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July, 2013:

Una Poltrona per Due

C’è una battaglia in corso. Per il potere. Tra il presidente Salva Kiir e il vicepresidente Riek Machar. Con risvolti geopolitici ed etnici. E un movimento di liberazione, l’Spla/m, che fatica a trasformarsi in un partito e aprirsi al gioco democratico.

È una lotta per il potere personale, in un contesto complicato, con esiti imprevedibili, in cui giocano diversi fattori e potrebbe dar origine ad un lungo periodo di violenza. I protagonisti sono presidente Salva Kiir e il vicepresidente Riek Machar. È prematuro parlare del Sud Sudan come di uno “stato fallito” – ma già alcuni lo fanno. Comunque è reale il rischio che stia incominciando un altro lungo capitolo buio nella storia del paese.

Vediamo le principali concause di questa situazione. L’indipendenza (9 luglio 2011) non ha risolto il contenzioso con il Sudan. Sopratutto non è stata risolta la questione del confine (incluso Abyei), che resta indefinito, e di conseguenza resta aperta la questione della proprietà di alcuni importanti campi petroliferi e del flusso del petrolio, che costituisce la ricchezza su cui i due paesi vivono, e che attrae l’interesse della comunità internazionale.

I rapporti con i paesi confinanti restano problematici. Centrafrica e Rd Congo hanno problemi interni gravi e restano instabili, difficile prevedere quale posizione potranno prendere, se pure ne prenderanno una. Uganda e Kenya, su indicazione degli Usa, finora sono stati forti sostenitori di chiunque fosse al potere nello Spla/m (Esercito/Movimento popolare di liberazione del Sudan), ed entrambi hanno ormai forti legami economici con Juba (capitale del Sud Sudan), anche attraverso notevoli investimenti privati da parte di personaggi politici. A questo riguardo sono indicativi lo sconcerto (prima) e il panico (poi) del ministero esteri kenyano di fronte all’azzeramento del governo sudsudanese, voluto il 23 luglio dal presidente Kiir. L’Etiopia ha sempre cercato di mantenersi o di apparire distaccata nelle vicende interne del Sudan.

Sul piano internazionale più vasto, continua il sostegno Usa e del mondo occidentale allo Spla/m, ma certamente non è un sostegno che proseguirebbe senza condizioni se qualcuno dovesse diventare responsabile dello scatenarsi di una guerra interna.
Internamente il Sud Sudan è segnato da gravi divisioni etniche. Lo Spla/m sin da prima dell’indipendenza, sotto la guida di John Garang, è sempre stato saldamente controllato dai dinka, che d’altronde è l’etnia maggioritaria. Non pochi membri di altre etnie vedono gli amministratori e i militari dinka come una forza di occupazione. Riek Machar è nuer e Pagan Amun, l’altro grande silurato, non come membro del governo ma come segretario generale dello Spla/m, è shilluk. Marian Marial Benjamin, il primo e finora unico membro del nuovo gabinetto ad essere stato nominato come nuovo ministro degli esteri, è anche lui dinka. Le prossime nomine ci diranno come Kiir intende muoversi e se la presenza dinka negli organi governativi, già forte, sarà rafforzata.

La violenza e la dominazione sono purtroppo parte della cultura sudsudanese, forgiata anche da 22 anni di guerra civile. Il prendere le armi è spesso la risposta più istintiva alle discriminazioni vere o immaginarie. Se Kiir non riuscisse a controllare politicamente lo scontento, è ipotizzabile un Sud Sudan diviso in aree controllate da gruppi armati.

La transizione dello Spla/m da movimento di liberazione a partito politico non è ancora avvenuta. Simili situazioni di transizione ci hanno insegnato che è molto difficile per chi ha partecipato alla lotta di liberazione riconoscere che altri attori politici, che magari sono stati all’estero o hanno remato contro, possano godere delle stesse libertà democratiche. Di qui la tentazione della repressione e del controllo. Inoltre un movimento di liberazione ha un alto accentramento di poteri, non più accettabile in un governo democratico. Non per niente, facendo riferimento a Sudafrica, Angola e Zimbabwe, alcuni parlano della necessità di una seconda liberazione dopo la prima liberazione dai poteri coloniali e razzisti. Il Sud Sudan ha tutte le caratteristiche per poter finire come il caso più estremo, quello dello Zimbabwe, dove dopo oltre trent’anni dall’indipendenza, il “liberatore” è ancora saldamente al potere.

