Nairobi 12 famiglie, un totale di quasi 60 persone, con 35 ragazzi dai 5 ai 16 anni? Niente….

E’ un niente creato e riempito dalla spinta educativa, dalla voglia di conoscere, di solidarietà e di vicinanza. Cercano di superare lo scopo “umanitario” della loro presenza e lasciati possibili ruoli professionali, la decisione è di passare, o meglio, vivere il Natale con Koinonia Community.

Le conoscenze di alcune persone sono il collegamento per tutti. La Shalom House ci ospita per 2 giorni per permettere i primi contatti con le persone e le attività della comunità. La Messa della notte di Natale a Kivuli e la festa del giorno ad Anita’s Home ci portano nel cuore della vita della comunità. Vita fatta di premura e cura dei più piccoli.

Poi, a gruppi di famiglie, ci trasferiamo per  4 giorni nelle case di Kivuli, Anita, Tone la Magi e Ndugu Mdogo. Sono giorni di condivisione, di gioco, di relazione che diviene amicizia.

Giorni che ci permettono di entrare nella opportunità colta dai ragazzi che vivono nelle case.

I nostri ragazzi si amalgamano ai ragazzi di KC con i giochi, con il calcio, i tamburi, il biliardo e la giocoleria.

Ci concediamo tre giorni al Masai Mara accompagnati dalla White Gazelle diretta impeccabilmente  da George, per lo spettacolo della natura africana.

Poi il ritorno a Nairobi per incontrare l’attività di Africa Peace Point, approfondire la conoscenza della situazione Keniana, africana, di KC e approfondire il senso della nostra presenza.

Per tutto il viaggio manteniamo un legame stretto con gli amici in Italia, www.nataleanairobi.org è il nostro blog che permette di condividere informazioni, emozioni e riflessioni che scaturiscono facilmente, come incontenibili da Nairobi e di rimbalzo dagli amici in Italia e non solo.

Ritornati in Italia, l’intensità della nostra visita africana ci lascia per qualche giorno distaccati dalla nostra vita ordinaria.

Gaza i suoi bambini inermi abbandonati tra le braccia dei genitori, il dolore delle famiglie dilaniate dal terrore e dai lutti rischia di cancellare la pace e la gioia di questa nostra esperienza.

Ma è proprio questo impietoso ed atroce risveglio che ci ricorda l’urgenza e la necessità del bene. L’urgenza e la necessità di creare ponti, legami di pace.

Che ci spinge a scrivere queste poche righe per raccontare Natale a Nairobi.

E’ stato un viaggio nella povertà interminabile ma piena di volti, sorrisi e colori.

Camminare nella sterminata baraccopoli di Kibera tenendoci per mano con i bambini del piccolo centro di emergenza gestito da Koinonia e da quello straordinario educatore e amico dei bambini che e’ Jack è stato il momento più simbolico di questo viaggio. Tutto si e’ riassunto qui, rendendo visibile il desiderio delle nostre famiglie di continuare a camminare con questi bambini per queste strade.

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Viaggio a Nairobi: Riflessioni, Impressioni, Emozioni

Maria Carla Acler mi ha mandato gia’ da qualche tempo questo testo in cui racconta la sua visita a Nairobi, quasi un anno fa, da 24 aprile al 3 maggio. Mi sembra interessante e che possa essere condiviso.

