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June, 2020:

26 giugno. Coronavirus in Kenya (26)

Oggi un gruppo di tredici ragazzi maggiorenni del gruppo riscattato della strada in situazione di emergenza ha completato la prima settimana di corso pratico di ristorazione, organizzato da Diakonia Institute per dieci settimane. Molto lavoro in cucina, servizio in sala e nozioni di management, tutto a Shalom House e Baraza Café. Come gestire un piccolo ristorante – o eating point – e quali sono i permessi da ottenere e le tasse da pagare.

Per necessità logistiche sono ospitati a Kivuli. Ogni mattina fanno una camminata di 30/40 minuti fino a Shalom, e alle 9 iniziano a lavorare, in gruppi, al forno o in cucina. Parte della lezione è preparare il loro pasto, e aiutare a servire al tavolo gli eventuali clienti, pochi in questi giorni. Si sono subito appassionati. Oggi mi hanno voluto servire il pasto preparato da loro, un hot dog con riso pilau.

Oggi S***, che sta ancora imparando ad usare forchetta e coltello, a fine pasto nel nostro immacolato – se cade una briciola fanno il turno a pulire – ma modesto Baraza Café guarda stupefatto il suo piatto vuoto, poi mi dice, “Grazie padre, è la prima volta in vita che mangio in un ristorante. Finora li avevo visti solo in televisione”. Quale televisione? Quelle che i negozianti espongono accese in vetrina o sulla strada per attirare i clienti. I vestiti sporchi, il sacco con i rifiuti di metallo o plastica che poi andranno a vendere, i bambini di strada che guardano queste televisioni sono essi stessi uno spettacolo. Assorbono ogni dettaglio delle telenovelas che vanno tanto di moda, sognando un mondo fasullo che non sarà mai il loro. Per fortuna.

La vita che loro portano è molto più bella e genuina. La loro presenza ha fatto rivivere Kivuli, temporaneamente privato della presenza dei bambini. Le scatenate partite di pallacanestro sullo sgangherato campetto, i capannelli che parlano di calcio, i fanatici di reggae che in nel salone ballano senza sosta intono ad un computer che ripete all’infinito Buffalo Soldier, mentre i due di turno in cucina di danno da fare a praticare l’arte imparata il mattino, perché a tavola non ci saranno solo loro tredici, ma anche i tre ragazzi che ancora vivono a Kivuli, Peter con il suo eterno problema alla gamba, e stasera anche sette ragazzi Sud Sudanesi ed Evelyn, la responsabile di Kivuli.

Tutto intorno al grande tavolo nel locale che a Kivuli è conosciuto come “Italian Restaurant”. Dileggi e risate e non finire ricordando gli impacci e gli errori di ognuno durante la pratica in cucina, lo stupore del cliente che si vede attorniato da sei camerieri, il rimprovero del capocuoco/istruttore Kasanga che ha sorpreso uno di loro che si si era fatto una fetta di pane e marmellata… Poi si alza J*** al quale da quando è arrivato non ho sentito dire più di 10 parole, con un cenno chiede il silenzio e recita una preghiera in inglese impeccabile. Applauso generale, J*** si guarda in giro e dice in un inglese non più perfetto perché improvvisato qualcosa tipo “Io chiedo scusa perché qui siete tutti troppo miei amici”. Altre risate, e M*** lo corregge “Non dovevi dire chiedo scusa, ma vi ringrazio”. J*** accetta la correzione con un sorriso, e non si azzarda a dire altro ma con un cenno invita ad incominciare il pasto. Spaghetti aglio olio peperoncino con contorno di cavoli stufati. Cala il silenzio. Il cibo lo si mangia con rispetto, quasi con devozione.

Ma cosa c’entra organizzare un corso di cucina con fare il missionario? Forse non c’entra niente con “fare il missionario” ma c’entra molto con l’”essere missionario”. E se non lo capisci io non posso spiegartelo, perché non lo capiresti mai, anche se te lo spiegasse un grande biblista. Ma ci provo. Le parole possono spiegare il Vangelo e approfondire la fede di chi già crede, solo eccezionalmente lo comunicano. Essere missionario è creare fraternità. Solo lo stare insieme, il vivere fianco a fianco, il condividere, l’amore vissuto possono comunicare il Vangelo. Questo è il linguaggio che tutti capiscono e che può comunicare la Vita.

