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August, 2010:

Ascolto e Rispetto, per un Incontro Vero

Fabrizio mi ha mandato un’approfondimento delle sue riflessioni sul senso di visitare gli slums, e gli ho chiesto il permesso di riproporlo nel blog. Come suo solito dice cose molto vere, da angoli diversi. Il suo invito finale di continuare un dialogo su questo tema fra le persone che Amani – ed io aggiungo anche Koinonia – hanno portato a visitare Kibera e altri slums in questi ultimi anni mi sembra molto opportuno. Abbiamo messo semi per un vero incontro fra persone e culture?

Caro Kizito,
sono diversi gli interrogativi che mi pongo in seguito alla lettura dell’articolo di Kennedy, le riflessioni sono molte e portano a risposte contraddittorie. In primis ricordo le tue parole che ricorrevano e i tuoi racconti ai gruppi di visitatori che passavano da Kivuli:”ascolta, ascolta, non giudicare…”. Il racconto divenuto per me un classico dell’italiano che appena uscito dall’aeroporto aveva già due o tre cose da suggerire per arrivare dopo mezz’ora a Kivuli con un piano di azioni da fare e che non si capiva come fin’ora nessuno ci avesse pensato. Inevitabile associare questo tuo discorso alla parola che più ricorre nei testi biblici shema, ascolta.
Quindi la domanda e’ le esperienze in Africa cosa lasciano? Da un lato capita, come mi era successo nel 1996, che si vivono situazioni così sconvolgenti che intimamente ci si pone al di sopra degli altri si pensa di essere migliori perché ciò che si e’ vissuto è stato più importante di quello che vivono gli altri. Come se l’essere stato in una baraccopoli sia, in una improbabile classifica, più stimabile dell’accudire i figli, del sostenere una famiglia, del fare con attenzione il proprio lavoro… insomma si giudicano gli altri in modo superficiale.
In fondo un po’ lo fa anche Kennedy perché anche pochi minuti o lo scatto di una fotografia che richiama il ricordo di una visita potrebbe successivamente stimolare grandi cambiamenti viceversa un viaggio più approfondito potrebbe far sentire la persona al pieno senza più bisogno di interrogarsi perché ormai sa già tutto.
Quanto a Kennedy che cosa è che gli da fastidio? Il fatto che non si lasci l’obolo? Da fastidio il sentirsi osservati, fotografati? Ricordo che al gruppo del Mukuru dava fastidio il primo aspetto, passava gente, gruppi, funzionari, vedevano, visitavano, fotografano e a loro di tutto questo via, vai non restava niente. Per il secondo aspetto anche a me non fa piacere essere fotografato se mi sento identificato negativamente, ma alla fine penso che la gente a Kibera abbia già così tanti problemi che non faccia molto caso.
C’è poi il rischio di un consumismo dell’esperienza, della visita fugace ed e’ vero che chi passa in questi luoghi per poche ore scrive un articolo, chi ci sta una settimana ne tira fuori un libro e chi ci sta vent’anni produce a stento qualche riga. Tuttavia, non e’ forse neanche solo un fattore di tempo, ma dipende dal desiderio e dall’attenzione, dal lasciarsi interrogare, dal non avere gia’ la risposta, dal saper scendere dall’ardita struttura delle proprie idee, teorie, abitudini, farsi vicino sia in senso fisico, ma anche direi culturale.
Ricordo che un giornalista di primo piano durante un incontro in una baraccopoli ai tempi del social forum disse alla gente che lui, a differenza dei suoi connazionali, aveva avuto la possibilita’ di vergognarsi. Quindi pochi minuti per una riflessione importante.
Le contraddizioni sono molte. Un amico, ad esempio, mi racconta che molte persone che visitano gli slum di Nairobi non conoscono le periferie delle proprie citta’ questa e’ certo una contraddizione pero’ a volte, come spiega Levi-Strauss, e’ necessario guardare lontano per vedere vicino.
Ricordo, infine, le riflessioni di Gino Filippini ai giovani di passaggio nel periodo estivo: «non preoccuparti di cosa potresti fare..aspetta, ascolta, siediti, guarda, interroga, renditi conto, fatti delle domande… se tu fai questo per un mese, andrai a casa e ne sarai molto arricchito. Il “che fare” verrà la prossima volta. Questa esperienza sarà come un germe dentro di te e se tu lo coltivi produrrà qualche cosa, ma non avere la preoccupazione all’inizio di dire “cosa vengo a fare?”. E così per molte altre persone che vengono “…ah mi piacerebbe venire a fare qualcosa, come posso essere utile?” La prima cosa, se vuoi stare qui per lavorare, è che tu ascolti poi vediamo cosa si può fare, se è il terreno giusto per te oppure no».
Non so, mi pare che varrebbe la pena, cogliere l’occasione di questo articolo per fare una riflessione sui campi che noi come Amani proponiamo, interpellare i campisti che hanno vissuto queste esperienze e vedere a distanza di anni cosa e’ rimasto, cosa ha portato.
Un caro saluto
Fabrizio