Qualche giorno prima di partire dissi ad Anna, amica e collega, che sarei andata per la prima volta in Africa, a Nairobi. “Ma Nairobi non è Africa – sottolineò lei che aveva viaggiato in Mali – Nairobi è contaminata dall’occidente!” Alla fine del viaggio, mentre mi accingo a raccontare per far sì che ciò che ho visto, vissuto, sentito trovi integrazione dentro di me e non rimanga solo un insieme di sensazioni, odori, immagini, emozioni slegate tra loro, non so rispondere alla sua provocazione. So solo che l’esperienza è stata forte, profonda, ha toccato corde emotive dimenticate, si è mossa da ciò che conoscevo perché letto o visto al cinema o in televisione dandogli colori intensi, reali, fatti dagli sguardi delle persone, dai movimenti dei visi, dalle mani dei bambini, dagli odori del fumo, del cibo, dei corpi, dei fiori dei giardini o della terra bagnata, dello smog che fa tossire quando lo sbuffo di un tubo di scappamento di un camion centra giusto il finestrino aperto dell’auto su cui ti stai muovendo.
P. Kizito ci aspettava all’aeroporto, con lui le sorelle di Harriet la ragazza keniota che studia a Trento e che faceva il viaggio con me e mio marito Carlo. Mi sentivo frastornata, mi guardavo in giro, nessuna difficoltà al controllo dei passaporti, le valigie in brevissimo tempo, tutto pulito e efficiente. Ma appena saliti in macchina ecco il primo impatto con il traffico! Macchine dappertutto – era anche l’ora di punta, verso le sei e mezzo di sera – la maggior parte vecchie, rotte, alcune nuove e grandi tra le quali non mancavano i suv, i matatu che schizzavano a destra e a sinistra con la musica africana a tutto volume che usciva dai finestrini accompagnata da frequenti colpi di clacson che chiedevano strada, continuamente fermi dietro a camion puzzolenti e altrettanto fatiscenti, nell’aria piena di smog. E tra una macchina e l’altra, spesso a ridosso della grandi ruote dei mezzi pesanti in lento movimento, bambini e ragazzi che vendevano di tutto. Qualche scellino fu speso a comprare dei cartocci di noccioline, più carta che contenuto: io, ancora troppo spaventata dalle raccomandazioni del medico che ci aveva fatto le vaccinazioni, non mi sono azzardata ad assaggiarle!! Qualche giorno dopo toccò la stessa sorte alla canna da zucchero che, spellata e tagliata a tocchetti, viene venduta lungo le strade: mentre Harriet e Fr. Alberto se la gustavano, io li guardavo inorridita dopo aver osservato come veniva preparata. Ma come fa uno che viene da un mondo dove l’igiene è una delle preoccupazioni fondamentali a fidarsi e ad assaporare qualcosa che ha l’aria di essere proprio appetitoso? – riflettevo tra me e me! I bambini di Kariobangi non se lo sono certo chiesto, visto l’assalto e i gridolini felici quando capirono che i sacchetti erano per loro!
La strada dall’aeroporto a Shalom Haouse, il centro gestito da Koinonia, l’associazione fondata da P. Kizito che ci ospitava, fu il primo incontro con la città e i suoi contrasti. Tutti i sensi erano all’erta, la vista, l’udito, l’olfatto. Soprattutto gli odori colpiscono subito. Non solo l’odore dello smog, ma quello del cibo, dei fiori e della terra bagnata, del fumo, dei corpi delle persone.
Tra le strade di Kivuli –una delle tante baraccopoli di Nairobi – si leva il fumo di piccoli fuochi ai bordi delle strade – strade per modo di dire, larghi sentieri di terra battuta dai quali escono grossi sassi o si aprono altrettanto grossi buchi (chiamati pot-hole! ) tra i quali le auto che passano fanno lo slalom. Qui si dice che si riconosce un ubriaco alla guida perché va diritto! E su questi piccoli fuochi la gente cuoce il cibo, per sé o per venderlo. Ho visto un bambino, avrà avuto poco più di un anno, accucciato curioso a vedere il fuoco che si alimentava, più avanti altri che giocavano in mezzo a grandi pozze d’acqua, erbacce e rifiuti: a Nairobi era iniziata la stagione delle piogge.
L’odore del cibo riempie le strade, ma anche i ristoranti, dai più semplici ai più ricercati, almeno nelle periferie dove noi siamo stati: probabilmente in centro, dove la città non ha niente da invidiare ad una capitale europea, non è così. Jeff sabato ci accompagnò a visitare le sue iniziative di sviluppo locale e di inserimento lavorativo dei ragazzi del Kivuli Centre. “Bella ciao” si chiama il piccolo ristorante, due stanze riverniciate a nuovo in cui tavoli e sedie sono uno diverso dall’altro, dove, con giusto orgoglio, ci fu servito il pranzo da un cameriere in addestramento e cuoco in apprendimento: due tipi di riso, uno al pomodoro e uno speziato alla cannella, due “cose” arrotolate, una via di mezzo tra una piadina e un’omelette che imparai poi essere il loro pane, il chapati- accompagnati da un po’ di spezzatino e da una verdura che sembrava cavolo, piatti rigorosamente di plastica con il bordo a fiorellini, tutto così dimesso, ma così rigorosamente pulito, come la tovaglia bianca messa apposta per noi, che dopo un po’ non mi accorgevo più dell’ambiente. E’ l’orgoglio che si legge negli occhi di chi impara e di chi addestra, una giovane cuoca che fa del suo meglio, che fa accogliere tutto con semplicità e gratitudine! Fu sicuramente il pranzo meno costoso della nostra vita, un euro e venti a testa e solo perché abbiamo bevuto una coca cola, altrimenti sarebbe stato molto meno! A fianco del ristorante c’è il deposito della plastica, una montagna di secchi e contenitori colorati e sfasciati che i ragazzi impiegati qui raccolgono con un carretto sgangherato o comprano a chi li va a cercare nelle discariche e poi triturano per rivendere la polvere così ottenuta. Ci mostrano il loro lavoro: versano la plastica in una macchina rumorosissima da cui si espande un fumo greve, ma non importa, sono produttivi e sperano di poter arrivare all’acquisto di altre tre macchine uguali per aumentare la produzione. Qui i ragazzi che erano dei bambini di strada si addestrano al lavoro per qualche mese e poi vengono inseriti all’esterno. Il pensiero non può non andare alle nostre cooperative sociali che in fondo fanno lo stesso lavoro di reinserimento sociale… le idee frullano, si potrebbe fare un gemellaggio!! E memore dei nostri vincoli della legge sulla sicurezza, chiedo se usano i tappi e qualche mascherina: mi rassicurano, era solo una dimostrazione per noi. Speriamo sia proprio così!!
Ogni mattina, a Shalom House arriva un matatu pieno di gente che fa una deviazione dal solito itinerario e scarica nel cortile davanti al Baraza caffè dove si fa colazione cipolle, caschi di banane verdi e gialle, patate. E se ne va subito dopo sgommando sul ghiaino del cortile. Verdure e frutta rimangono lì abbandonate per un po’, finché non arrivano dei robusti ragazzi che le portano all’interno. Dopo poco, magari mentre ci gustiamo l’ultima tazza di tè aromatico prima di incominciare la giornata escono dalla cucina gli odori forti del cibo in preparazione che si attacca ai nostri vestiti, riempie le narici: nessuno sembra farci particolarmente caso. Forse sono solo io che ogni tanto mi annuso perché mi sembra di essere circondata da un alone di odore di soffritto!!
E poi le persone, tante, adulti e bambini, quasi nessun vecchio, e i loro odori. Il mio olfatto occidentale è abituato a riconoscere i profumi, qui invece sono i corpi che lasciano tanti odori diversi. Tutti a Shalom House sono eleganti e azzimati – gli uomini in giacca e cravatta e le donne in tailleur – sono i bianchi delle ONG che frequentano il centro i più “scalcagnati” nel vestire, sembra di incontrare tanti studenti di Sociologia a Trento! Dopo un po’ però, nelle riunioni in stanze dove lo spazio è poco o dentro le auto, sotto il sole che lascia spazio ogni tanto alle nuvole di questo inizio di stagione delle piogge, si spande l’odore acre e forte del sudore. Non dà fastidio, dopo un po’ non ci si fa più caso. Ma sempre il pensiero va per conto suo, al nostro modo di vivere, al dare peso a cose che forse non sono veramente importanti.
