Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

October, 2013:

Segni di un Mondo Nuovo – Signs of a New World

Ogni tanto la poesia, quello sguardo diverso sulla vita, ti aggredisce in momenti imprevedibili e immeritati. La vedi, è lì a portata di mano, e ti accorgi che è più vera della realtà.
A me è successo una sera proprio a Mthunzi, nella casa per ex-bambini di strada alla prefieria di Lusaka. Avevo messo una sedia nel grande cortile con tutt’intorno i dormitori, il refettorio, la cucina, la falegnameria, il mulino. C’era una profonda quiete, l’ultima auto era passata oltre un’ora prima, nella strada sterrata ai piedi della collina.
Il sole tramontava ad occidente mentre contemporaneamente ad oriente sorgeva la luna piena. Alcuni bambini rientravano sudati e stanchi per una partita di calcio. Altri erano sotto la doccia, mentre altri, già puliti e coi vestiti odorosi di bucato, preparavano all’aperto il tavolo che sarebbe servito da altare per la Messa. Poco lontano, sotto una tettoia nello stesso grande cortile, mama Edina cucinava un’enorme polenta, mentre il pentolone di spezzatino era già pronto. I bambini indaffarati nelle varie occupazioni mi passavano accanto e facevano un cenno d’intesa, mi lanciavano uno sguardo, un sorriso, ognuno in modo diverso significando la gioia di essere insieme in un posto tranquillo, protetto, dove ci si vuol bene.
Ecco, improvvisamente, il nuovo mondo è qui. La miseria e la cattiveria che hanno fatto soffrire questi bambini sono state vinte, non ci sono più. Sono veri solo i loro occhi che cercano e offrono affetto, il loro sorriso generoso, le loro mani pronte a stringere la tua, a regalarti un abbraccio. Mi è venuto in mente Andrew Awuor, il ragazzo keniano che ha stimolato noi tutti in questa avventura di cammino insieme ai bambini di strada, sfidandomi, nel 1992, a “fare qualcosa insieme per quei bambini”. Allora durante la Messa ho parlato di lui ai bambini, che mi ascoltavano come se parlassi di un loro fratello maggiore, rapiti. Il nuovo mondo è qui, nella comunione fra i vivi, e dei vivi coi morti.
Le grandi aspirazioni di amore e di libertà che sono dentro questi bambini, come dentro tutti noi, diventano palpabili. Libertà e amore – comunione – il motore di tutto ciò che si muove. Siamo aperti al mondo, accoglienti, quando queste due forze sono vive dentro di noi, e le sappiamo vedere nel piccolo mondo intorno a noi, prima ancora che nel grande mondo. Il rivoluzionario che conosce solo i pugni chiusi, l’ urlo di rabbia, parole e gesti di violenza e non riconosce la sete di amore e libertà che ci sono nel cuore di tutti, si condanna alla sterilità.
Noi cambiamo il mondo con gesti grandi e piccoli. Rifiutando un prodotto che sappiamo essere frutto di ingiustizia, contribuendo a costruire una scuola, dando assistenza disinteressata ad un immigrato, coltivando un campo, riparando un computer, fermandoci sull’autostrada ad aiutare chi è coinvolto in un incidente, impegnandoci a denunciare le ingiustizie e a praticare la solidarietà. I nostri gesti, il nostro lavoro, i nostri progetti hanno un valore che va al di là della loro pura materialità. Quando sono posti consciamente costruiscono la nostra identità, il nostro mondo interiore, cambiano il significato della nostra vita personale e del mondo che ci circonda. Diventano segni di amore, di una vita che vede al di là di se stessa. Cosi come nella tradizione cristiana l’acqua, il fuoco, il pane, il vino, l’olio, l’ abbraccio fraterno parlano della presenza di Dio.
Mthunzi è per me il piccolo mondo dove ogni tanto la poesia irrompe, libertà e amore prendono il potere, nasce la comunione.

Justice or License to Kill? -Giustizia o Licenza di Uccidere?

Uhuru Kenyatta, President of Kenya.

