Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

April, 2012:

Monti Nuba – Nuba Mountains

L’ultima visita clandestina che feci sui Monti Nuba fu nel gennaio del 2002. Poi il cessate il fuoco e la pace mi permisero di tornarci senza correre rischi. La guerra che è ripresa nel giugno del 2011 mi ha costretto a tornarci ancora da clandestino, lo scorso 14 aprile. Ecco un breve resoconto.

Viaggiando in direzione sud verso il confine con il Sud Sudan in uno dei pochi veicoli che si muovono nei Monti Nuba, in Sudan, di tanto in tanto incontriamo un gruppo di due o tre dozzine di bambini e qualche donna. Camminano sotto un sole implacabile, con temperature diurne costantemente oltre i 40 gradi, e nelle ore più calde si fermano e si raccolgono all’ombra di qualche raro albero. Sono tutti mal vestiti, coperti di polvere, le donne portano un cesto con poco cibo e pochi utensili da cucina, una tanca di plastica con dell’acqua. Ti impietosisci e vorresti fermarti. L’autista dice che non c’è più posto neanche per un bambino, non è consentito, in ogni caso non risolverebbe il problema: ci sono decine di altri profughi per strada.

E’ aprile e ogni giorno arrivano ad Yida, il campo per i rifugiati Nuba a circa 20 km all’interno del Sud Sudan, una media di 400 donne e bambini. La maggior parte di loro soffrono di grave malnutrizione e sono disidratati. Il processo di registrazione viene effettuato in una casupola di paglia all’inizio del campo che già ha altri venti mila persone. Qualche settimana fa il campo è stato bombardato, come se fosse una minaccia militare al regime di Khartoum.

Da cosa stanno scappando? Dalla guerra e dalla fame. C’è una guerra incombente tra Sudan e Sud Sudan, alimentata ogni giorno da dichiarazioni belligeranti da entrambe le parti. I Nuba però sono intrappolati in un’altra guerra, più locale. Dal giugno dello scorso anno il presidente del Sudan, Omar el-Bashir, ha scatenato una guerra non dichiarata contro i Nuba e il Sudan People’s Liberation Movement – Northern Sector (SPLM-N) che si era costituito come partito politico, colpevoli di non accettare la sua politica accentratrice e islamizzatrice che hanno fatto dei Nuba degli emarginati nel loro paese. Si stima che i Nuba residenti nello stato del Sud Kordofan (il Sudan è una stato federale, almeno teoricamente), usualmente chiamato Monti Nuba, sia fra 800 mila e un milione di persone. In questi dieci mesi di guerra fiorenti centri e piccoli villaggi sono stati bombardati indiscriminatamente. Buram lo scorso anno era un fiorente centro a sud di Kadugli, la capitale del Sud Kordofan, oggi è una città fantasma, la metà rasa al suolo da ripetuti bombardamenti, e la nuova scuola è stata abbandonata dopo che le bombe l’hanno mancata per un soffio. Abbiamo incontrato uno studente, Daniel, 15 anni, che è ancora in ospedale Gidel. Ci ha raccontato dello spavento quando ha sentito le bombe cadere, e come in un disperato tentativo di cercare protezione si sia abbracciato a un albero. Una scheggia di bomba ha colpito l’albero, tagliandogli entrambe le braccia appena sotto il gomito. La scuola è chiusa, come la maggior parte delle scuole della zona. Solo alcuni coraggiosi insegnati tengono aperte le scuolette di villaggio, operando in strutture improvvisate e senza libri, cancelleria e lavagne. Le sette scuole secondarie che esistevano sui Monti Nuba sono tutte chiuse, la maggior parte di loro sono state bersaglio di bombardamenti. Anche i due istituti di formazione degli insegnanti, uno dei quali fondato da Koinonia, sono chiusi.

La guerra genera fame. L’attuale conflitto è iniziato proprio quando l’anno scorso stava per arrivare la stagione delle piogge. Le persone si sono rifugiate sulle montagne, riparandosi nelle grotte, e le terre fertili della pianura che erano già state dissodate in preparazione alla semina sono state abbandonate. Cosi il raccolto dello scorso dicembre è stato meno della metà del solito. In questi giorni arrivano notizie che in alcune zone già si muore di fame. Yida è l’ultima speranza per la sopravvivenza.