Corpi e visi scuri, dal cioccolato al nero, che rappresentano le tante etnie del Kenia, ma anche altre nazioni, nei quali si aprono grandi occhi scintillati, soprattutto all’imbrunire. Dopo l’accordo tra Odinga e Kibaki non si può più chiedere a quale gruppo etnico si appartiene, mi disse Vera quando andammo, Harriet ed io, in uscita solo di donne – con il gruppo delle mogli dei ragazzi di KARDS (una delle tante iniziative ispirate da P. Kizito) – a visitare il Museo Nazionale. Ancora nel traffico, sobbalzando spesso dentro un pulmino (non proprio un matatu, ma dello stesso tipo, affittato per l’occasione) si affastellano parole, immagini e sensazioni, nel caldo umido e a finestrini chiusi: l’odore dei corpi, del sapone e dei vestiti puliti, gli sguardi curiosi delle giovani donne, le domande sulla vita al femminile in Italia, sui servizi all’infanzia per chi lavora, su come si mettono insieme lavoro e figli, il mio inglese un po’ approssimativo, le loro risate spontanee e la loro contentezza per la nostra gita al femminile libere dai mariti. Tutto questo rendeva poco importante il resto, il museo ristrutturato da poco, ma di piccole dimensioni, gli animali impagliati, la parte etnografica interessante, ma ridotta al minimo che avrebbe fatto arricciare il naso ad alcuni amici italiani sempre pronti alla critica. L’interesse, la curiosità, la gioia che sprizzava dagli sguardi e dalle espressioni delle ragazze (non riesco a chiamarle diversamente, sono così giovani) rende tutto più grande e più bello. Coglievo ogni tanto delle occhiate di sottecchi che controllavano se mi stavo divertendo: a tutti i costi, anche se era tardi, vollero che andassi a vedere anche la parte dedicata ai serpenti e ai rettili. Non amo gli zoo, gli animali rinchiusi, ma a loro questo pensiero era totalmente estraneo. Leggevo sui loro visi l’orrore, la paura, la sorpresa di riconoscere animali pericolosi che popolano la savana o la foresta, frutto dei racconti dei loro nonni, come il black mamba, il serpente dalla bocca nera, uno dei più velenosi. Non ho potuto spendere nemmeno uno scellino, erano troppo felici di fare qualcosa per me. E un po’ alla volta sentivo che l’apprensione si allontanava, mi stavo rilassando e si apriva l’interesse e la curiosità per le storie e la vita di tante persone diverse, per i loro pensieri e sentimenti: a volte mi vedevo così bianca che mi sentivo decisamente intimidita, mentre loro mi rassicuravano dicendo, “No, you are ok!!”
Fr. Alberto, nei vari trasferimenti in auto, facendo lo slalom tra sassi e pot-hole, mi diceva che il rispetto è la qualità più apprezzata dal mondo africano. Riconoscere la diversità e non oltrepassare i confini: anche tutta l’impostazione della formazione al Social Ministry si basa su quattro cardini – care, respect, responsability, lissening. Mi sentivo a casa mentre parlavo con lui, perché anche per me, per il mio lavoro in Italia, questi sono i valori di fondo che lo ispirano. Anche qui, come al Bella ciao, tante consonanze!
Non ho ancora detto nulla dei bambini, dei tanti bambini, a frotte, presenti dappertutto, con i loro sguardi vispi, curiosi, con i loro sorrisi a volte sdentati che si aprono illuminando gli occhi dopo i primi momenti di diffidenza. Non ho detto nulla perché soprattutto loro colpiscono la vista e il cuore facendo affiorare la commozione che si ferma sotto le palpebre. “Non vorrai mica metterti a piangere qui, davanti a tutti!” mi dicevo nei momenti emotivamente più forti. E qualche volta il rischio c’è stato. Abbiamo attraversato Kivuli, Kariobangi, Kibera, tre baraccopoli delle tante che circondano Nairobi. Lungo le “strade”, queste piste sgangherate dove le macchine consumano gomme e ammortizzatori, si aprono negozietti di tutti i tipi, con un’aria completamente dimessa, in baracche sostenute da pali di legno. Si vendono cibo già cotto, banane, mango, patate e cipolle, ma anche CD e telefonini, divani, mobili, vestiti e scarpe, tutti esposti all’esterno, sul terreno battuto, spesso fangoso in questi giorni. A Kivuli abbiamo conosciuto un giovane uomo orgoglioso del suo lavoro di ciabattino: ripara le scarpe, ma le fa anche completamente usando una vecchia macchina da cucire. Il suo negozio è una baracca un po’ isolata, piccolissima, ci stiamo a stento in due o tre, sul pavimento di terra qualche vecchia scarpa rotta e delle cartacce, ma sulla parete di assi di fronte alla porta tante paia di scarpe nuovissime e lucide, pronte per la vendita. Un suo amico, uno splendido ragazzo alto in completo marron chiaro, con lo sguardo mobilissimo e sorridente aspetta paziente una riparazione e intanto ci saluta porgendoci la mano e dicendo il suo nome, poi esce contento, saltando con circospezione le pozzanghere e facendo attenzione a non inzaccherarsi.
Tutti qui se ti vogliono conoscere per prima cosa porgono la mano e chiedono: “How are you?” E magari, soprattutto i bambini, sono le uniche parole inglesi che conoscono! Ricordo una bimba – avrà avuto cinque anni – con un giubbotto di jeans e delle ciabattine di plastica che ridendo, senza un dentino davanti, con le treccine un po’ sfatte, reclinando la testa da un lato chiedeva in continuazione. “How are you?” . Anche davanti al Bella ciao, la curiosità per due bianchi che arrivavano proprio lì a mangiare aveva raccolto una quindicina di bambini, più in ordine di quelli visti nelle baraccopoli, con vestiti più curati e maglioncini sgargianti che ci seguivano a vista. Poi, prendendo coraggio, incominciarono a porgere le mani dentro lo steccato che circondava il ristorante, a salutare ridendo, dicendoci i loro nomi e facendosi fotografare. Immagini e modi di essere già visti in televisione o letti in tanti reportage sull’Africa, ma che quando diventano esperienza concreta lasciano dentro un segno di commozione e tanti pensieri.
Mi chiedevo: “Te li porteresti a casa?” Sempre la stessa risposta, sì, ma subito dopo un no più forte. Non è crescere in terra straniera che serve loro, ma l’impegno di tutti perché la qualità della loro vita proprio qui migliori, perché possano crescere sentendo che i loro bisogni almeno in parte possono trovare risposte, di affetto mentre sono così piccoli, di istruzione e di lavoro man mano che diventano più grandi. Ed è proprio il lavoro che spesso manca: fiumi di persone si riversano nelle strade la mattina alle sei, escono dagli slums, alcuni per raggiungere il posto di lavoro, ma tanti altri con la speranza di trovarlo, precario e giornaliero. Se ne stanno seduti, come grappoli umani in certi posti dove si sa che passeranno i camion a raccogliere operai o braccianti, spesso tornano la sera senza aver guadagnato uno scellino. Fiumi di persone che camminano, ai bordi delle strade, pochi in bicicletta, pochi che possono permettersi anche solo un matatu.