Infine non possiamo trascurare la storia delle due personalità principali coinvolte in questo confronto. Il presidente Salva Kiir è stato addestrato alle sottigliezze dei servizi segreti a Mosca, prima del crollo del blocco sovietico, ha poi vissuto per anni nell’ombra di Garang, eseguendone gli ordini e imparando i più duri giochi di potere, che non si fermano dinnanzi alla vita di persone e comunità. Abituato alla segretezza, a non mostrare le sue carte, Kiir ha preso il potere alla morte di Garang (incidente di elicottero. 30 luglio 2005). Non senza dar adito a sospetti, ma comunque con il sostegno immediato degli alleati tradizionali, che non volevano un vuoto di potere destabilizzante.

Riek Machar ha tentato diverse volte la scalata al potere, sin dal 1991 quando si è proposto di rovesciare Garang con motivazioni quasi identiche a quelle che proclama oggi. Ha sempre fallito, e dal ’91 la sua corsa al potere lo ha portato anche ad allearsi per molti anni a Khartoum, macchia che ancora oggi lo segna pesantemente. Nella sua carriera non mancano episodi di massacri di popolazione civile.

Se è difficile prevedere chi dei due emergerà vincitore o e si affacceranno alla ribalta altri personaggi che per il momento stanno a guardare, purtroppo è facile prevedere che per il Sud Sudan sta incominciando una fase di assestamento politico che sarà lunga e violenta.

Innocent

«L’ho chiamato Innocente, lui non ha nessuna colpa», dice Clarissa, una giovane mamma con un’espressione sempre composta e serena, che si apre al sorriso solo quando guarda Innocent. Stamattina è in coda, fra le poche mamme che aspettano il loro turno nella veranda di Paolo’s Home, a Kibera. Viene qui due volte alla settimana, guarda con attenzione come Janet, la fisioterapista, manipola Innocente, che è fisicamente disabile, e poi ripete i movimenti sotto lo sguardo attento di Janet, così che potrà rifare il trattamento lei stessa, a casa.

Il padre di Innocent l’ha lasciata sola appena gli ha detto di essere incinta. Janet mi fa osservare come il trattamento faccia quasi più bene alla mamma che non al bambino. Clarissa sente, e approva: «Sono ri-motivata, anzi ri-nata, anch’io. Adesso giro a testa alta. Né Innocent né io abbiamo di che vergognarci. Ho letto che due settimane fa, sulla Costa, i membri di una associazione per disabili hanno chiesto di poter far sentire la loro voce a livello di governo locale. Quando crescerà, Innocent saprà farsi sentire».

Quando abbiamo iniziato questo piccolo centro di fisioterapia a fine 2007, sembrava che i bambini disabili fossero pochissimi. Poi, pian piano, la gentilezza e l’attenzione di Janet hanno conquistato le mamme che si vergognavano dei figli disabili e li tenevano nascosti; a volte non trovavano altra soluzione, quando andavano a lavorare, che rinchiuderli a chiave nella baracca in cui abitano. Da gennaio di quest’anno sono oltre novanta le mamme che, ogni settimana, fedelmente, a turni prestabiliti, portano i figli per una o due sessioni di fisioterapia.

La povertà non è solo mancanza di soldi, è mancanza cronica di istruzione, di cure sanitarie, di partecipazione sociale e politica, di sicurezza e libertà, di qualità ambientale e di giustizia. Parlando con Clarissa capisci che comunque non è, o almeno non sempre, mancanza di dignità e di voglia di riscatto.

È difficile reagire all’emarginazione dei disabili. La maggior parte di loro non ha accesso all’istruzione, al lavoro e alla riabilitazione. Sono stigmatizzati a causa di pregiudizi sociali e culturali e, più degli altri bambini, sono vittime di abusi e violenze. Il rapporto tra disabilità e povertà è bidirezionale. La povertà è causa di disabilità – per esempio perché i bambini che sono partoriti in situazioni igieniche carenti possono subire traumi che portano alla disabilità – e la disabilità comporta anche per le famiglie meno povere l’impossibilità di accedere all’istruzione e diventa quindi causa di ulteriore emarginazione.