Mthunzi Festival

Ieri il Mthunzi Cultural Festival é stato un grande successo, con 22 gruppi partecipanti. In tutte le categorie ha stravinto il gruppo della parrocchia di Lilanda, accompagnati dal comboniano padre Carlos. Però non mi è venuta bene neanche una foto del loro gruppo, quindi metto una foto di Yama, del Mthunzi Cultural Group, che comunque è stato il danzatore più applaudito.

Prove di Danza – Drummers and Dancers at Work

Sono a Mthunzi (Lusaka) e domani ci sarà un grande festival di cultura tradizionale con gruppi giovanili da tutta la città. Oggi pomeriggio era tempo di prove.

Il Turismo della Povertà

Fabrizio Floris, amico di vecchia data (anche se lui è giovane) che ha scritto libri e articoli sugli slum di Nairobi e dell’Italia (vedi i sui recenti dossier e articoli su Nigrizia e su Nuovo Progetto), in una lettera a Repubblica, ha cosi reagito all’articolo di Kennedy Odede che ho riprodotto nel blog precedente.
Fabrizio, come in modo diverso Ivan e Beppe nei commenti al blog, focalizza ciò che può cambiare una visita a Kibera da un furto di immagini e dignità a un momento di crescita reciproca. Certamente l’incontro che Fabrizio auspica è difficile che si realizzi un una visita turistica di tre ore, con guida a pagamento, come quelle che si possono organizzare anche attraverso alcuni siti in internet. Normalmente ci vuole un po più di tempo, capacità e voglia di entrare in comunione con gli altri, e sopratutto ci vuole una persona che ti aiuti a vedere al di là della materialità del luogo per capirne lo spirito. sattamente come in un tempio, usando l’appropriato paragone di Fabrizio.

GLI ITALIANI ALL’ESTERO E IL TURISMO DELLA POVERTÀ
da Repubblica — 19 agosto 2010, pagina 24, sezione: COMMENTI

Ho letto con interesse l’articolo di Kennedy Odede sul turismo della povertà e condivido molte delle sue considerazioni. D’altra parte ogni viaggio privo dell’incontro con l’altro è in qualche modo una forma di spettacolarizzazione, sia essa della natura o delle persone. Sono viaggi da cui ti porti dietro solo immagini che presto svaniscono come i serial di un format televisivo. Vedi scorrere volti, monumenti, paesaggi ma appena rientri tutto è finito. Possono restare dei trofei da esibire, fotografie spettacolari che nulla dicono dei luoghi, ma celebrano da eroe chi c’è stato. Più l’immagine sarà spaventosa, più l’autocelebrazione raggiungerà il suo scopo. Fotografa le fogne, i bambini che sniffano colla o che mangiano nella discarica solo così farai scalpore. Da tutto ciò non sono esenti neanche i racconti dei media. Ricordo che anni fa venne a Korogocho, slam alla periferia di Nairobi, un gruppo di visitatori e appena entrati nella baracca dopo il karibuni (benvenuti) di rito padre Paolo pose loro una domanda diretta: «Che cosa siete venuti a vedere? La puzza, le fogne a cielo aperto, i fumi della discarica, lo schifo?». Aggiungendo: «Se siete venuti a vedere questo allora siete scemi!». Poi fece un parallelo con chi andava a trovare Giovanni Battista nel deserto e nei giorni successivi scaturì la risposta: «Siamo venuti a vedere la fiducia nella vita di questa gente che riesce a mettere insieme il pranzo con la cena pur guadagnando pochi centesimi al giorno, siamo venuti a vedere il coraggio delle donne che riescono a vestire, nutrire e mandare a scuola i figli pur nelle difficili condizioni di Korogocho, siamo venuti a vedere l’entusiasmo dei giovani che non rinunciano ai propri diritti e alla propria consapevolezza e lottano ogni giorno, siamo venuti ad ascoltare la saggezza degli anziani, la luce negli occhi dei bambini che gridano juu, juu kabissa (su, su completamente)». Una lezione di vita per chi proviene da un paese rassegnato come l’Italia. Gli slums, sono come un tempio, un monumento storico, una città antica. Li puoi comprendere solo se qualcuno è in grado di raccontarteli, se sei accompagnato a vedere oltre ciò che appare, oltre l’estetica del luogo. Un turismo furtivo no, ma un incontro per costruire una società migliore sì. – Fabrizio Floris Torino