L’Ibrahim Index of African Governance (IIAG) è un’organizzazione creata nel 2007 dal miliardario sudanese Mo Ibrahim per promuovere il buon governo in Africa. Ogni anno assegna il più importante premio mondiale individuale ? cinque milioni di dollari, più di duecentomila dollari l’anno per tutta la vita – a un leader africano che sia stato democraticamente eletto, abbia governato bene, alzando gli standard di vita del suo popolo, lasciando l’incarico, al termine normale del suo mandato.
Ieri è stato annunciato che il comitato incaricato di selezionare il vincitore di quest’anno non ha trovato alcun candidato degno del premio. Visti i requisiti, non sono molti i leader, anche a livello europeo e mondiale, a potersi candidare. E infatti, nei sette anni dalla sua istituzione il premio è stato assegnato solo tre volte : a Pedro Verona Pires di Capo Verde , a Festus Mogae del Botswana e a Joaquim Chissano del Mozambico. Con l’annuncio è stato pubblicato anche il rapporto annuale sulla sicurezza nazionale in Africa, con uno sconsolante risultato per il Kenya, classificato verso il fondo della graduatoria delle 52 nazioni africane prese in considerazione, in buona compagnia con le “nazioni fallite” come la Somalia e le altre che si trovano ad affrontare situazioni di sicurezza ingestibili.
Il giudizio dell’IIAG sul Kenya è troppo severo. Eppure rappresenta abbastanza bene l’opinione pubblica internazionale, dopo che sono stati resi noti i pasticci combinati dalle forze di sicurezza keniane durante il recente attacco terroristico al Westgate Mall.
Un altro fatto che ha minato la fiducia nella capacità del governo del keniano di affrontare le crisi di sicurezza e i connessi abusi dei diritti umani, è l’azione diplomatica che vorrebbe rinviare la causa della Corte penale internazionale (Cpi ) contro il presidente del paese, Uhuru Kenyatta. Lui e il suo vice, William Ruto, sono infatti accusati di aver organizzato le violenze seguite alle elezioni del 2007 che hanno causato circa mille e cinquecento morti. Il parlamento del Kenya ha già avviato il processo di ritiro del paese dalla Cpi.
I rappresentanti dell’Unione africana (Ua) si sono ritrovati ad Addis Abeba ( Etiopia) sabato scorso, 12 ottobre, in sessione straordinaria richiesta da Kenya e dedicata al rapporto dell’Africa con la Cpi.
Nella dichiarazione finale hanno sottolineato che, al fine di salvaguardare l’ordine costituzionale, la stabilità e l’integrità degli stati membri, «a nessun capo di stato o di governo dell’Ua, o a qualcuno che agisce o è autorizzato ad agire in tale qualità, può essere richiesto di comparire in qualsiasi corte internazionale o in un tribunale durante il suo mandato». E «riconoscendo il ruolo fondamentale che il Kenya sta giocando nella lotta contro il terrorismo, l’assemblea ha osservato che il procedimento contro il presidente e il suo vice potrebbe distrarre e impedire loro di assumersi le proprie responsabilità costituzionali, incluse le questioni di sicurezza nazionale e regionale».
Hailemarian Desalegn, primo ministro etiopico, ha sottolineato: «Il nostro obiettivo non è e non dev’essere una crociata contro la Corte penale internazionale, ma un invito solenne all’organizzazione di prendere sul serio le preoccupazioni dell’Africa».
Eppure l’iniziativa dell’Ua è stata interpretata da molti come un vero e proprio attacco all’esistenza stessa della Cpi. Alcuni giornali africani titolavano: “La Cpi sotto processo ad Addis Abeba”. Sullo sfondo, infatti, incombe la minaccia del ritiro di tutti gli stati africani dalla Cpi, col pretesto che molti africani la percepiscono come pesantemente prevenuta nei confronti del continente. Lo statuto della Corte è stato ratificato da 122 paesi, 34 dei quali africani. Oltre che in Kenya, ci sono al momento 7 indagini in corso: in Uganda, Repubblica democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Sudan, Libia, Mali e Costa d’Avorio.
Una delle ragioni addotte dagli oppositori della Corte è: «Come può la Cpi mettere sotto processo un presidente democraticamente eletto da più della metà degli elettori?». Un argomento molto simile a quello che utilizzano in Italia i sostenitori di Berlusconi: «Com’è possibile bandire dai pubblici uffici un politico sostenuto da un terzo dell’elettorato nazionale?».
Ma non mancano i critici. Alcuni leader di fama internazionale hanno criticato l’Ua. L’ex segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, ha detto che il ritiro dalla Cpi sarebbe per l’Africa un “marchio d’infamia”. L’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, uno dei leader africani più amati e rispettati dopo il suo connazionale Nelson Mandela, ha pure lui manifestato il suo forte dissenso. Tutu ha le credenziali giuste per parlare di giustizia, e non solo perché ha sofferto e lottato contro l’ apartheid, guadagnandosi il premio Nobel per la pace nel 1984. È stato un critico feroce del trattamento riservato da Israele ai palestinesi così di come la Cina discrimina i tibetani. Nell’agosto dello scorso anno a Johannesburg aveva abbandonato un incontro di leader mondiali, rifiutandosi a condividere una piattaforma con l’ex primo ministro britannico Tony Blair, affermando che il signor Blair e l’ex presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, dovrebbero essere processati presso la Cpi per aver mentito sull’Iraq e le armi di distruzione di massa per giustificare l’invasione del paese.
La scorsa settimana in un appello on-line Tutu ha scritto: «Mentre alcuni leader africani giocano sia la carta del razzismo che la carta coloniale, i fatti sono chiari: lungi dall’essere una caccia alle streghe organizzata dall’uomo bianco, la Cpi non potrebbe essere più africana di quanto già lo sia. Più di 20 paesi africani hanno contribuito a fondarla. Delle 108 nazioni che inizialmente hanno aderito, 30 sono africane. Cinque dei 18 giudici della Cpi sono africani, cosi come lo è il suo vice presidente, Sanji Mmasenono Monageng del Botswana. Il procuratore capo del tribunale, Fatou Bensouda , che ha un potere enorme sui casi perseguiti, è originaria del Gambia. La Cpi è molto chiaramente un tribunale africano. I leader che cercano di aggirare la Cpi sono effettivamente alla ricerca della licenza di uccidere, mutilare e opprimere il proprio popolo senza doverne subire le conseguenze. Semplicemente tacciano l’istituzione come razzista e ingiusta, così come Hermann Goering e i suoi compagni nazisti imputati hanno vilipeso il processo di Norimberga dopo la seconda guerra mondiale”.

