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December, 2013:

Guerra civile. Prevista.

In Sud Sudan esplode ancora la violenza. Alcuni leader storici passano dalla guerra di liberazione al genocidio.

Natale a Kivuli, Nairobi. Tanti bambini, giovani, un bel gruppo di scout italiani. Ieri sera Messa, canti, un po di torte, abbracci e auguri. Oggi, dopo la Messa del mattino in parrocchia, giochi, danze, musica a tutto volume tutto il giorno, la registrazione con Instagram di un messaggio di auguri a papa Francesco. I più piccoli sono felici, ma per i membri di Koinonia la gioa del Natale è guastata dalle continue terribili notizie dal Sud Sudan, dove tanti di noi hanno lavorato quando il Sudan era ancora un unico paese, sopratutto sui Monti Nuba, nelle scuole che abbiamo gestito per una decina d’anni.

Gli amici nuba che vivono vicino a noi seguono come tutti, ma con più grande apprensione, gli avvenimenti sud-sudanesi. La repressione contro i nuba da parte del governo di Khartoum, ripresa nel giugno 2011, aveva provocato un esodo verso il Sud Sudan. Le notizie di questi giorni ci dicono invece che migliaia di nuba, sopratutto donne e bambini, che si erano rifugiati a Yida, un campo profughi in Sud Sudan che aveva raggiunto gli ottantamila residenti, stanno tornando a casa. Meglio essere bombardati in casa propria piuttosto che essere intrappolati in una guerra civile fatta da altri, dei quali neanche si capiscono bene le ragioni. Farid, Yassir, Juma, Yohannes, ogni poche ore riescono ad avere notizie da parenti e amici che sono rimasti intrappolati a Juba o Bor, o Bentiu, e altri che sono già rientrati, dopo marce estenuanti, sui monti e si sono messi in contatto radio. Altre notizie frammentarie arrivano dai keniani che sono stati evacuati.

La ferocia degli scontri etnici porta alla luce tutta l’arretratezza del Sud Sudan, il peso di una lunghissima stagione di violenze, la sete di potere e l’incapacità dei leader.

Purtroppo bisogna fare i conti anche con i giornalisti che vogliono essere i primi a dare notizie e non le verificano, le esagerano, danno notizie solo da una delle due parti, e cosi facendo alimentano il conflitto, amplificano straordinariamente le tensioni, creano la psicosi. Mi è capitato di sentire un keniano evacuato il quale parlava concitatamente di pulizia etica in atto a Juba con uccisioni casa per casa, di torture e di stupri. Ad una domanda precisa e insistente ha finito con l’ammettere che lui non ha visto niente, che alla notizia degli scontri si è chiuso in casa ed ha saputo tutto dalle emittenti straniere. Come noi a Nairobi.

I fatti verificati, anche da un amico giornalista che ha visitato Juba per poche ore, sono comunque gravissimi e le vittime ormai si contano a migliaia. In un breve collegamento via Facebook con Yida un amico sud-sudanese mi racconta cose tremende accadute fra dinka e nuer, anche se finora i nuba non sono stati coinvolti.

Tutto era scritto a lettere chiare. Antipatico dirlo, ma mi era stato facile prevedere quello che sta succedendo in un blog dello scorso luglio. Sorprende che la comunità internazionale non sia intervenuta per tempo dopo tutte le dichiarazioni di sostegno al “paese piu giovane del mondo”? Niente più ci sorprende. Neanche che adesso la comunità internazionale esprima il solito finto stupore e faccia i soliti inefficaci interventi diplomatici.

La responsabilità è tutta e primariamente dei leader. Inutile cercare colpevoli esterni. Può esser vero che alcune forze estranee cerchino di approfittare della guerra per trarne vantaggi (forniture petrolifere), è certamente vero che il governo del Sudan, a Khartoum, gongola e probabilmente sta alimentando le tensioni. Ma non sono fattori determinanti. Il fattore determinante degli scontri è che i leader sud-sudanesi, che hanno studiato a Mosca e negli Stati uniti, usano la loro preparazione e competenza al servizio esclusivo delle propria sete di potere e trascinano le loro genti in avventure tanto inavvedute quanto criminali. Un peso gravissimo che condizionerà per molti anni ancora la possibile rinascita del Sud Sudan.

Aiuto! E’ tornato il Concilio – Help! The Council is back.

Papa Francesco ha fatto ripartire il Concilio, anche se per molti sarà difficile dimenticare le delusioni dei decenni appena trascorsi.