Una forte dichiarazione presidenziale dell’ONU del 14 febbraio 2012 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha sottolineato che “I membri del Consiglio di sicurezza hanno espresso la loro profonda e crescente preoccupazione per l’aumento dei livelli di malnutrizione e insicurezza alimentare in alcune zone del Sud Kordofan e Blue Nile in Sudan , che potrebbe raggiungere livelli di emergenza se non immediatamente affrontate, e con la mancanza di accesso per il personale delle organizzazioni umanitarie internazionali per effettuare una valutazione della situazione e fornire assistenza urgente” e hanno” invitato il governo del Sudan a consentire l’accesso immediato al personale delle Nazioni Unite” e ha chiesto” al governo del Sudan e al Sudan Poeple’s Liberation Movement – Northern Sector (SPLM-N) di collaborare pienamente con le Nazioni Unite e altre agenzie umanitarie “per consentire la fornitura di assistenza in linea con le norme internazionali per l’intervento umanitario. Nonostante questa dichiarazione e una proposta tripartita (Onu, Unione Africana e la Lega degli Stati arabi) per la fornitura di assistenza umanitaria a tutta la popolazione civile provata dal conflitto, il governo di Khartoum ha sempre negato l’accesso alla zona controllata dal SPLM-N, circa il 90 per cento del Kordofan meridionale.

Un funzionario di alto livello dell’Unione europea a Juba che chiede l’anonimato, spiega: “Le nostre mani sono legate. Il diritto internazionale non ci permette di intervenire, anche solo distribuendo cibo, se il governo non è d’accordo”. ” Anche se il governo in questione fa di tutto per sterminare con i bombardamenti e la fame il proprio popolo?” ” Sì, anche in questo caso non possiamo interferire”. Tuttavia, un’ operazione di soccorso su larga scala e a livello internazionale approvata da entrambe le parti è l’unica possibilità per rispondere ai bisogni più urgenti dei circa 420.000 Nuba che sono sfollati e rifugiati altre confine. Ora, a poche settimane l’inizio della stagione delle piogge, che renderà l’accesso estremamente difficile, un negoziato che faccia scattare l’accesso ai Monti Nuba in tempo utile è altamente improbabile.

E’ possibile un miglioramento della situazione militare e politica sudanese? Le posizioni rigide che Omar el-Bashir ha mantenuto da quando ha preso il potere nel 1989 fanno pensare che un cambiamento pacifico sia impossibile. Convinte di questo, le forze politiche che rappresentano le popolazioni che più fortemente contestano la politica di Bashir – Darfur, Kordofan meridionale e del Southern Blue Nile – hanno formato un’alleanza, il Sudan Revolutionary Front (SRF) e hanno giurato di rovesciare il suo governo. “Bashir ha una superiorità militare aerea. Ma a terra noi siamo molto più forti e siamo pronti a marciare su Khartoum per provocare un cambiamento di regime”, dichiara Adbel Aziz al Hilu, il capo militare dei Nuba e anche il capo del capo militare della SRF. Detto cosi sembra improbabile, ma se si considera che a Khartoum ci sono centinaia di migliaia di persone originarie delle zone in questione e del Sud Sudan il prevedere un crollo del regime provocato da un’azione congiunta non è impossibile.

A breve termine comunque più guerra, più sofferenza sono in serbo per i Nuba. Questa volta però sono pronti a raccontare la propria storia in prima persona, con il supporto di Ryan Boyette, un 31enne americano che è venuto qui come un operatore umanitario nove anni fa. Ha sposato una ragazza Nuba, e con lei anche la causa Nuba. Con pochi aiuti dall’esterno ha contribuito a creare un team di giornalisti Nuba addestrati localmente. Armati di macchine fotografiche e telecamere, collegati via radio, si muovono su tutto il territorio per segnalare episodi di violazione dei diritti umani e docuemntare le tragiche conseguenze dei bombardamenti e cannoneggiamenti. Dice uno di loro, che ogni volta che si muove mette le sua vita in pericolo: “Il governo di Khartoum ha l’abitudine di negare persino i fatti più evidenti. Negano i bombardamenti, le violazioni dei diritti umani, la devastazione causata dalle loro politiche. Ora, questo non sarà più possibile. Vogliamo documentare con evidenza inoppugnabile quanto sta accadendo. Il mondo, almeno quelli che sono interessati, potrà ascoltare e vedere ciò che succede qui. Il nostro sito web sarà pronto fra poche settimane. Forse nella sua logica il governo di Khartoum ha ragione nel cercare di distruggerci, ma più ci prova più ci rendono determinati a resistere e a documentare la nostra situazione “.