Hatred and Forgiveness

Forgiveness, mercy, acceptance, hope—words that have a Gospel flavour; words that more than others have become the theme of the reflections on the readings of the Mass that Pope Francis celebrates daily with the people in the small Santa Marta chapel in the Vatican. It could not be otherwise, since in the Gospel the proclamation of the mercy of God, of His infinite love for his children is the dominant theme.

God condemns the evil, yet He does not want the condemnation and the death of the sinner. In front of God, every human being is always lovable even when his life, sometimes even his physical appearance, is disfigured by sins. We all know people who look evil. We stay far from them. We are afraid that the aura of evil that we perceive in them can somehow attach to us. As a child, I remember the physical repulsion I felt of a man living in my neighbourhood who was known for the beatings he was inflicting on his wife and children. I had only heard the adults talk about his behaviour, but his face, always contorted in a sour grin, kept me at a safe distance. Instead, God looks with love also at those people whom others judge to be lost. In them, He can still perceive the flickering flame of the love he has put in them, He wants to see that flame grow. He never gives up hope.

Jesus, in front of the woman caught in the act of adultery, does not condemn her. The woman does not ask for forgiveness. When the accusers go away in shame for their self-righteousness after being challenged to throw the first stone, He just asks her: “Woman, where are they? Has no one condemned you?” and at her negative reply He tells her: “Neither do I condemn you; go and sin no more.” It is forgiveness without condition, not even the pre-condition of repentance. We may be surprised because to forgive is so difficult for us, and because for many centuries the Church in the West has listed sins in accordance to their gravity, and the penance was meted out in proportion. Priests had become accountants of sins, rather than administrators of the forgiveness of the Father. Now, we are surprised because Pope Francis is simply reminding us of the importance of forgiveness in Christian life, in a teaching that can be summarized in two lines: God is universal and infinite love. One cannot deserve His love; it is He who reaches out to all people, to all sinners, to all those who need to heal their lives.