Jack è un educatore del centro di primo contatto con i bambini di strada della baraccopoli di Kibera. Ci accompagna attraverso le strade dello slum fino alla struttura, due case in muratura dall’aria dimessa e un po’ fatiscente. Le immagini sono le stesse viste nelle altre baraccopoli: i negozietti, il fumo dei fuochi accesi, bambini e adulti dappertutto fra i quali la nostra auto procede lentamente, qualche capra scheletrica insieme a cani che annusano il terreno, gente curata o con i vestiti a brandelli, sguardi curiosi o sguardi impassibili che si tolgono appena incrociano il tuo. Non è la zona più degradata di Kibera che stiamo attraversando: in quella le auto non passano tra le file delle baracche e la povertà estrema è molto peggiore. Arrivati ad uno spiazzo sterrato non facciamo in tempo a scendere dalla macchina che siamo circondati da venti, trenta bambini che ci danno la mano, dicono il loro nome e ci trascinano verso le due costruzioni del Centro. Ogni dito delle mie mani è occupato da una manina, mentre altri si mettono in fila: mi trascinano con entusiasmo e curiosità mentre sento un nodo che mi stringe la gola. Entriamo nella prima sala, i bambini scivolano dappertutto, dietro o ai piedi di un lungo tavolone dove di giorno incominciano a fare esperienza di scuola. Brian si siede sulle mie ginocchia, sta fermo fermo mentre Jack descrive le attività del Centro, il modo in cui, girando per la baraccopoli cercano di individuare i bambini abbandonati per poterli poi avviare al processo di integrazione. Non è un lavoro facile: molti di loro hanno imparato ad avere paura degli adulti, di genitori violenti e alcolizzati, di poliziotti che li scacciano dalle strade della città dove chiedono la carità o rubano rovinando l’immagine di un centro pulito e sicuro; molti non reggono neppure una vita strutturata da regole o hanno già il cervello “bruciato” dalle droghe o dalla colla che sniffano per superare i crampi della fame.
Brian ha la pelle liscia e sorride con due fossette e gli occhi vivaci, è tutto il pomeriggio che gioca nella terra e la sua maglietta bianca è diventata color marroncino mentre i pantaloni di velluto verde a coste, troppo larghi e troppo corti hanno un gran bisogno di una lavata. Lì accanto a noi un altro ragazzino ha un berretto di lana a righe gialle e blu in testa, un po’ a sghimbescio, e due grandi occhiali da sole che non si toglie per nessun motivo. Sulla parete di fronte i loro disegni, il ritratto di padre Kizito, per un improbabile concorso di pittura iniziato per gioco. Nella sala accanto una ragazza dal viso aperto e sorridente ci mostra il lavoro iniziale per l’apprendimento della scrittura: dei cerchietti di plastica ricostruiscono lettere dell’alfabeto. Imparare a leggere e scrivere è il primo passo verso l’emancipazione. Dobbiamo andare, i bambini ci accompagnano e ci salutano. L’esperienza nel centro è il primo step di un percorso di crescita personale, di recupero dell’autostima, di educazione e formazione che continua per i maschietti nel Kivuli Centre o in altre due strutture più recenti, per le bambine, più difficili da individuare, nella Casa di Anita situata in un luogo bellissimo nei pressi di Ngong, alla base delle colline sacre dei Masai. Qui le bambine, reduci spesso da esperienze spaventose di violenza e prostituzione acquistano sicurezza, vanno a scuola, imparano l’uso del computer, coltivano l’orto e vivono in tre famiglie dove padre, madre e figli naturali della coppia si sono aperti all’accoglienza e hanno fatto loro spazio. Mi viene in mente il modello dei nostri Villaggi SOS: qui però ci sono anche i padri in carne ed ossa. Le ragazzine ci accolgono facendoci festa e cantandoci alcune loro canzoni.
Il canto e la danza ci accompagnano in tanti momenti del nostro soggiorno. Nella messa cui abbiamo voluto partecipare la domenica, coro, bonghi, altri strumenti che non conoscevo scandivano le preghiere, la gente cantava e batteva ritmicamente le mani, un gruppo di ragazzine danzava nei momenti forti della liturgia. Sembrava di rivivere alcune scene di Sister act! A me occidentale, abituata a riti sofisticati, ma “distanti”, suoni e colori davano l’idea di una fede semplice, genuina che permea le azioni della giornata. “L’africano ateo non esiste” sosteneva fr. Alberto in una delle nostre chiacchierate, che sia cristiano, mussulmano o seguace delle religioni tradizionali è sempre un credente. In ogni incontro infatti, riunioni comprese, il momento della preghiera spontanea, costruita al momento, dava sempre inizio all’attività. E durante la messa –durata ben due ore e un quarto – moltissimi bambini di ogni età, eleganti e azzimati, molti incredibilmente con un berretto di lana in testa, se ne stavano buoni buoni accanto a madri giovanissime.
In tutte le strutture che visitiamo i ragazzi si riuniscono e ci salutano con il canto. Anche al Kivuli Centre hanno voluto mostrarci la loro bravura: uno di loro sembrava un rapper nato, altri erano acrobati e giocolieri e si muovevano ritmicamente alla musica che usciva fortissima da un registratore. Qui sono in tanti: molti giocano a pallone e fanno i turni per il campo senza litigare, prima i piccoli e poi i grandi, rincorrono la palla in un mix tra calcio e pallacanestro. Kivuli è anche il luogo per altre attività portate avanti dai ragazzi diventati grandi e che vengono inseriti nel lavoro, non solo ex street children, ma anche ragazzi della baraccopoli o della parrocchia che gravitano comunque sul centro. Ci sono una falegnameria, un’officina, un ristorante, la sede del Microcredito, un laboratorio dove lavorano il legno un gruppo di rifugiati, un piccolo negozio di manufatti artigianali. Shalom House, il centro dove dormiamo, è strutturata in modo simile: un’agenzia viaggi, un internet caffè, due ristoranti oltre all’attività alberghiera e la presenza di associazioni varie che hanno affittato dei locali. E in tutte queste attività sono impiegate tante persone giovani, molti ex ragazzi di strada o comunque conosciuti da P. Kizito, attivi, sempre gentili e disponibili dopo che hanno imparato a riconoscerti e a rispondere al tuo saluto, altrimenti occupati nei loro lavori. Il saluto è un’altra delle tante cose che ti colpiscono: rispondere al saluto e presentarsi è assumere l’ impegno della relazione, è entrare in un cerchio di fiducia. Ancora fr. Alberto raccontava che nel suo lavoro nella baraccopoli, a Kariobangi, i “banditi” si riconoscevano perché sfuggivano lo sguardo e quindi l’incontro e il saluto prima di tutto.
Odori, emozioni, incontri: tanti anche su un piano diverso. Dal lavoro di frontiera, nelle baraccopoli e per i ragazzi di strada, al lavoro per lo sviluppo e la formazione di persone che poi nel loro territorio portano avanti la crescita delle proprie comunità. E’ a Premise Africa, la prima mattina dopo il nostro arrivo, che mi faccio immediatamente l’idea di quanti ragazzi giovani hanno voglia di impegnarsi, di quanto tengano al loro Paese e ai suoi processi di sviluppo, di quanta voglia abbiano di far crescere le proprie comunità di appartenenza. Sono tantissimi, ammassati in ogni piccolo spazio di un’aula grande, scrivono su sedie attrezzate, aspettano di dare un esame, sono kenioti, ma anche somali, ugandesi, mozambicani. E con pazienza rimandano l’inizio per salutare noi, catapultati lì per avere un’idea dell’attività dell’istituto presso il quale studiano. Premise è una scuola privata che non ha mai accettato compromessi per avere facili contributi e che si sta interrogando su come stabilizzarsi al di là del proprio fondatore. E’ qui che incominciano, in parallelo con le visite ai diversi progetti di p. Kizito le riflessioni sull’impresa sociale e sull’esperienza europea. Da tanti anni lavoro nelle cooperative sociali, ma occupandomi di comunicazione interna o di progetti per l’inserimento lavorativo di persone in difficoltà non sono esperta in riflessioni