Litanie per l’Africa

Papa Francesco ha aggiunto alle litanie lauretane anche le invocazioni “Mater misericordiae”, “Mater Spei” e “Solacium migrantium”. L’ultima, “Aiuto dei migranti” è un segno dell’attenzione dal papa al popolo dei migranti, un popolo fatto di genti dai mille colori e lingue e sofferenze. Un popolo che purtroppo continuerà ad aumentare negli anni a venire, a che ha tanti cittadini di origine africana. In un mondo in cui diminuiscono i diritti e crescono le ingiustizie siamo infatti destinati a vedere sempre più grandi masse di poveri che si spostano in cerca di dignità e pane.

In questo contesto ricordo una invocazione alla Madonna che fa parte della tradizione comboniana, “Mater Nigritiae” o “Madre della Nigrizia”. “Nigrizia” nella tradizione classica corrisponde all’espressione francese creata dal poeta senegalese Léopold Sédar Senghor, “négritude”, cioè l’insieme dei popoli di pelle nera e delle loro culture.

Nella foto l’ingresso della scuola di Koinonia a Nairobi “Domus Mariae Mater Nigritiae” con bassorilievi a grandezza naturale degli intagliatori di Kivuli che interpretano la Mater Nigritiae.

21 giugno. Coronavirus in Kenya (25)

A ieri le statistiche ci dicono che in Kenya c’erano 4,478 casi confermati di Covid-19, 1,586 guariti e 121 decessi. Nonostante che l’avanzata del coronavirus sia lenta il governo ha scelto di muoversi ancora con prudenza. Il ministero dell’educazione ha fatto sapere che le scuole – da primarie a università – potrebbero riaprire in settembre, se ma solo se ci saranno segnali che i contagi sono in diminuzione, altrimenti tutto potrebbe slittare più avanti, a gennaio. Considerando che l’anno accademico per la scuola primaria e secondaria va da gennaio a novembre e che quest’anno tutte le scuole hanno chiuso ai primi di marzo, significa che tutti gli studenti perderanno un anno scolastico. In Zambia, dove vige lo stesso anno accademico e l’evolversi della pandemia è stato simile, hanno invece già riaperto le scuole per gli studenti che dovranno sostenere gli esami a novembre.

La scuola è anche una protezione per bambini e adolescenti che a casa vivono in condizioni difficili, in quartieri sovraffollati e famiglie numerose che coabitano in una stanza. L’altro ieri i mass media hanno divulgato cifre allarmanti, anzi spaventose, circa l’aumento di stupri, incesti e gravidanze che coinvolgono minorenni, il tutto attribuito alle condizioni createsi in conseguenze del coprifuoco.

La corruzione continua senza sosta, la lista degli scandali per la sparizione di soldi arrivati da istituzioni internazionali per combattere la pandemia e spariti nelle tasche dei funzionari è lunghissima. Tony Idris, rifugiato sudanese che vive a Kibera da ormai 15 anni, mi dice: “Ogni tanto dicono che un capetto di partito – governo o opposizione, sono tutti al potere – è stato ricoverato d’urgenza. Ma tutto è in funzione di mantenere la tensione, In realtà qual funzionario è in vacanza a Mombasa, magari proprio coi soldi che ha rubato dalla cassa per il coronavirus. Per loro è un affare”. E qualche ragione indubbiamente ce l’ha.

Siamo in una società in cui il Covid-19 ha aumentato tensione e violenza ed ha fatto emergere gli aspetti peggiori. Anche le denunce contro i poliziotti sono sempre più frequenti, e fortunatamente l’onnipresenza degli smartphone, permette, sul modello americano, di accompagnare queste denunce con prove incontrovertibili. La scorsa settimana ha fatto scalpore il caso di una donna che, accusata di aver rubato, è stata presa, legata ad una motocicletta e trascinata a terra per decine di metri e poi ricoverata in condizioni disperate. Da un poliziotto, che è stato fermato dai passanti, e ripreso col cellulare.

A volte, dopo aver dato un’occhiata al giornale del mattino, ci si potrebbe scoraggiare. Poi alzo gli occhi dalle notizie del giornale, mi guardo intorno, e mi ritrovo con tante persone come me, che a volte fanno fatica a superare il male, però cercano di vivere la loro giornata con rispetto verso gli altri, amore per la famiglia e gli amici, gioia per il tempo condiviso. Persone che ogni giorno si rinnovano e crescono nel bene che hanno seminato ieri. Che nonostante tutto guardano agli altri con un sorriso che viene dal cuore.