Forgiveness is freedom

It is difficult for us to forgive. Yet, forgiveness opens up new horizons and new life. As a priest, I have learned to see the presence of God in the lives of people when I see forgiveness. I saw it when I met Wanjiku, a young woman from central Kenya. She lost her parents when very young and was brought up in the homestead of a relatively wealthy uncle. Treated like a slave by the stepmother, she had to work in the kitchen and to attend to the domestic animals for more than fourteen hours per day, while her cousins went to school. Out of sheer determination, she studied in the evening using the books she found scattered around the house, she went to church and catechism classes on Sundays and then found the courage to run away and fend for herself in Nairobi.

Now Wanjiku works as a flight attendant in an international airline company, a job incredibly prestigious back in the village. Just imagine flying every day all over the world! It would have been easy for her to go back and make fun of or despise those who had mistreated her. Instead, she told me: “when I went back to the village for a visit, for a long time I did not tell my relatives about my job. I did not want to humiliate them. I wanted to win them over first. I just brought small gifts. I do not have any grudges against them. I know they struggled for life, I understand their worries, their fear for the future, for the difficult condition of their lives. I have forgiven them, and I would like to see them spend their last years in serenity. I am sure that when they were exploiting me, they were deeply unhappy for some reasons that I did not know, and I do not want to judge them.” Wanjiku is a free person. The past is gone, she looks ahead to a life of commitment and work, to form her family, to pour out to others the love she had not experienced as a child. Freeing herself, Wanjiku frees her uncle and aunt from the chains of their past.

Pope Francis, while visiting a community of contemplative Sisters and talking about Mary as the mother of all Christians, told this delightful story to illustrate how Mary is a merciful mother. “Mary is at the door to Paradise. Saint Peter does not always open when great sinners knock at the door. Mary sees the desperation on the faces of those rejected, she suffers with them, she would like to console them, but she does not want to argue with St Peter. So she stays put. At night, when St Peter closes the door and goes for some well-deserved rest, when nobody sees and nobody hears, Mary opens the door and lets everyone enter.”

Respect and love sinners

The pastors, the priests have a difficult task: they have to teach what is good, to point to their fellow Christians the way towards Jesus, to condemn what is evil, but at the same time they have to teach respect and love for sinners. They have to be like the shepherd who leaves the ninety-nine sheep to look for the one lost sheep; to be like the forgiving father who opens his arms to receive the lost son; to be like Jesus on the cross, forgiving those who are crucifying and despising him. The self-righteous may protest.

What is then really putting our Christian life in danger? It is to hate the sinner. Pope John XXIII fifty years ago made it clear: “we do not have to confuse the sin with the sinner”, because “the sinner is first and foremost a human being and retains the dignity of a human person” and therefore must be treated with mercy and compassion.

Hatred is the opposite of love, mercy and compassion. Speaking to the youth at the end of the World Youth Day in Brazil, Pope Francis gave them advice valid for Christians of all ages. “Do not water down your faith in Jesus Christ. Read the Beatitudes: that will do you good. If you want to know what you actually have to do, read Matthew Chapter 25, which is the standard by which we will be judged. With these two things you have the action plan: the Beatitudes and Matthew 25. You do not need to read anything else.”

Tiyende Pamodzi – Let’s Walk Together – Camminiamo Insieme

Ascoltarsi, parlarsi, conoscersi, aiutano a crescere nel rispetto reciproco e nella solidarietà. Koinonia, iniziata a Lusaka (Zambia) nel 1982, lo sa bene. Da allora ogni anno gruppi organizzati di giovani, dall’Italia ma anche da altri paesi, hanno partecipato a viaggi di conoscenza diretta della realtà africana per vivere un periodo di condivisione con la comunità locale. Affrontando difficoltà e commettendo errori, abbiamo scoperto che comunque costruire solidarietà è parte integrante del nostro cammino comunitario. Ora Amani, la ONG italiana che ha organizzato per anni i viaggi in Zambia, ha deciso di far vivere ad un gruppo di ragazzi zambiani la prospettiva del viaggiatore, invitandoli ad una esperienza educativa che incomincerà a Torino il 23 novembre e si snoderà attraverso l’Italia, fino a Matera, concludendosi a Roma da dove rientreranno in Zambia il 15 dicembre.