La stessa cosa è espressa da un leader religioso in Yida, dopo la Messa Domenica Guardandosi intorno, circondato da centinaia di bambini, dice: “La violenza genera violenza. Qualunque cosa cercheremo di insegnare a questi bambini, essi cresceranno sempre più determinati a lottare contro la dominazione straniera. Il bombardamento di Yida di qualche settimana fa li ha solo convinti ancora di più.”

La mattina del 23 aprile con il mio team sono tornato in a Bentiu, la cittadina Sud Sudanese da dove eravamo partiti. Improvvisamente un aereo MIG appare nel cielo e lancia bombe destinate al ponte sul Bahr el Ghazal, un collegamento fondamentale tra la città e dei campi petroliferi più importanti. Ci siamo resi conto che siamo di nuovo in un’altra guerra. Non siamo più nella guerra del Sudan contro i propri cittadini, i Nuba. Siamo ora nella guerra per i giacimenti petroliferi tra il Sudan e il Sud Sudan. Un’altra storia.

Buram. Vita nelle grotte. Life in the caves.

Yida. Il "punto di accoglienza" per i rifugiati Nuba. The "reception" for the Nuba refugees.

Diventare Umani – Becoming Human

Nel numero 390 de Il Foglio, “mensile di alcuni cristiani torinesi”, una pubblicazione tanto di modesto aspetto quanto ricca di intelligenti sollecitazioni ed idee, trovo questa citazione di una citazione che, se l’avessi vista prima, avrei inserito nel blog di ieri.

Anniek Cojean racconta che un preside di un liceo americano aveva l’abitudine di scrivere, a ogni inizio di anno scolastico, una lettera ai suoi insegnanti: “Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti; bambini uccisi con veleno da medici ben formati; lattanti uccisi da infermiere provette; donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiori e università. Diffido quindi dell’educazione. La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani”. Les mémoires de la Shoah, in Le Monde del 29 aprile 1995.

Educare alla Vita – Education for Life

Ian Stanley ha poco più di 17 anni, al primo contatto è timido, taciturno, riservato, al punto da poter apparire scontroso. Eppure quando è fra i suoi compagni a Kivuli emerge subito come un leader. Non si fa notare, non si mette in mostra, ma in un gruppo di coetanei Ian diventa presto un punto di riferimento. Da quando è arrivato a Kivuli ed ha ripreso la scuola, non solo ha bruciato le tappe recuperando quasi tutti gli anni perduti e riuscendo così a finire la classe ottava lo scorso novembre, ma nella scuola pubblica che ha frequentato è sempre stato capoclasse, e negli ultimi due anni rappresentante di istituto. Agli esami ha avuto risultati molto alti e ha ottenuto una borsa di studio stanziata da Equity Bank in una delle scuole pubbliche più prestigiose del paese. Il primo giorno di scuola, in gennaio, è stato nominato capoclasse.

Catherine Odongo, 21 anni, anche lei proveniente dalla strada, letteralmente da una vita randagia, in una miseria umiliante che ne avrebbe potuto fare un’eterna vittima, è invece una ragazza della Casa di Anita determinata a diventare sempre più indipendente. Sta già frequentando il primo anno di università, e basta parlare con lei pochi minuti per capire di essere alla presenza di una forza capace di superare ogni ostacolo.

Moses Chimwanga, 23 anni, ha un carattere completamente diverso dagli altri due. È una persona solare, è difficile sorprenderlo senza che sorrida. La sua storia è stata pubblicata lo scorso novembre sul quotidiano inglese The Guardian con il titolo “From street child to college boy” con una foto, ovviamente con un sorriso smagliante, nel cortile di Mthunzi. Per il suo carattere vivace la sua carriere scolastica non è stata così lineare come quella di Catherine e di Ian, ma ce l’ha fatta. I tempi in cui viveva in strada, facendo di tutto pur di riuscire a procurarsi un po’ di alcol da bere o di jenkem (solvente per vernici) da sniffare, sono un ricordo vivido ma superato.