14 giugno. Coronavirus in Kenya (24)

Non vorremmo più vedere bambini macilenti mendicare per le strade di Nairobi. Il rischio è che se ce ne siamo presi cura di cento, fra poche settimane quando la tensione per il timore del covid-19 si allenterà scopriremo che nelle stesse “basi” ne sono arrivati altri duecento. In questi tempi in cui la povertà cresce, i bambini filtrano della periferie povere verso il centro città, impossibile fermarli. Già ci sono i primi segnali. L’altro ieri la polizia di Kasarani ci ha chiamati per andare a prendere in consegna tre ragazzi quindicenni, nuovi alla vita di strada. Sono arrivati a Kerarapon impauriti e tremanti, con ancora addosso i vestii con cui erano scappati di casa 15 giorni fa. Perché? In casa non c’è da mangiare. Tutti di famiglie molto modeste, però fino a marzo frequentavano regolarmente la scuola. Poi le conseguenza economiche delle misure di contenimento del Covid-19 hanno fatto perdere lavoro ai genitori e senza alcune forma di sicurezza sociale è stata una discesa precipitosa vero la povertà e la fame.

In Kenya ci sono 46,639 persone di strada, secondo il primo censimento delle famiglie di strada, presentato alla stampa lo scorso mercoledì, che però fa una fotografia che risale a quasi due anni fa. La presenza più alta è a Nairobi, con 15,337, seguita da Mombasa con 7,529 e Kisumu con 2,746. Oltre il 75%, sia per i maschi che per le femmine, hanno frequantato alcune classi del ciclo primario, e il 14% ha frequentato il ciclo secondario. I “push factors” (cioè le motivazioni che le ha spinte in strada) sono stati, in ordine, la mancanza di cibo in casa, la non accessibilità ai servizi sociali, l’ostilità generale della società verso i poveri. I “pull factors” (le attrazioni) sono tutti parte del sogno di trovare una vita migliore in città. Sono cifre attendibili, come non ce ne sono mai state, ma da leggersi tendo presente che sono solo il numero delle persone che non hanno assolutamente più una casa di riferimento. A Nairobi i bambini che vivono in strada durante il giorno e rientrano a casa la sera, quindi “borderline”, sempre a rischio di finire in strada permanentemente, sono molti ma molti di più.

In questi giorni con il coprifuoco allentato (dalla scorsa domenica è dalle 21 alle 4) abbiamo più possibilità di muoverci e abbiamo incominciato a rintracciare le famiglie dei bambini che ci sono stati affidati. Prima quelli che provengono dai quartieri della città, poi quando si riapriranno i confini potremo andare a visitare le famiglie dei bambini provenienti da più lontano. I nostri operatori hanno le storie più diverse quando tornano da queste visite il cui risultato è sempre imprevedibile. Dalla vicina di casa che quando vede un bambino si mette a gridare “ma è tornato dai morti” e corre a chiamare la mamma che impazzisca di gioa riabbracciando il figlio che credeva ormai perso per sempre, al papà che non lascia entrare il figlio nella baracca spiegando a Besh che “è la quarta o quinta volta che ce lo riportano dopo che è scappato di casa portandosi via i soldi che la mamma si guadagna ogni giorno al mercato. Non lo voglio più vedere, Tenetevelo”.

Cominciamo a conoscere meglio anche i ragazzi più grandi che sono con noi ormai da due mesi. Dalle statistiche emergono volti di persone, ciascuna con i suoi problemi, i suoi sogni, la sua voglia di ripartire. Fra di loro un gruppetto che già aveva nozioni di saldatura (nelle foto Jousha e Daniel) e si è impegnato a riparare i letti a castello e le sedie in ferro delle nostre diverse case e scuole. Una decina di letti e quasi cento sedie sono state già rimesse a nuovo. “Finalmente lavoro, il sogno della mia vita” dice Daniel a tutti, mostrando orgogliosamente la fila di sedie ancora fresche di vernice.