più generali, però mi rendo conto, anche attraverso le visite, di molte consonanze possibili. E’ come incontrare qui in Africa le nostre prime esperienze degli anni 80, senza che ancora ci sia la riflessione teorica e la rete che tanta energia hanno richiesto nel nostro paese. Credo che queste furono le considerazioni che spinsero P. Francesco Pierli a volerci a Nairobi: era rimasto entusiasta e fortemente interessato all’esperienza italiana della cooperazione sociale perchè ne intravedeva tutte le potenzialità anche per l’Africa. Premise, Kards, Somirenec, lo stesso percorso di laurea in Social Ministry del Tangaza College sono strade, alcune più concrete, altre più teoriche, che riconducono tutte, in ultima analisi, a esperienze imprenditoriali di sviluppo di comunità attraverso progetti condotti da giovani del luogo che ritengono fondamentale il loro impegno in prima persona per la crescita e il cambiamento del proprio paese. E se, attraverso queste istituzioni, chiedono interventi economici non è per avere soltanto dei soldi, ma per finalizzare tutti gli aiuti allo studio (borse di studio per l’iscrizione all’università) o all’implementazione di attività che hanno bisogno di un input iniziale per poi andare avanti con le proprie forze. C’è ormai una diffusa consapevolezza che il futuro del Paese, ma anche dell’Africa, può passare solo attraverso la crescita delle persone e non più attraverso il finanziamento a pioggia di progetti che poi difficilmente trovano la strada dello sviluppo. Da qui, credo, nasce il grande interesse per la teoria che possa supportare la pratica concreta e che è evidente non solo nei missionari incontrati, ma anche nei tanti responsabili dei progetti di sviluppo locale. Per questo la conferenza di Carlo sull’impresa sociale ha raccolto tante presenze, per questo la mattinata di lezione, sempre di Carlo, agli studenti del Master in Social Ministry ha suscitato tanto interesse e tante domande, per questo l’entusiasmo di P. Francesco per la storia della cooperazione sociale ha permesso, credo, di dare chiavi di interpretazione nuove alle esperienze di sviluppo che già vengono portate avanti. Vedevo Carlo e P. Francesco sempre intenti a ragionare di questo mentre io mi lasciavo affascinare da tutto quello che accadeva intorno! In questi incontri ero solo spettatrice, ma mi rendevo conto di tutto il potenziale insito nei loro ragionamenti.
Così, mentre loro erano immersi in lunghe discussioni, io approfittavo della pazienza di fr. Alberto, responsabile del percorso di laurea triennale del Social Ministry, e mi facevo illustrare la filosofia che sta alla base del loro lavorare insieme. Parlando con lui ho ritrovato i capisaldi del mio modo di lavorare e di fare formazione: sviluppare l’empowerment, creare una comunità in apprendimento, utilizzare metodologie attive in modo che gli allievi apprendano modalità da replicare poi nelle proprie comunità, fondate sul rispetto dell’altro, sulla fiducia nelle potenzialità delle persone e così via. E anche qui, se pur in modo diverso, mi sono emozionata, io che sto progettando un corso per sviluppare capacità di leadership nei cooperatori italiani, a ritrovare tutto questo in un’università del Kenia! Bellissimo!
Altre riflessioni poi scorrevano ogni tanto nella mia mente. Mi colpivano le tantissime iniziative che vedevo, le loro potenzialità, ma anche la loro parcellizzazione e mi pareva che pezzetti della nostra strada fatta qui in Italia con le cooperative sociali avrebbe potuto essere loro utile. La scommessa che si fece nel corso degli anni ’80 aveva i suoi capisaldi in due polarità: la costruzione della rete e la ricerca e la riflessione teorica. Se per la seconda, l’esperienza già consolidata in Europa può essere una chiave di lettura per le tante iniziative che in Kenia si stanno consolidando, la costruzione della rete potrebbe diventare, a mio avviso, un obiettivo importante su cui puntare. Mettere in rete quanto si fa, scambiarsi idee e progetti, osservare cosa fanno gli altri, imparare dalle esperienze eccellenti per moltiplicarle, creare strutture di supporto per progetti simili, a questo pensavo quando vedevo tante energie spese e che avrebbero potuto essere condivise. Chissà se questi ragionamenti sono compatibili con culture così diverse dalla mia, magari è solo l’entusiasmo di voler far qualcosa di più che mi spinge a pensare in questo modo. Sicuramente, anche per il mio inglese imperfetto, non ho avuto la possibilità di approfondire oltre.
Ci sono stati ancora altri incontri, con le sorelle di Harriet così sorridenti e affettuose, con il loro cugino che volle venire a salutarci la sera prima della partenza a nome di tutta la famiglia, lui che insiste che Harriet studi il più possibile, sul suo esempio, per essere d’aiuto poi al proprio paese, con suor Palmina il giorno della festa dei fratelli comboniani che mi venne incontro dicendomi che era una suora della Val di Non e che, ormai un po’ avanti negli anni, rimpiangeva tantissimo il lavoro sul campo, con altre suore comboniane in missione in Sudan, che nel mio immaginario dovevano vivere costantemente in situazioni di pericolo, con Bernard che fuori dalla messa la domenica ci comunicò tutta la sua voglia di studiare e l’impossibilità di farlo perché non aveva i 700 € necessari per iscriversi alla facoltà che avrebbe desiderato frequentare, con Felix, un ragazzo di P. Kizito che dopo avermi fatto da sostegno nello scendere per un sentiero un po’ impervio con le scarpe meno adatte che possedevo, mi disse che avrebbe pregato perché potessi tornare, con due medici italiani che spendono ogni anno le loro vacanze a lavorare nel piccolo dispensario costruito a Kibera, con Mario Raffaelli un amico trentino molto conosciuto non solo a Nairobi, ma in tutta l’Africa per il grande contributo portato a nome dell’Italia nel processo di pace in Mozambico, con Ida e la sua bambina, rispettivamente moglie e figlia di Richard che fa il dottorato a Trento, con Sebastian, il cameriere che la mattina voleva che mangiassi uova e salsiccia e non solo del pane e marmellata, con Patrik, l’autista che domenica pomeriggio ci accompagnò al Nairobi National Park dove finalmente riuscii a vedere qualche giraffa e uno struzzo in lontananza, con Mark, un poliziotto in borghese che collabora con Somirenec per lo sviluppo di progetti di pace in alcune zone a rischio e che, con la sorpresa dovuta alla mia ignoranza, si è formato in Italia, presso la scuola dei Carabinieri a Vicenza, con Fr. Pietro che appena arrivati nella sede della Parrocchia di Kariobangi, visto che erano le due e non avevamo mangiato ci preparò con semplicità un piatto di spaghetti, con le responsabili delle attività di formazione per le donne abusate sempre a Kariobangi… E con loro altre persone, altri visi, che ogni tanto passano come immagini fugaci davanti ai miei occhi.
Persone, esperienze, racconti, incontri, profumi di un mondo pieno di contrasti, con una natura bellissima e rigogliosa dove i gerani e le sulfinie non sono nei vasi, ma diventano siepi, dove la terra rossa e ricca mostra tutte le proprie potenzialità, ma anche lo sfruttamento insensato e le recinzioni ingiuste e poco rispettose: tutto questo, ma tanto di più raccontano di otto giorni desiderati e paventati, procrastinati da gennaio ad aprile a causa dei disordini in seguito alle elezioni, vissuti intensamente con la sorpresa di chi, come me, che mi sono sempre pensata poco coraggiosa e troppo legata alla propria terra, ha invece lasciato lì un pezzo di sé e la voglia di tornare.