In questo contesto difficile Paolo’s Home è solo una mano tesa a chi non vuole arrendersi.

Un’altra mamma, su questa stessa veranda, l’anno scorso. Un quotidiano aveva appena pubblicato la storia di una bambina, di poco più di un anno, con una piccola disabilità fisica che era stata abbandonata dalla mamma nella savana, vicino a Eldoret. Non è dato sapere quanto tempo fosse rimasta in quella situazione, forse qualche settimana; il fatto è che fu ritrovata viva e in buone condizioni fisiche perché era stata accolta, protetta e accudita da un branco di scimmie. La mamma, leggendo quella storia, si mise a piangere quietamente, stringendo al seno la figlia di pochi mesi. Poi mormorò come tra sé e sé, ma con voce sufficientemente alta perché tutti potessero sentire: «Anch’io avevo pensato di fare lo stesso. Adesso invece sono fiera di questa mia figlia. Grazie Janet».

Clicca qui, per vedere il video di Matteo Osanna che ti fa incontrare Innocent, Clarissa, Janet e altre mamme coraggio.

An unfinished work – Un’opera Incompiuta


“Porta di Lampedusa, Porta d’Europa” in ceramica refrattaria e ferro zincato, alta 5 metri, inaugurata il 28 giugno 2008, un’opera di Mimmo Paladino voluta e realizzata da Amani.
“Porta di Lampedusa, Porta d’Europa”, by internationally famous Italian sculptor Mimmo Paladino, is an art work in refractory ceramic and galvanized iron, 5 meters high. It was promoted and implemented by Amani, and inaugurated on June 28, 2008.

La “Porta di Lampedusa, Porta d’Europa” si apre su un mare dove si stima che negli ultimi vent’anni siano perite quasi ventimila persone tentando una difficile attraversata. È in un certo senso un’opera incompiuta. Può restare segno di pietà e luogo di raccoglimento, intristirsi in un freddo monumento funebre oppure diventare il simbolo di un’Europa che si apre verso l’Africa, verso l’accoglienza e una solidarietà nuova.
Starà a noi, negli anni a venire, costruire il suo significato.

Guardando questa porta capiamo che la globalizzazione non è solo merci a basso prezzo che invadono il nostro mercato, e non sarà neppure una nostra nuova modalità per dominare il mondo. La forza della globalizzazione sono le persone che finalmente accedono alla consapevolezza di essere parte di un unico mondo, che vogliono essere responsabili della loro vita, e per questo sono disposti a venire in Europa a fare i lavori più umili: accudire i nostri ammalati, cucinare il nostro cibo e pulire le nostre città.

Il nostro mondo europeo è ormai piccolo e c’è al di là di questa porta un mondo più grande che ci chiede di partecipare e di condividere. L’Europa può essere anche un mondo piccino non solo in senso geografico, ma perché chiuso e meschino. Un piccolo mondo che si pensa al centro dell’universo; che non capisce che al di là dei nostri confini – i quali perdono sempre più significato – c’è un nuovo grande mondo ribollente di vita.

Chiudere questa porta vorrebbe dire chiudersi alla storia e al futuro. L’Europa ha incominciato a capire che il diritto internazionale costruito negli ultimi secoli, il quale nega la possibilità di interferire con gli affari interni di un paese – anche se è in atto una persecuzione o un genocidio – andava forse bene prima della globalizzazione. Adesso è superato. Ma è già anche superato il diritto di intervento umanitario: di fronte ai drammi crescenti della fame e del disastro ecologico, l’Europa viene presa dal panico e risponde alla crescente richiesta di solidarietà con promesse che non mantiene mai (come vediamo regolarmente durante gli incontri del G8) rinchiudendosi negli interessi nazionali e alzando barriere sempre più alte.

In questo momento – e speriamo che sia breve – l’Europa crede a chi percepisce e rappresenta lo straniero come una minaccia, come colui che vuole derubarci della «nostra roba» e della «nostra identità». Invece lo straniero è «colui senza il quale vivere non è più vivere».

Accettando l’altro non gli facciamo un favore: aiutiamo noi stessi; evitiamo di diventare maschere e di immedesimarci sempre più in un’identità immaginata che dovrebbe proteggerci dalle nostre insicurezze interiori, un’identità statica e sterile che ci impedisce di crescere come persone umane e come società. È una tentazione che coinvolge tutti, anche una Chiesa che talvolta sembra preferire il porto sicuro delle antiche abitudini piuttosto che l’avventura del mare aperto.