Turisti negli Slum – Slum Turism

Il quotidiano La Repubblica di giovedì 12 agosto ha pubblicato un articolo di Kennedy Odede, riprendendolo dal New York Times. Lo riproduco qui sotto con i dovuti crediti. L’originale in inglese si trova su http://www.nytimes.com/2010/08/10/opinion/10odede.html?_r=1

Ho conosciuto Kennedy circa tre anni fa, poco prima che gli venisse offerta una borsa di studio per studiare in America, dove ora si trova. E’ un ragazzo brillante, con una grande passione per la giustizia e per gli abitanti di Kibera, dove è nato. Il problema di cui parla è venuto alla ribalta negli ultimi anni, e mi ricordo che lo scorso anno fui intervistato da una stazione radio americana sullo stesso tema, nel contesto di un ampio dibattito. Più recentemente alcuni amici mi hanno provocato con domande su questo argomento. Dopo aver letto quanto scrive Kennedy è difficile aggiungere qualcosa, ma mi piacerebbe sentire il vostro parere, soprattutto di quelli che magari hanno visitato Kibera accompagnati da Bonny, o da Jack, e dai ragazzi di Mdugu Mdogo.

IL TURISMO DELLA POVERTÀ FA MALE ALLA MIA AFRICA
di Kennedy Odede

Il turismo negli slum risale a molto tempo fa: alla fine dell’Ottocento la fila dei newyorchesi benestanti, interessati a vedere “come viveva l’altra metà”, si snodava lungo Bowery Street e in tutto il Lower East Side. Tuttavia l’occasione e la pretesa di osservare la povertà in diretta, con i propri occhi, non sono mai state maggiori rispetto ad adesso.
Nel mondo in via di sviluppo le popolazioni delle grandi città aumentano costantemente a ritmo vorticoso. I luoghi che vanno alla grande sono Rio de Janeiro, Mumbai -grazie al film Slumdog Millionaire, film del 2008 che ha dato il via a migliaia di visite guidate – e Kibera, il ghetto di Nairobi nel quale sono nato, forse il più grande di tutta l’Africa.
Il turismo nei bassifondi ha i suoi sostenitori, secondo i quali esso promuove la consapevolezza sociale, portandovi soldi che contribuiscono all’ economia locale. Secondo me non ne vale la pena: il turismo nei bassifondi trasforma la povertà in intrattenimento, in qualcosa che si può sperimentare provvisoriamente per poi fuggirne. La gente crede di aver “visto” davvero qualcosa, ma poi ritorna alla propria vita, lasciando me, la mia famiglia e la mia comunità esattamente dove e come eravamo.
Avevo sedici anni quando ho visto per la prima volta uno “slum tour”: mi trovavo all’esterno della mia casa di 9,5 metri quadri a lavare i piatti, e fissavo ogni singolo utensile con vivo desiderio, perché erano due giorni che non toccavo cibo. All’improvviso una signora bianca mi ha scattato una fotografia. Mi sono sentito come una tigre in gabbia. Prima che potessi dire qualcosa, se ne era già andata.