Lo speciale TG! Che vi avevo segnalato è andato in onda la sera di domenica scorsa. Chi volesse lo può vedere su RaiPlay, al link qui sotto. Il reportage dal Kenya parte da 49′ 50″ e si vedono i nostri ragazzi a partire da 53′ 05”
http://www.tg1.rai.it/dl/tg1/2010/rubriche/ContentItem-9b79c397-b248-4c03-a297-68b4b666e0a5.html

6 giugno. Coronavirus in Kenya (23)

E’ un luogo comune che nei momenti di difficoltà le persone sono capaci di tirar fuori le energie migliori. Lo abbiamo sentito ripetere fino alla nausea negli ultimi mesi. A Nairobi abbiamo visto dei casi molto significativi,come Fred Juma.
Nato e cresciuto a Kibera, dove ancora abita, Fred è un ex-calciatore della nazionale kenyana. Cinque anni fa, ritiratosi dall’attività sportiva – che in Kenya ti arricchisce di popolarità ma di nient’altro -, ha dato vita ad piccola ONG, Green Card. Lo scorso agosto Fred si era entusiasticamente associato a Koinonia e alla fondazione Run4Future per organizzare una maratona che ha abbracciato Kibera.
Appena il coronavirus è arrivato in Kenya, Fred ha organizzato capillarmente incontri per spiegare le più importanti regole igieniche e l’uso delle mascherine. Poi ha tormentato supermercati nelle vicinanze, piccoli produttori che arrivavano al mercato e non riuscivano a vendere le patate o i cavoli, altre persone di pochi mezzi e tanta buona volontà, finché è riuscito a creare una catena di solidarietà per provvedere ai bisogni dei più poveri. Niente di originale, ma fatto con tanta dedizione e passione, arrivando là dove nessun altro riesce ad arrivare.

3 giugno. Corona e altri virus in Kenya e altrove (22)

Ad oggi ci sono 2,093 casi confermati di Covid.19 e 71 decessi. D’alto lato, secondo quanto afferma l’IPOA (autorità indipendente di controllo della polizia) ci sono stati 32 incidenti e sono state uccise 15 persone dalla polizia in interventi direttamente collegati all’imposizione del coprifuoco. Ottantasette denunce contro la polizia sono state segnalate dalla fine di marzo. L’ultima morte è stata un senzatetto nello slum di Mathare che è stato ucciso lunedì per presunta violazione del coprifuoco. Anche Yassin Hussein Moyo, 13 anni, è stato ucciso dalla polizia mentre era sul balcone di casa dopo l’inizio del coprifuoco. Il direttore della pubblica accusa Noordin Haji ha approvato l’arresto dell’ufficiale che ha ucciso Yassin. Centinaia di manifestanti di Mathare hanno protestato martedì protestando contro questi “incidenti”. Human Rights Watch sostiene che la polizia fa irruzione nelle case e nei negozi e estorce denaro.

Non c’è da meravigliarsi quindi se il caso di George Floyd abbia avuto una risonanza particolare. C’è la dimensione razzismo, che non è estranea a nessuna persona di pelle scura che vive su questo pianeta. C’è anche l’esperienza diretta e quotidiana per tutti in Kenya di una Polizia che con la costituzione del 2010 ha cambiato nome da Police Force a Police Service, ma sempre profondamente corrotta e prone alla violenza rimane. Gli “incidenti” capitano sempre a danno dei poveri.

Il razzismo è l’esperienza fondante l’identità di tutte le persone di pelle nera, in qualunque nazione e continente vivano. Si può dire che è questa esperienza negativa che crea un senso di solidarietà fra le persone di origine africana che va al di là di ogni confine nazionale, è più importante di ogni altra catalogazione. In America un cristiano nero, e un musulmano nero, sono per prima cosa neri.

In tempi lontani, ho speso quasi l’intero anno 1976 in una parrocchia a Watts, allora il getto nero di Los Angeles conosciuto in tutto il mondo per la violenza, soprattutto quella dei poliziotti, e studiavo quella che allora si chiamava Black Theology. Ho conosciuto e intervistato una delle più famose (allora) delle Pantere Nere. Oggi ho ritrovato in internet una citazione di James H. Cone, il fondatore della Black Theology che pure avevo cercato di incontrare personalmente, senza successo. “In the “lynching era,” between 1880 to 1940, white Christians lynched nearly five thousand black men and women in a manner with obvious echoes of the Roman crucifixion of Jesus. Yet these “Christians” did not see the irony or contradiction in their actions.” (James H. Cone, The Cross and the Lynching Tree). Cioè “Nell’era dei linciaggi”, tra il 1880 e il 1940, i cristiani bianchi linciarono quasi cinquemila uomini e donne neri in un modo che evidentemente echeggia la crocifissione di Gesù fatta dai romani. Eppure, questi “cristiani” non hanno visto l’ironia o la contraddizione nelle loro azioni “.

Sembra che le cose non siano cambiate molto da allora. Forse in alcuni paesi sono peggiorate.

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