Trento, maggio 2008

Padre Giuseppe

Sono in Tanzania, con collegamenti,  anche telefonici, molto aleatorii. Pochi minuti dopo aver messo online il testo precedente ho ricevuto la notizia che ieri mattina a Nairobi, nell’ ufficio della’istituto di filosofia in cui ha lavorato per piu’ di due decenni, hanno ucciso padre Giuseppe Bertaina, missionario della Consolata, originario della provincia di Cuneo.Una violenza assurda e assolutamente non necessaria, oltre che stupida. Sembra che il responsabile del gruppo che ha tentato la rapina fosse un ex-seminarista.

Padre Bertaina era un gentiluomo, magro, dritto, affabile, sempre sorridente, che cercava di educare gli studenti – ha speso la piu’ parte della vita nelle scuole del Kenya – con l’esempio. Seguiva con simpatia gli ex-seminaristi. In diverse occasioni, su mia richiesta, mi ha dato documenti e raccomandazioni per loro, chiedendomi poi con trepidazione se erano riusciti a sistemarsi nella vita. Era felice quando, diversi anni fa, ho potuto raccontargli che uno studente di filosofia che era stato postulante dei comboniani, dopo esserenstato dimesso era poi entrato nel seminario della sua diocesi di origine in Sudan ed era diventato un bravissimo prete diocesano. Negli ultimi anni l’ ho visto raramente, e solo alla Shalom House, deve veniva per una pizza con i confratelli nelle rare occasioni in cui si concedeva qualcosa.

Sembra che sia morto soffocato dal bavaglio che i rapinatori gli hanno messo. Immagino il dolore di quest’uomo gentile di 82 anni quando ha visto un ex-allievo fra di loro. Immagino che lo abbia subito perdonato, ma che forse sia morto col cuore trafitto dal dolore che gli causato il riconoscere quel volto piu’ che per il soffocamento. Tantissimi suoi allievi piangono la sua morte, come quello che me l’ha annunciata per telefono. Che il suo esempio ci aiuti a superare tutte le violenze.

Un Ciclone di Simpatia

Mi arrivano ancora reazioni, tutte positive, al giro fatto in Italia dai bambini di Kivuli. Teresa Giorgi, di Chiavari, 
da poco laureata all’accademia di Belle Arti di Genova, li ha accompagnati da Caserta alla Malpensa, insieme a
 Roberta Cerboneschi, di Larderello, un’insegnante socia di Amani, che e’ venuta per la prima volta a trovarmi in
Zambia nel 1988. Teresa, che ha contribuito anche a far crescere la qualita’ dello spettacolo, ha poi chiesto 
ad alcuni amici di scrivere le loro impressioni, e le ha legate con le sue riflesisoni. Ecco il suo testo.

 

“Sono arrivati come un uragano, sono rimasti giusto il tempo di lasciare delle tracce di sé negli occhi e nei cuori del pubblico che li ha applauditi, e sono andati via. Caserta è stata la prima città che ha visto diciotto ragazzini sul palco, e non più sei come nelle tappe precedenti. I dodici ragazzi in arrivo da Roma, dove erano appena atterrati con il volo da Nairobi, e quelli giunti da Bari, si sono riabbracciati davanti al teatro dove un paio d’ore dopo si sarebbero esibiti, carichi di stanchezza ma anche di entusiasmo. E’ stata una tappa vissuta di corsa, preparata a lungo ma consumata in brevissimo tempo. Però, nonostante tutto, lo spettacolo ha avuto un gran successo, gli acrobati hanno stupito tutti con la loro bravura e la loro simpatia; dai più piccoli, che hanno intenerito gli spettatori con i loro sorrisi e le loro battute, ai più grandi, timidi e orgogliosi di loro stessi e dei loro fratelli minori.

Sono riusciti a farsi ammirare per la giusta ragione: non tanto per la perfezione delle loro acrobazie, quanto per il coraggio che mostrano ogni giorno della loro vita, per la fiducia che nutrono verso se stessi e verso i loro compagni, che è così lampante, quando si esibiscono”.

Le parole di Chiara Avezzano riassumono un po’ il pensiero dei tanti che hanno visto i Koinonia Children esibirsi in Italia.

Roberta ed io, che li abbiamo accompagnati da Caserta fino all’ ultimo minuto prima del loro rientro a Nairobi, siamo state nell’ occhio del ciclone di simpatia causato dai Koinonia Children per quindici giorni, e adesso speriamo che il loro ricordo rimanga impresso a lungo e faccia da stimolo per una voglia di conoscenza sempre più profonda di loro e dei loro problemi. Perchè, come scrive padre Kizito, iniziatore del progetto del centro di accoglienza di Kivuli, dal quale i bambini provengono, “l’esperienza occasionale rischia di restare soltanto un bel ricordo, il rapporto continuo invece cambia il modo di mettersi di fronte agli altri, la prospettiva e il senso del vivere”.

Il progetto nacque durante un viaggio a Nairobi di Paolo Comentale, direttore del teatro Casa di Pulcinella di Bari, recatosi in Kenya per tenere alcuni spettacoli di marionette. All’arrivo a Kivuli, i circa 60 ragazzi che vivono nel centro lo accolsero con entusiasmo: canti, balli e acrobazie, ma soprattutto sprigionando un’allegria tale da far nascere l’idea di portare in Italia alcuni di loro. E il progetto si è concretizzato lo scorso dicembre: iniziato proprio da Bari, dove al gruppo è stato assegnato il premio”Pulcinella d’Oro 2008”, il tour ha visto i ragazzi esibirsi in diverse città italiane. Caserta, Fabriano, Torino, Piacenza, Milano. Tappe frutto della rete di relazioni che gli stessi bambini hanno creato tra noi italiani che da anni ormai li seguiamo e li vediamo crescere nella loro casa a Nairobi. Le richieste per portare lo spettacolo nella propria città erano molte di più ma purtroppo per motivi di tempo non è stato possibile esaudirle tutte. In ogni tappa l’accoglienza è stata tanto calorosa da lasciare impressionati gli stessi ragazzi che delle relazioni umane sono i maestri. Gli italiani si sono mostrati ottimi discepoli in quell’arte, così sacra in Africa, di donare tempo agli altri, contribuendo a creare un clima estremamente disteso e gioioso.