I poveri però si rifiutano di vivere in una miseria indegna della persona umana, vittime di uno sfruttamento interno ed esterno, di guerre che non capiscono e non vogliono; vengono a cercare da noi il sogno di quell’European way of life che abbiamo alimentato con la nostra propaganda, stupidamente sicuri che il nostro modello di sviluppo fosse l’unico possibile.

C’è chi in Europa crede di poter fermare con le leggi questa ondata di vita che viene ad abbracciarci. Fortunatamente per tutti noi, sono degli illusi. La legge non cambia la storia; anzi, quasi sempre la legge è costretta a seguirla, soprattutto quando si tratta di eventi epocali come le migrazioni oggi in atto. Così chi in Europa tiene gli occhi aperti incomincia a capire che la solidarietà o diventa globale o non ha più senso. Gli egoismi di classe e di nazione sono il linguaggio del passato. Oggi i nostri ragazzi si sentono sempre di più cittadini di un unico mondo e capiscono istintivamente – a meno che siano succubi di martellanti propagande – che la convivenza civile può essere fondata solo su una solidarietà globale, altrimenti è un egoismo mascherato. Fra pochi anni i politici che hanno inventato i muri che dividono le nazioni come fra Messico e Stati Uniti o fra Israele e Palestina, i centri di identificazione ed espulsione e i respingimenti saranno consegnati alla storia come sopravvissuti di un’era in cui nessuno più si riconoscerà.

Sono fiero della mia cultura e della mia tradizione, nelle quali è centrale riconoscere in ogni persona prima di tutto la comune umanità, fonte di dignità e diritti. Solo successivamente si vedono le differenze, le quali ci completano, anzi, mi creano e mi danno vita, perché senza queste differenze non potrei essere me stesso.

Mi sento in comunione con Francesco, il papa-pastore che abbraccia i fratelli sofferenti, non per calcoli diplomatici o equilibri geopolitici, ma “solo” perché essi “sono la carne di Cristo”.

Riguardando questa porta non la vedo più come un monumento ai morti ma come un grande segno di speranza per i vivi. Non facciamo semplicemente memoria di quei poveri corpi in fondo al mare: li riconosciamo come persone che venivano a noi desiderose di condividere la nostra comune umanità. Riconosciamo che loro, che hanno già attraversato un’altra porta – quella che si apre sull’incontro con l’Infinito, con colui che è davvero e definitivamente l’Altro – avevano capito ciò che noi fatichiamo a intravedere: che la fraternità è il nostro orizzonte.

Se Londra compra le lacrime

Oltre mezzo secolo per ammettere di aver massacrato i Mau Mau. E ora la Gran Bretagna si è (auto) riabilitata con pochi spiccioli.

Dopo oltre sessant’anni gli inglesi hanno ammesso le atrocità compiute in Kenya durante la ribellione dei Mau Mau, e lo scorso 6 giugno William Hague, segretario di stato per gli affari esteri, ha dichiarato che Londra ha raggiunto una composizione amichevole con i rappresentanti dei circa cinquemila sopravvissuti ai campi di prigionia, sborsando un totale di circa 23 milioni di euro, che saranno usati anche per costruire un memoriale per le vittime di torture e maltrattamenti durante il periodo coloniale.

È più che altro una vittoria morale, come ha sottolineato il portavoce dei veterani del movimento nazionalista Mau Mau, Gitu wa Kahengeri, notando che nessuno potrà mai ripagare le sofferenze e la morte di migliaia di persone, e che, a conti fatti, ogni sopravvissuto riceverà la non esaltante cifra di circa tremila euro.
Vittoria comunque importante, considerando che ancora nel 2005 il primo ministro Gordon Brown, dopo un breve viaggio in Kenya, affermava che la Gran Bretagna avrebbe dovuto smettere di chiedere scusa per il colonialismo, e, anzi, dovrebbe essere orgogliosa della storia coloniale in Africa, elogiando i «valori britannici», come la libertà, la tolleranza e la virtù civica.