A diciotto anni ho fondato un’organizzazione che fornisce ai residenti di Kibera servizi scolastici, sanitari ed economici. Una regista greca di documentari mi ha voluto intervistare sul mio lavoro. Mentre passeggiavamo per le strade dello slum, siamo passati accanto a un vecchio che stava defecando in pubblico. La donna ha estratto la video camera e ha detto al suo operatore: «Oh,guarda quello».Per una frazione di secondo ho visto la mia casa con i suoi occhi: feci, topi, denutrizione, baracche così vicine le une alle altre che pareva impossibile respirare. Mi sono reso conto che non desideravo che lei vedesse niente del genere. Non volevo darle l’occasione di giudicare la mia comunità dalla sua povertà, condizione che pochi turisti – a prescindere dalle loro buone intenzioni – sono in grado di capire davvero.
Altri abitanti di Kibera la pensano diversamente. Un mio ex compagno di studi ha avviato un’attività turistica. Una volta l’ho visto accompagnare un gruppetto di turisti nella casa di una giovane donna che stava partorendo. Se ne stavano sulla soglia, e la osservavano mentre lei urlava. Dopo poco il gruppo è ripartito, con le macchine fotografiche piene di immagini di una donna sofferente. Che cosa possono aver appreso da una simile esperienza? E quella donna, avrà guadagnato qualcosa dalla loro visita?
Molti stranieri visitano gli slum nel tentativo di capire che cosa sia la povertà, e ripartono con quella che credono essere un’idea migliore delle nostre miserabili condizioni. La speranza di visitatori e organizzatori di giri turistici nei bassifondi è che un’ esperienza simile spinga i turisti, una volta tornati a casa, a passare all’azione, a prendere iniziative in merito.
Purtroppo è altrettanto plausibile che un giro turistico nei bassifondi non porti proprio a nulla. Dopo tutto, osservare le condizioni di vita di coloro che vivono a Kibera è scioccante, e immagino che molti visitatori pensino che possa già essere sufficiente rendere testimonianza di una simile miseria.
I visitatori, del resto, non interagiscono veramente con noi. A parte qualche occasionale commento, non vi è alcun dialogo, non c’è conversazione. Il turismo nei bassifondi è una strada a senso unico: loro scattano fotografie, noi perdiamo un pezzo della nostra dignità. I ghetti non spariranno soltanto perché alcune decine di americani o di europei trascorrono una mattina a girovagarvi a piedi. Le soluzioni per i nostri problemi esistono, ma non arriveranno sotto forma di visite guidate.

L’autore è direttore esecutivo dell’organizzazione Shining p Hope far Communities, che offre servizi sociali, è uno studente del terzo anno alla Wesleyan University di Middletown nel Connecticut

2010 The New York Times
Distrbuted by The New York Times Syndacate
Traduzione di Anna Bissanti

Traffico di Persone Umane – Human Traficking

Il quotidiano di Nairobi, Daily Nation, ha pubblicato oggi due paginone centrali sul problema del traffico e sfruttamento delle persone. L’articolo principale prende lo spunto e cita ampiamente un studio fatto dai nostri di KARDS (Koinonia Advisory and Research Services).

KARDS, iniziato e sempre guidato da Richard Muko, opera da da qualche anno nel campo della ricerca sull’emarginazione e sfruttamento dei poveri. Sempre con encomiabile ma poco riconosciuto impegno, e grande qualità.

Potete trovare una versione abbreviata dell’articolo sul sito del Nation, a http://www.nation.co.ke/magazines/Sold%20into%20slavery%20/-/1190/973528/-/item/0/-/835i7z/-/index.html