E i bambini hanno fatto il resto. “Sono stati straordinari, e sono riusciti a stupirmi ancora una volta”, ha commentato Kizito.  “All’inizio erano solo in sei (NdA: per problemi con i visti gli altri si sono uniti soltanto a Caserta) e anche in sei sono stati capaci di tener vivi gli spettacoli con grande impegno e disponibilità“. Non è stato importante il numero dei ragazzi, né le spesso ridotte dimensioni del palco; ognuno di loro ha dato il massimo ogni volta come fosse il primo spettacolo. Merito non solo dell’impegno, ma della voglia di stare insieme, divertirsi e divertire. E i sentimenti puri inevitabilmente traspaiono nonostante i piccoli problemi logistici. Ci hanno raccontato che dopo lo spettacolo a Matera un bambini di dieci anni, ringraziandoli al microfono ha detto: “Avete fatto delle cose stupefacenti, ma la cosa più bella e’ che in ogni momento del vostro spettacolo si capisce che vi volete veramente bene come fratelli”.

Gli amici di Fabriano cosi raccontano il passaggio del ciclone Koinonia Children.

Per poter godere di ogni prezioso momento offerto da questa esperienza, i ragazzi del Kenya sono stati ospitati nelle famiglie dei ragazzi, giovanissimi e giovani di AC: di fronte ai sorrisi luminosi e agli occhi luccicanti sui volti scuri, la timidezza e le prime difficoltà di comunicazione sono state superate in fretta, e sin da subito mani bianche e nere si sono intrecciate in saluti, giochi e abbracci.

Giovedì 4 dicembre è stata la giornata dedicata agli spettacoli: i ragazzi si sono esibiti per ben due volte al Pala Guerrieri, in uno show di grande impatto: la mattina è stata la volta dello spettacolo per le scuole, invitate dall’Azione Cattolica nell’ambito di una proposta volta all’approfondimento e al confronto sulla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (di cui il 10 dicembre ricorre il 60° anniversario). Più di 1000 studenti, provenienti dalle scuole medie inferiori e superiori della città, sono quindi giunti al Pala Guerrieri, e l’emozione è stata grande da entrambe le parti: i giovani artisti si sono trovati di fronte ad un pubblico di coetanei davvero numeroso e caloroso, che sono riusciti a stupire e conquistare sin dai primi minuti; con grande abilità interpretativa, gli ex-bambini di strada hanno inizialmente messo in scena episodi di vita nelle baraccopoli per raccontare al pubblico di coetanei il background dal quale provengono, proseguendo poi con una avvincente serie di acrobazie  e giocolerie che ha lasciato gli spettatori a bocca aperta. Gli applausi si sono susseguiti ininterrottamente durante tutto lo spettacolo, ed hanno trasmesso agli acrobati tutta l’ammirazione e l’affetto del giovane pubblico che, alla fine dell’esibizione, è stato trascinato in canti e danze. Al termine dello spettacolo gli studenti, scesi dalle gradinate, hanno avuto l’opportunità di congratularsi di persona con i piccoli artisti che, come sempre, sono andati incontro a tutti coloro che li acclamavano, presentandosi con i loro grandi sorrisi.

In serata, il Koinonia Children Team è riuscito a replicare il successo ottenuto la mattina con le scuole anche nello spettacolo rivolto alla cittadinanza, al quale hanno risposto circa 700 persone (un numero eccezionale per Fabriano!), e anche questa volta non hanno deluso le aspettative: hanno costruito altissime piramidi umane mantenendo equilibri incredibili, hanno coinvolto il pubblico con la forza e l’energia tipica di chi ha voglia di riscatto e trova in un applauso il calore e l’affetto a lungo cercati. Di nuovo al termine dello spettacolo il pubblico, questa volta di tutte le età, è finito in pista, a ballare danze africane al ritmo scandito dai bravissimi percussionisti.

In 3 giorni i nostri piccoli amici africani hanno lasciato un segno profondo nei cuori di tutti coloro che hanno avuto la fortuna di ospitarli, incontrarli, parlarci, giocare con loro.

Noi che ci eravamo presi l’ impegno di accompagnarli in giro per l’Italia, lo abbiamo fatto. Ma spesso sembrava come se le parti si invertissero e fossero loro a portarci per mano lungo nuovi percorsi; e noi lì, affascinati, a guardarli incantati e a momenti imbambolati. Poi riprendevamo il sopravvento appena arrivati in una nuova città. Pochi minuti e l’iniziale loro timidezza si trasformava in entusiasmo e il gioco tornava nelle loro mani. Loro vogliosi di fare e noi di guardare e imparare. Sembrerebbe un’inversione di parti dell’antico stereotipo di un nord esportatore di civilizzazione e un sud pronto ad apprendere; ma quando il campo si restringe fino a scendere nel rapporto uno ad uno con esso si cancella, se mai ce ne fosse stata, qualsiasi forma di presunta superiorità. A livello umano ogni volta sembra palese come siamo noi alla fine ad uscirne arricchiti ed estremamente grati delle gioie del momento regalateci. Perchè quando i bambini diventano Stephen o Martin, Harrison o Kelvin, ecco che le facce assumono espressioni e le parole significato profondo pur nella loro semplicità. E non esistono appelli corali, per quanto lodevoli, che restino impressi più di una singola battuta di uno Stephen o di un Martin, di un Harrison o di un Kelvin. Perchè è a quel punto che il “loro” più volte ripetuto crolla e resta un “io” di fronte a un “tu”.

Fabrizio Floris, uno degli amici torinesi di Koinonia di piu’ lunga data e grande conoscitore degli slums di Nairobi sui quali ha scritto piu’ di un libro, ha commentato:

“Se si guardano le statistiche sui bambini di strada si scopre che il tasso di delinquenza è alto, che l’accattonaggio è prevalente e che i servizi sociali in loro favore sono inesistenti. Gli street children appaiono solo come potenziali clienti dell’assistenza delle ONG, destinati a diventare criminali. Sono figli dello slum, di un paese povero, di un quartiere povero e di una famiglia povera e tutto questo comunica loro che “dallo slum non può venire niente di buono” quindi sono loro stessi a essere “buoni a nulla”. La loro vita appare segnata fin dall’inizio, il futuro non è una prospettiva, ma una minaccia. Il tempo che possono vivere è solo quello presente. Non possono andare a scuola perchè troppo costosa, ma non possono nemmeno lavorare perchè la disoccupazione e’ alta e chi sarebbe cosi folle da assumere un ragazzo di Kibera o di Korogocho? Quindi sono vittime e agiscono come tali. Per la Banca Mondiale rientrano in quel miliardo di persone “senza futuro”, sono di troppo, in eccesso.

Eppure vedendo e ascoltando i Koinonia Children, provenienti da un rifugio (kivuli) della periferia di  Nairobi, saltare, ballare e cantare ricordandoci il diritto alla pace e alla giustizia, ci si accorge che il quadro delle statistiche e’ sbagliato: siamo di fronte a persone di grandissma umanita’. E ti vien da pensare che non solo non sono scarti, ma che loro ci stanno precedendo su strade nuove e che noi dobbiamo impegnarci molto di piu’ se vogliamo tenere il passo.”

Chi Sono i Pirati?

I pirati somali, le cui gesta sono occasionalmente riportate dai mass media internazionali,  probabilmente sono interessati solo alle centinai di migliaia di dollari di riscatto che riescono a estorcere per restituire le navi sequestrate, ma, involontariamente, ci aiutano a capire come va il mondo.