Affermazioni tanto più assurde perché proprio in quei mesi erano stati pubblicati due libri Histories of the Hanged di David Anderson, e Britain’s Gulag di Caroline Elkins, entrambi storici di indubbia fama, che ricostruivano come la Gran Bretagna avesse utilizzato in Kenya feroci metodi di repressione coloniale. Le loro ricerche avevano portato alla luce documenti che l’amministrazione coloniale aveva scientemente cercato di occultare, e dimostrato come per otto anni le truppe coloniali avessero agito al di là della legalità e ogni valore morale, torturando impunemente civili e commettendo omicidi di massa.

In uno dei tantissimi episodi citati e documentati da Anderson un ufficiale inglese racconta, con cinica indifferenza, che mentre sta interrogando tre sospetti “uno di loro, un bastardo, alto e nero come il carbone, continuava a sorridere insolentemente, allora l’ho schiaffeggiato, ma lui continuava a sorridere. L’ho colpito nei testicoli con tutte le mie forze… Quando finalmente riusci a rialzarsi, mi sorrise di nuovo e mi son saltati i nervi. Ho messo la pistola in quella bocca ghignante, e ho tirato il grilletto. Il muro retrostante si copri di pezzi di cervello. Gli altri due indagati guardavano nel vuoto…così ho sparato anche a quei due. Quando e arrivato il commissario gli ho detto che i tre sospetti avevano cercato di fuggire. Non mi credette, ma tutto quello che disse fu: seppelliteli e ripulite il muro.”

Nessun funzionario britannico, militare o civile, è stato mai indagato o processato per quello che è successo nella repressione dei Mau Mau. I documenti venuti alla luce in questi ultimi anni forniscono una documentazione che fa pensare al genocidio. Nel 1952, venne ufficialmente decretato lo stato di emergenza, con conseguente “villaggizzazione”: quasi un milione di indigeni arrestati e costretti a vivere in recinti di filo spinato sotto il controllo armato di agenti di sicurezza.

Il numero di morti causati dalla rivolta e dalla repressione durata dal 1952 al 1963 rimane un mistero. Di certo si sa che i civili inglesi vittime dei Mau Mau non furono più di 40. I civili keniani sono stimati (a seconda di chi fa la stima) tra 25mila e 300mila, quest’ultima cifra è considerata dalla Elkins minimalista, potrebbero essere stati anche 400mila. La Commissione dei diritti umani del Kenya sostiene che circa 90mila furono assassinati e oltre 160mila detenuti in condizioni spaventose. Molti hanno subito castrazione, stupro e violenze della peggior specie. Oggi non c’è nessun dubbio che queste pratiche e i sistematici abusi di diritti umani fossero stati autorizzati ai più alti livelli del governo britannico.

La mossa del governo britannico sembra ispirata dal desiderio di rafforzare i legami politici ed economici con l’ex colonia. Ma ha indotto anche in altri perseguitati politici il desiderio di chiedere compensi per danni subiti. Alcuni Mau Mau non escludono di fare causa al governo del Kenya per averli completamente trascurati dopo l’indipendenza. Inoltre i tribunali stanno ordinando al governo keniano di compensare uomini politici che negli anni del presidente Daniel arap Moi, 1978-2002, sono stati detenuti e torturati.

Dieci giorni dopo l’annuncio di William Hague, due personaggi politici, Gitobu Imanyara e Njehu Gatabaki, e un giornalista, Bedan Mbugua, hanno ricevuto complessivamente circa 300mila euro in compenso delle torture e dei danni subiti. Mbugua, che lavorava per un giornale protestante e sempre sostenne di agire solo in base alle sue convinzioni etiche, fu l’unico giornalista a denunciare le intimidazione e truffe che avvennero durante le elezioni del 1988. Non solo fece tre anni di prigione senza essere accusato di niente, ma la sua carriera e la sua vita furono distrutte da continue interferenze dei servizi segreti. La cifre che i tre hanno ricevuto è ben più alta di quella accettata dai Mau Mau, e si riferisce a violenze pericolosamente molto più vicine nel tempo. Non si può non pensare cosa potrebbe succedere se le vittime delle violenze post-elettorali di cinque anni fa, per le quali sono indiziati alla Corte penale internazionale gli attuali presidente e vice-presidente, decidessero di far causa al governo keniano per non averle protette e compensate per le proprietà terriere perdute e per le vite stroncate dei familiari. Migliaia di loro vivono ancora in situazione di precarietà.

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