Daniel non Ha Votato, ma Ha Vinto – Daniel Did Not Vote, but He Won

Il giorno del referendum Daniel non è andato a votare. La domenica successiva è venuto a Kivuli, dove è cresciuto dai 10 ai 18 anni insieme ad un fratello di due anni minore, che sprizzava felicità. Come mai? Daniel e il fratello vivevano a Kawangware, poco lontano da Kivuli e dopo aver terminato la scuola, due anni fa, li abbiamo aiutati a rimettersi insieme alla mamma, ed hanno aperto un chiosco/macelleria, di quel tipo che esiste sono in Africa, difficili da descriversi se non li si vede. Sono comunque capaci di sostenersi e di mantenere la mamma. L’anno scorso poi hanno scoperto anche il papà, che non avevano mai conosciuto perchè la mamma aveva sempre sostenuto che era morto tanto tempo fa, quando loro due erano ancora piccolissimi. Superando le reticenze della mamma sono riususciti a trovare quest’uomo a Limuru, un paesone appena fuori Nairobi. Vive in un tugurio di fango e paglia, ma é proprietario di un terreno di quasi due acri, un patrimonio non da poco. Inoltre è’ un terreno fertilisimo, che potrebbe produrre ortaggi da mantenere bene tutta la famiglia, lavorandolo e vendendo al mercatino di Kawangware, se non fosse che il papà era perennemente ubriaco. Domenica scorsa Daniel era felice perché adagio adagio ha convinto il papà a bere in misura più moderata, e la mamma ha accettato di rimettersi insieme a lui. Cosi, approfittando il giorno del referendum , col costo dei trasporti pubblici più basso perché nessuno si muoveva, c’è stata la grande riunione di famiglia e Daniel mi ha descritto un pasto delizioso, con un pollo alla brace cucinato appena fuori dal tugurio in cui vive il papà. I due fratelli hanno promesso ai gentori di andar da loro ogni sabato per aiutali a lavorare la terra. Per Daniel è stata una vittoria personale ed ha promesso ai genitori che col profitto della macelleria nei prossimi mesi costruirà loro una struttura in legno col tetto di lamiera ondulata. Una vittoria per Daniel, ma anche per tutti i ragazzi di Kivuli che a poco a poco sono venuti a far capannello intorno a noi, e lo hanno ascoltato a bocca aperta.

Referendum 3

Circa il 70 percento dei keniani ha votato per il Si. Il 30 percento contrario è concentrato nella Rift Valley, dove il voto ha seguito le direttive dell’ex presidente-dittatore Daniel arap Moi e di William Ruto, candidato imputato della Corte Criminale internazionale. Solo il 60 percento degli elettori registrati ha votato. Evidentemente ciò non inficia la validità dl risultato, ma è un brutto segno di disaffezione e scetticismo. Forse anche la paura ha giocato un ruolo.

Ieri Nairobi era in festa, con la gente che subito dopo l’annuncio dei risultati improvvisava canti e danze nelle strade, soprattutto dopo che i sostenitori del No hanno ammesso la sconfitta e invitato tutti alla pace. allontanando lo spettro della violenza.

Adesso c’è il duro lavoro di far funzionare questa costituzione. La precedente, elaborata al momento dell’indipendenza, non è che fosse poi cosi cattiva, piuttosto è che è stata manipolata da persone assetate di ricchezza e potere. Se il Kenya avesse avuto a capo un personaggio illuminato come Nyerere, per fare solo un esempio, invece che Kenyatta e successivamente Moi, nessuno avrebbe sentito il bisogno di cambiarla. Adesso, e qui sta il problema, bisogna renderla operativa. Se è vero che, per esempio, che questa nuova costituzione facilita la promulgazione di leggi che limitino il latifondo, queste leggi bisogna ancora farle. E purtroppo latifondisti e ladri di terreni pubblici sono un buon numero alla corte di Moi, ma anche della corte di Kibaki. Vorranno veramente una legge che permetta allo stato di riappropriarsi dei terreni demaniali che sono stati assegnati a individui vicini al potere negli ultimi venti o trent’anni? Vorranno veramente una legge che limiti l’estensione delle proprietà terriere?

Un aspetto molto positivo del voto è che dovrebbe comunque segnare l’uscita definitiva di Moi dalla vita politica di questo paese. Non significa che sarà perseguito per i crimini commessi mentre al potere, sia per le mantenere le promesse fategli prima delle elezioni del 2002, sia per non riaprire questioni scabrose in cui in cui gli attuali personaggi al potere hanno giocato parti non proprio edificanti.

Ma sono i giorni della speranza. Guardiamo al futuro e ai miglioramenti nel governo e per il rispetto dei diritti umani che questa costituzione potrebbe favorire.

Il cartello che il giorno del referendum era all'ingresso di Kivuli

Referendum 2

I cittadini keniani stanno votando Si o No per la nuova Costituzione. Le operazioni di voto sono iniziate alle 6, e secondo tutte le fonti alle 9 stanno procedendo regolarmente e pacificamente in tutto il paese. I seggi chiuderanno stassera e si ci si aspetta di conoscere i risultati dopo 24 ore.
Stamattina alla sei c’era già una lunga fila di gente fuori dal cancello di Kivuli, per venire a votare nel seggio che la commissione elettorale ci ha chiesto di ospitare nel nosto salone. Appena c’è stata luce sufficiente ho scattato questa foto dalla mia finestra.