Agli inizi di quest’anno c’e’ stato un notevole aumento di navi sequestrate. In questi gironi i pirati somali hanno in ostaggio almeno 16 navi straniere con un totale di 323 marinai. Nel 2008 ci sono stati 49 casi pienamente documentati di navi prese in ostaggio, ma di molti altri casi non si sa quasi nulla, perche’ i proprietari preferiscono pagare il riscatto senza far sapere dell’accaduto. Magari la nave in questione trasportava merci illecite (rifiuti tossici) o praticava la pesca illecita, sia perche’ troppo vicina alla costa, o perche’ usava metodi proibiti da convenzioni internazionali, come le esplosioni subacquee, o perche’ pescava specie protette.

Fra i paesi che si sono mobilitati per contrastare i pirati che rendono problematico e costoso l’ uso del canale di Suez, per entrare nel quale le navi devono passare davanti alla costa somala, ci sono non solo molti paesi dell’ Unione Europea, e gli Stati Uniti,  ma anche l’India e la Cina, a sottolineare l’ importanza crescente di questi due paesi nel commercio mondiale. Se nella lotta contro i pirati vengono commessi degli errori il mare aiuta a nasconderli. Recentemente una nave indiana ha annunciato di aver fatto fuoco conto una barca di pirati. Poche giorni i dopo il governo della Thailandia ha denunciato la sparizione di un peschereccio del loro paese. I luoghi e i tempi fanno pensare che si trattasse della stessa barca…  Ci sono fondati sospetti che la guerra contro i pirati venga anche usata per sperimentare l’uso di un intero arsenale di cosiddette armi non-letali recentemente sviluppate negli Stati Uniti, che includono i “sonic blasters” che anche a 500 metri possono provocare danni permanenti all’ udito. La Corea del Sud e’ rappresentata nelle acque somale da una flotta dedita alla pesca illegale del tonno, e ormai su ogni peschereccio c’e’ personale armato. E da dove provengano le navi che dispongono rifiuti tossici nelle acque somale tutti trovano conveniente non accertarlo, o meglio far finta di non sapere che succeda. Certo e’ che le coste delle Somalia sono diventate una parabola del mondo d’oggi.

La linea di demarcazione fra “pirati” e difensori della legge comincia a farsi confusa, e si puo’ capire come molti somali considerino la pirateria un modo per farsi pagare i danni subiti. I primi episodi di “pirateria” hanno avuto come protagonisti dei poveri pescatori che cercavano di impedire ai pescherecci stranieri di avvicinarsi alle loro coste, giustamente accusandoli di operare in acque riservate, e per ostacolare lo scarico di rifiuti tossici. Organizzazioni serie hanno calcolato che la pesca illegale “preleva” dalle acque somale un valore in pesce di almeno 300 milioni di dollari all’anno, mentre i pirati ogni anno riesco ad estorcere agli armatori neanche un decimo di questa somma. Quella che era incominciata come una protesta e’ indubbiamente diventata una gigantesca operazione criminale. Ma e’ evidente che di pirati ce ne sono da entrambe le parti.

Il caso piu’ emblematico e istruttivo e’ quello della motonave MV Faina, di proprietà’ di un armatore Ucraino, catturata dai pirati lo scorso 25 settembre. Il cargo include 33  modernissimi carri armati, e un vastissimo assortimento di 1,000 tonnellate di armi e munizioni, molte con “depleted uranium”, uranio spento, con un terrificante potenziale di inquinamento.

Dove stava andando questo carico? La prima comunicazione dei pirati, che chiedevano un riscatto di 100 milioni di dollari, diceva che erano armi destinate al governo del Sud Sudan. Il quale ha immediatamente negato la cosa. Ma la nave stava andando a Mombasa e il governo del Kenya e’ stato chiamato in causa. Dopo un lunghissimo e imbarazzante silenzio il portavoce del governo del Kenya disse che le armi erano in effetti destinate a questo paese. Ma i pirati hanno replicato faxando una documentazione ineccepibile che dimostra che le armi erano dirette in Sud Sudan. In Kenya si sono levate voci, anche in Parlamento, a denunciare l’illogicità’ della cosa, era chiaro che il Kenya cercava solo di togliere dall’ imbarazzo il Sud Sudan e gli altri paesi conniventi, dopo essersi prestato ad un’ operazione di traffico d’armi proibita dalle convenzioni internazionali. L’ imbarazzo diplomatico e’ stato enorme e non si e’ trovata una via d’ uscita. Il governo del Sud Sudan e’vincolato dal trattato di pace firmato quattro anni fa a non riarmasi.. Comunque si voglia guardare alla cosa e’ evidente che i finanziatori di questa operazione non sono i soliti terroristi di Al Qaeda, o estremisti islamici, o potentati arabi. I governi che non hanno potuto dimostrare di essere estranei – Sud Sudan e Kenya – sono, da quando esistono, alleati di Gran Bretagna, Europa e Stati Uniti. Questi ultimi sono stati la forza che ha spinto il movimento di liberazione del Sud Sudan a firmare il trattato di pace e a costituire un governo semiautonomo. Inoltre per usare le armi del tipo presente sulla MV FAINA l’ esercito Sud Sudanese ha bisogno di istruttori. La conclusione non puo’ essere che una: il Sud Sudan si sta riarmando fino ai denti, perche’ non crede nella possibilita’ che nel 2011 si effettui il referendum che permetta ai suoi cittadini di scegliere se restare uniti a Khartoum o diventare uno stato completamente autonomo, come previsto dal trattato di pace. E questo riarmo avviene con la connivenza delle potenze che hanno fatto firmare lo stesso trattato, che proibisce il riarmo.

Naturalmente a Khartoum non e’ parso vero il vedersi offrire su di un piatto d’argento la prova delle del riarmo del Sud, e non perde occasione di ricordare al mondo l’esistenza della MV FAINA. Invece tutta o quasi la stampa internazionale sembra aderire al tacito ordine di ignorare il fatto. La MV FAINA, una costosissima bomba inquinante, e’ cosi da ben oltre tre mesi nelle mani dei pirati, guardata a vista da navi da guerra statunitensi e europee, ma nessuno ne parla. Come si risolvera’ il caso? Pagare il riscatto equivarrebbe ad un’ammissione di colpa. Il governo del Kenya, che ha già ben altri problemi non accettera’ più che venga scaricata a Mombasa. E allora? Mi diceva un cinico anziano giornalista esperto di cose internazionali. “Lasceranno passare del tempo fino a che l’ opinione pubblica se ne sara’ dimenticata, poi magari col pretesto di un’ azione dei pirati la bombarderanno cosi che se ne vada in fondo al mare insieme al suo imbarazzate cargo, ai pirati e alla verita. Poi tutti verseranno lacrime di coccodrillo sull’ inquinamneto causato dai pirati”.

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