Già i ragazzi di Koinonia Kenya hanno visitato l’Italia più volte e l’esperienza è stata positiva per tutti. Naturalmente devono preparasi prima di partire, come fanno tutti i viaggiatori veri. E` significativo che nessuno di loro, anche fra i ragazzi piu grandi della squadra di calcio per esempio, abbia scelto di vivere in Italia.

Il viaggio in Italia sarà anche un’occasione per gli amici italiani di salutarli e vivere insieme un’esperienza formativa attraverso lo scambio culturale, l’accoglienza in famiglia, le visite alle città d’arte, gli incontri nelle scuole e la presentazione di uno spettacolo di danze tradizionali zambiane. I ragazzi zambiani avranno occasione di incontrarsi con i coetanei e soprattutto di raccontare la loro esperienza.

Perche’ Koinonia ed Amani si prendono un impegno organizzativo cosi importante? Non sarebbe meglio fare altre cose?

La altre cose le abbiamo fatte e continuiamo a farle. Mthunzi, da dove provengono i 16 ragazzi che parteciperanno al viaggio, è un progetto socio-educativo in un centro residenziale nato per accogliere i bambini di strada di Lusaka. Sorge a circa 15 km dalla capitale zambiana, in una zona rurale. Per i bambini non è solo un luogo di accoglienza ma rappresenta la possibilità concreta di costruirsi un futuro. A Mthunzi i bambini ricevono un’educazione adeguata e un sostegno costante alla loro crescita. Questo permette loro di riacquistare fiducia in se stessi e nel mondo degli adulti, un mondo che ha negato loro negli anni di vita in strada la possibilità di vivere un’infanzia serena. A Mthunzi ci sono anche attività agricole, una scuola di informatica e di sartoria. C’è anche un dispensario medico, diventato negli anni un riferimento importante per i villaggi circostanti.

Ma questo non basta. I ragazzi sono protagonisti della loro formazione umana e religiosa, a seconda delle loro necessità, scelte e impegni. Imparano ad aprirsi al mondo e ad essere cittadini responsabili. Per questo verranno in Italia con un messaggio, condensato nel titolo dello spettacolo: Tiyende Pamodzi, o Camminiamo Insieme.
La tragedia di Lampedusa, e alcuni commenti che ne sono seguiti, mi rinforza nella convinzione che dobbiamo costruire solidarietà. Più ancora radicalmente, dobbiamo ricostruire il senso di appartenere alla stessa famiglia umana. Spero che gli autori di certi commenti riportati dai mass media li abbiano fatti perché non hanno mai avuto occasione di incontrare veramente “gli altri”. Per una serie di circostanze si sono ritrovati a vivere chiusi in gabbie dalle quali mai tentato di uscire, perché in quelle gabbia si sentono sicuri . Senza accorgersi che ne sono anche prigionieri.

Per i cristiani, come lo sono molti dei ragazzi di Koinonia e molti dei miei amici, l’essere tali si misura con la capacità di creare incontro, fraternità, comunione. Di trasformare l’amore per gli altri in fatti concreti, in impegno e servizio.

Don Milani diceva, cito a memoria, “Se voi vi arrogate il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dico che, nel vostro senso, io non ho patria”. Chi avrà l’occasione di incontrare i ragazzi di Koinonia si convincerà, se già non lo fosse, di essere parte di una patria più grande.

Un’altra “primavera araba”? – Another “Arab Spring”?

È in corso a Khartoum una feroce repressione contro le proteste che si sono scatenate dopo che il governo ha quasi raddoppiato il prezzo del carburante. La stampa internazionale ne ha dato notizia, quando lo ha fatto, riportando un comunicato stampa di Amnesty International che ha chiesto al governo del Sudan di «cessare immediatamente l’uso della forza arbitraria e illegale nei confronti dei manifestanti che da giorni protestano contro il taglio dei sussidi alla benzina. Tra il 24 e il 25 settembre le forze di sicurezza hanno ucciso, colpendoli alla testa e al petto, almeno 50 manifestanti. Secondo fonti e attivisti locali, i morti sarebbero oltre 100. Solo a Omdurman, sono stati spediti all’obitorio 36 cadaveri ed eseguiti 38 interventi chirurgici. La maggior parte dei manifestanti uccisi erano di età compresa tra i 19 e i 26 anni».