Referendum

Mercoledì 4 agosto i keniani potranno votare in un referendum pro o contro una nuova costituzione. Il processo per la revisione della costituzione è iniziato quasi vent’anni fa, ed è importante che si arrivi ad una migliore distribuzione dei poteri, che nelle presente costituzione sono concentrati nel Presidente.
Già nel 2005 c’è stato un referendum e la costituzione proposta non era molto diversa da quella proposta adesso. Ma allora Mwai Kibaki, il Presidente, e Raila Odinga, attuale Primo Ministro, erano ai ferri corti perché Odinga voleva far pagare a Kibaki il non aver mantenuto la promessa di creare il posto di Primo Ministro, pensato solo per lui, dopo le elezioni del 2002. La proposta del 2005 fu bocciata, e i due andarono alle elezioni del 2008 l’un contro l’altro armati, letteralmente, causando la disastrosa violenza post-elettorale, con oltre mille morti documentati. Poi venne elaborata una proposta che prevedeva la presenza di un primo ministro, ed era estremamente farraginosa nel tentare di attribuire le competenze ad un esecutivo diviso in due. Tale era la proposta fino a pochi mesi fa. Poi i due hanno capito che conveniva ad entrambi accordarsi. A Kibaki per lasciare comunque un’eredità storica positiva, visto che non potrà essere rieletto per la terza volta, e a Odinga perché finalmente il sogno della sua vita di diventare Presidente del Kenya sembra a portata di mano, e quindi non gli interessa più una costituzione che preveda la figura del Primo Ministro.
Una serie di consultazione frenetiche, più o meno manovrate anche dalla “comunità internazionale”, hanno quindi portato a che i due protagonisti di questa vicenda si accordassero per interposti partiti, a cambiamenti sostanziali, come appunto la cancellazione del posto di Primo Ministro, a quella che ci era stato fatto credere fosse una costituzione frutto di una consultazione popolare.
Fra gli elementi nuovi che sono entrati c’è una cauta apertura all’aborto e l’accettazione dei tribunali islamici (Kadhi) da estendere a tutto il territorio del Kenya. Le corti Kadhi nella costituzione vigente erano ammesse solo sulla costa, per una striscia di 30 chilometri, ed erano state pensate al momento dell’indipendenza, come un compromesso, che sarebbe sparito nel tempo, per convincere le popolazione islamiche della costa di far parte del nascente paese.
Per aggravare la cosa, all’ultimo momento, nella notte prima che la nuova versione ufficiale della nuova costituzione venisse stampata, qualcuno ha inserito due paroline nel capitolo sui diritti umani che di fatto li limitano se ci fosse in gico la sicurezza nazionale. Investigazioni sono in corso, ma ancora nessun responsabile è stato trovato. Così questa bozza costituzionale che è stata ritoccata da un ignoto tipografo è quella che sarà sottoposta a referendum.
I leaders cristiani del Kenya l’altro ieri hanno firmato una dichiarazione (la metto integralmente nella versione inglese di questo stesso post) sottolineando che per molti aspetti la nuova proposta è migliore rispetto alla costituzione vigente, ma chiedendo ai cittadini di votare contro perché la nuova proposta non salvaguardia la sacralità della vita umana, l’educazione morale dai giovani e il principio dell’uguaglianza religiosa. Contemporaneamente invitano alla pace e comunque ad accettare il risultato.
Che la posizione dei leader religiosi cristiani, vescovi cattolici inclusi, sia discutibile è fuori di dubbio, ma è pure fuori di dubbio che sarebbe bastato un po di buona volontà da parte di tutti per arrivare ad una proposta costituzionale che avrebbe messo d’accordo almeno il 90 per cento dei keniani. Invece adesso si va al voto col rischio che la nuova costituzione passi, e che passerà mi sembra certo, con un margine di voti poco convincente, intorno al 60 per cento. Che per una nuova carta per cui ci si è battuti per vent’anni non è una gran bella cosa.