Evangelii Gaudium, l’esortazione apostolica di papa Francesco pubblicata pochi giorni fa, è la conferma che il Concilio Vaticano II, con le sue grandi aperture e visioni, è tornato al centro della vita della Chiesa. Questo è per me, missionario di periferia, il significato complessivo del documento. Il Vaticano II deve essere vissuto, non studiato, analizzato, e poi rimesso in archivio, come si e spesso fatto nei quasi cinquant’anni che sono trascorsi dalla sua chiusura. Papa Francesco, il primo Papa che non è stato presente al Concilio, come invece lo sono stati in vesti diverse i suoi immediati predecessori, ne è un autentico figlio.

Papa Francesco ha rimesso in movimento il Concilio. Non lo nomina in continuazione, ma non ce n’è bisogno, perché ogni sua frase ne è ricca di rimandi. Cosi come non fa continuamente citazioni evangeliche e bibliche, ma le sue azioni più che le sue parole evocano continuamente il Vangelo.

Probabilmente molti fedeli e molti preti della mia età, quelli che da giovani adulti e giovani preti hanno vissuto gli anni straordinari del dopo-Concilio, ancora stentano a crederlo. Molti non si sentono preparati a ripartire. Bisogna dirlo, troppe sono state le delusioni.

Mentre gli apologeti di professione, i missionari da scrivania, i teologi da salotto, i testimoni di se stessi, si affannano a spiegarci le parole e i gesti del Papa (il quale non ha proprio bisogno di interpreti), quelli che si sono tenuti in disparte, i laici e i preti che negli ultimi decenni si sono impegnati a portare avanti le linee conciliari quasi nascostamente, stanno col fiato sospeso ad ascoltare Papa Francesco che parla di uscire, di rischiare, di non temere i richiami del Sant’Uffizio, ed hanno nel cuore un misto di entusiasmo e di cinismo. Finalmente sentiamo un Papa parlare cosi! È il Papa che sognavamo da anni. Ma durerà? E, sopratutto, avremo ancora le forze per rimetterci in strada?

Per me le ultime speranze di poter vedere nel tempo delle mia vita un vero profondo cambiamento nella vita della Chiesa si erano quasi spente dopo il primo Sinodo Africano nel 1994. I migliori teologi africani esclusi e poi gradualmente rimossi dell’insegnamento nei seminari e nelle facoltà teologiche. Ogni tentativo serio di inculturazione definitivamente archiviato, sia pur dopo aver accettato al Sinodo che l’inculturazione è una priorità. Un susseguirsi di nomine vescovili per personaggi scelti per un’ortodossia assoluta e la prudenza, anzi l’immobilismo, paralizzante.

Chiesi un’opinione sul Sinodo Africano al cardinal Martini, mi disse laconico: “Ormai i Sinodi sono diventati un modo per livellare tutti i vescovi sul minimo comun denominatore. Alcuni missionari che erano stati attivi in Africa nella promozione del laicato, nel far crescere nella chiesa uno spirito di co-responsabilità e collegialità, scomparvero dalla scena, e uno di loro mi confidò con amarezza: Non c’è spazio. Si può fare qualcosa di innovativo senza incorrere in sanzioni ormai solo nell’ambito dell’impegno sociale, ma a condizione che sia mascherato da attività caritativa tradizionale”. Per anni abbiamo visto preti impegnati in nuovi ambiti pastorali bollati come teste calde ed emarginati. La creatività pastorale metodicamente punita e il supino adeguamento alle norme metodicamente premiato.

Nei miei ricordi un sorriso pieno di speranza, quello di Bernhard Haring, il grandissimo teologo moralista che aveva riformato la teologia morale nella seconda metà dello scorso secolo, il cui insegnamento spesso oggi riecheggia nelle parole di papa Francesco, e che fu emarginato e alla cui morte il quotidiano vaticano non aveva giudicato valesse la pena di dedicare una riga. A un amico che nel 1994 gli chiedeva come vedesse il futuro della Chiesa, rispondeva con la sorridente fermezza che gli era consueta “Non preoccupatevi. Tutto il ciarpame che maschera il volto luminoso della chiesa di Cristo crollerà presto come un castello di carte”.

Ecco, adesso è arrivato un Papa che chiede che si preghi per lui, che non si sente giudice ma pastore e fratello, che vuole una Chiesa meno preoccupata della conformità alla dottrina e più capace di attenzione ai poveri, di coraggio per uscire da se stessa, di capacità di riformarsi per adeguarsi – anche il papato – sempre di più al ruolo di servizio che le è proprio. Che vuole rimettere Cristo al centro.

Ma saremo noi anziani preti ancora capaci di credere “nella rivoluzionaria natura dell’amore e della tenerezza”? Saremo capaci di ripartire? Saremo capaci di seguire questo anziano e giovanissimo Papa?

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