Gli attentati terroristici avvenuti in Kenya, Pakistan, Nigeria e le tensioni in altre parti del mondo, Siria e Repubblica Centrafricana, hanno cospirato a far passare inosservate le vicende sudanesi di questi giorni, ma non pochi si domandano se non siamo arrivati al capolinea per il regime del presidente Omar El-Bashir, al potere dal 1989. Da anni, da quando fu spiccato un mandato di cattura contro di lui dalla Corte penale internazionale (Cpi), si sono scatenate proteste contro il suo regime, ma finora tutte sono state represse con successo. Che sia questa l’inizio della fine per El-Bashir?

In questi giorni migliaia di persone sono scese in strada in tutto il paese, dapprima a Wad Madani e poi nella capitale Khartoum, e in tutte le città più importanti. Il 25 settembre Internet è stato sospeso e gli organi di stampa sono stati messi sotto stretto controllo dalle forze di sicurezza. Nonostante questo, i social network di tutto il mondo hanno potuto far circolare foto e video amatoriali in cui si vedono decine di vittime. Le informazioni di domenica 29 settembre davano il numero dei morti, solo a Khartoum, a più di 210.

Il dottor Ahmed al-Sheikh, responsabile di un’associazione di medici, ha testimoniato che i morti erano stati colpiti alla testa o al petto e che le forze di sicurezza intimavano ai parenti di denunciare “morte per causa naturale” sul certificato medico, minacciando e arrestando anche alcuni dottori che non erano disposti a collaborare.
Altre fonti confermano che le persone detenute dal NISS (Sudan National Intelligence and Security Services, i servizi segreti) sono nell’ordine delle centinaia ed è facile immaginare, perché è la routine, che siano sottoposte a torture, come è stato sottolineato dall’African Centre for Justice and Peace Studies , basato a New York.
Venerdì 27 settembre, le forze di sicurezza hanno chiuso gli uffici di Khartoum di Al-Arabiya, un canale televisivo degli Emirati Arabi Uniti con l’accusa di diffondere notizie false. Al-Sudani e Al-Meghar Al-Siyasi, due quotidiani, sono pure stai sospesi, mentre altre pubblicazioni si sono auto-sospese in segno di protesta.

L’impressione che il regime di El-Bashir sia ormai alla fine, è rafforzata anche dal fatto che ieri, domenica 29, il presidente abbia cancellato un discorso pubblico perché la grande folla che di solito presenzia a simili manifestazioni, non c’era.

Mohamed Yassin, ricercatore all’università di Udine e portavoce in Italia del Splm-N, ha detto che «la comunità internazionale diventa cieca e sorda quando ci sono vittime in Sudan, mentre le notizie che riguardano la chiusura degli oleodotti sudanesi sono sempre riportate e commentate per esteso. Sappiamo ciò che avviene in Sudan solo attraverso gli attivisti locali, che rischiano la vita per diffondere foto e video. La comunità internazionale nel migliore dei casi fa dichiarazioni e condanne molto generiche e quasi di routine, assolutamente inefficaci a fermare il fiume di sangue che sta sommergendo il Sudan».

Ma purtroppo El-Bashir, con il supporto del fanatismo islamico, è stato altre volte capace di uscire vincente da situazioni che sembravano estreme. Non posso non ricordare un incontro a Nairobi (Kenya) nella casa di un eminente politico sud-sudanese in esilio, Clement Mboro, nel 1989, poche settimane dopo che El-Bashir aveva preso il potere con un colpo di stato. Erano presenti tutti i più importanti politici dell’opposizione sudanese del momento, e fra gli altri Bona Malwal, intellettuale e politico sud-sudanese che era stato sorpreso in Inghilterra dal colpo di stato. Malwal fece una lunga e precisissima analisi politica di quello che era successo a Khartoum, per concludere con un categorico: “Tutto questo mi rende sicuro che El-Bashir sarà scalzato prima di Natale”. Sono passati ventiquattro anni: Mboro, coerente fino alla fine, è morto in povertà a Nairobi; El-Bashir è ancora al potere a Khartoum e Bona Malwal, sistemato in una lussuosa villa a Khartoum, ne è il principale consigliere politico per gli affari sud-sudanesi.

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