Un altro elemento causa di grande tensione è la pessima compagnia in cui si ritrovano i leader religiosi: l’ex-Presidente Daniel Arap Moi e William Ruto. Per ragioni diverse da quelle dei leader cristiani, sostanzialmente per evitare che i latifondi di cui si sono impadroniti in passato vengano rimessi in discussione, entrambi sono contrari alla nuova proposta, ma non hanno proprio nessuna credibilità e autorità morale. Si fanno forti solo del supporto della loro etnia. Il primo ha gestito il paese come un dittatore per 24 anni, arraffando tutto ciò che c’era a disposizione, incluso una bella parte dei migliore terreni del Kenya. Inoltre alimentando la corruzione è arrivato a controllare un buon quarto dell’economia del paese. Il secondo è notoriamente fra i principali indiziati come responsabile delle violenze post-elettorali del 2008.
La tensione fra i Verdi (il colore assegnato dalla commissione elettorale al Si) e i Rossi (il colore del No) è grande. Ci sono stati già alcuni morti fra le vittime di due bombe rudimentali esplose durante una manifestazione per il No, e un vescovo di un piccola chiesa protestante è stato ucciso sembra in connessione con una sua focosa omelia per il No.
Un buon segno per Nairobi è che Kibera, negli ultimi decenni il focolaio di ogni violenza esplosa in città, è tranquilla. Tutti sembrano d’accordo per votare Si. La maggioranza perché Luo sostenitori di Raila, più i Kikuyu sostenitori di Kibaki e i musulmani, i cosiddetti Nuba che hanno fatto delle corti Kadhi una questione di principio. Quindi non ci dovrebbero essere ragioni di conflitto.
Kivuli, a Riruta Satellite, sarà sede elettorale. Anche qui non ci aspettiamo problemi, come non ne abbiamo avuti nel 2008, anche se è vero che sia a Kibera come a Riruta o qualsiasi altro quartiere di Nairobi basta che qualcuno paghi 3 euro al giorno ad un centinaio di giovani disperati per innescare il caos.
La possibilità di violenza per una vittoria del Si invece è molto concreta nella Rift Valley, che è il feudo di Moi e di Ruto.
Chiunque vinca, è inutile illuderci, siamo in un tempo di crisi. La crisi economica internazionale, i cambiamenti sociali; il venir meno della tradizione; le pesanti interferenze degli americani, i quali se sono riusciti a dimostrare qualcosa negli ultimi venti anni è che dell’Africa non capiscono niente, causando, dove sono intervenuti come in Somalia e Congo, solo disastri peggiori di quelli che erano in corso. I keniani sono stanchi e sfiduciati, hanno ascoltato troppe grandi promesse non mantenute, si sentono incapaci di cambiare il loro paese, vittime piuttosto che cittadini partecipi. Sentono dire che sono solo il primo esperimento di un programma americano che intende imporre a tutti i paesi “amici” una costituzione sul modello keniano.
In questa situazione c’è il pericolo di seguire sogni e illusioni senza nessuna consistenza, solo perché un leader che sa parlare bene li fa balenare davanti. Gli uomini politici keniani hanno un’abilità straordinaria, mi vien quasi da dire diabolica, a sfruttare le fragilità della loro gente. I piazzisti di sogni vedono un futuro radioso, sopratutto per se stessi.
Noi cristiani abbiamo fatto dire a Dio tante cose diverse, e anche noi abbiamo seminato illusioni, quindi dobbiamo essere umili e stare coi piedi in terra, favorendo i migliorami possibili, invece di sognare la perfezione.
Io continuo a credere che la desacralizzazione di tutti i poteri, anche quello della chiesa, che ci ha insegnato Gesù e la forza del suo Spirito, ci hanno avviato su una strada di umanizzazione che non possiamo più abbandonare, anche se le tentazioni sono tante. Ci muoviamo verso una creazione nuova, verso una rivoluzione interiore che deve concretizzarsi in lavoro quotidiano per la giustizia a le pace, vita offerta, sangue, storia. Se leggo le dichiarazioni dei politici e dei leader religiosi magari mi cascano le braccia, ma se guardo i ragazzi e le ragazze di Kivuli, Anita’s Home, Tone la Maji, e tutti gli altri allora credo che anche in Kenya sia possibile andare avanti anche dopo il 4 agosto.

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