Tre belle storie, tre persone straordinarie che ci convincono che il sostegno che abbiamo dato loro e che continuiamo a offrire con passione e amore a tanti altri bambini di strada a Kivuli, alla Casa di Anita, a Mthunzi è ampiamente ripagato.

Ma non possiamo evitare qualche riflessione. Innanzitutto misurare il successo di un’educazione alla vita, come quella che noi intendiamo offrire, col solo metro dei risultati scolastici sarebbe sbagliato. Ci sono tanti ragazzi che sono passati dalle nostre case e che non hanno avuto grandi successi accademici o che, a causa della loro storia e dei loro limiti personali, hanno smesso di studiare alla fine della scuola dell’obbligo. Ma sono meccanici, sarte, segretarie, falegnami, camerieri e cuochi che si guadagnano la vita onestamente e dignitosamente.

Non ci piace la mentalità prevalente in Kenya, dove i giornali pubblicano con grande risalto i risultati scolastici della classe ottava e della dodicesima (rispettivamente ultima classe della scuola primaria e ultima classe della secondaria). Per diversi giorni in prima pagina ci sono le foto dei migliori studenti a livello nazionale e nelle diverse province, con la classifica delle scuole che hanno avuto gli studenti migliori. Per le scuole è motivo di vanto – e soprattutto di guadagno, visto che quasi sempre le prime sono scuole private – essere nei primi posti in questa classifica. Nei giorni successivi non mancano mai, sempre riportati con evidenza, i casi di studenti che si suicidano perché non sono passati o non hanno avuto i risultati che si aspettavano. È un’educazione pensata e vissuta come strettamente funzionale ad un tipo di società che esalta la competizione e il successo. Gli esami sono test scritti, uguali per tutti gli studenti a livello nazionale, col risultato di confondere spesso educazione con memorizzazione. Se agli insegnanti, alle scuole e ai genitori interessa solo che gli studenti passino gli esami con voti alti, non c’è una vera educazione alla vita, destinata all’intera persona umana.

La Carta Africana dei Diritti e il Benessere del Minore (1990) è una lunga lista di speranze disattese. Ma è una buon punto di partenza per vedere quali dovrebbero essere gli obiettivi di un sistema educativo statale. Le prime righe dell’articolo 11 affermano che «ogni bambino ha diritto ad un’educazione. L’educazione del minore deve essere volta alla promozione e allo sviluppo della personalità del minore, dei suoi talenti e capacità fisiche e mentali, in tutto il loro potenziale, ad alimentare il rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali».

Troppo facile constare che invece in Kenya, in Zambia, in Sudan, là dove siamo presenti, il sistema educativo è ben lontano dal raggiungere tutti i bambini, e che quando li raggiunge non li educa, non li abitua a ragionare con la propria testa e a sviluppare uno spirito critico, a scegliere i valori che daranno forma alla loro vita: semplicemente li indottrina, o li ammaestra.

Gli esclusi, i marginalizzati, non hanno bisogno di un sistema educativo che li confermi nella certezza del loro senso di inferiorità e li convinca delle loro inadeguatezze. Hanno bisogno di una mano amica che offra loro la possibilità di educarsi, di e-ducere da se stessi le potenzialità della loro persona. Non scopriremo mai abbastanza quanto bene possa fare e quanto Vangelo possa annunciare una mano tesa a un bambino in difficoltà.

Catherine Odongo.

Moses Chimwanga.

Ritorni

Ritorna la guerra sui Monti Nuba
Inevitabilmente i problemi non risolti si ripresentano. Spesso, dopo un soluzione affrettata e imposta con la forza, diventano più complicati e intrattabili. Cosi è per la questione dei Nuba in relazione al Sudan e al Sud Sudan – che si interseca con la questione della mancata definizione del confine e del controllo dei campi petroliferi – non risolta dal CPA (Comprehensive Peace Agreement) del 2005 e neanche negli anni successivi. Mi è capitato di scriverlo più volte, anche in questo blog, attirandomi rimproveri di essere pessimista. Adesso, in una Guest House di Juba, capitale del nuovo Sud Sudan, dove sono arrivato ieri sera e starò per pochi giorni, rappresentanti delle organizzazioni che mi dicevano pessimista, sono i primi ad affermare che il pomposo aggettivo “Comprehensive” era un inganno, che nascondeva i problemi, rimandandone la soluzione all’esercizio di uno spirito di collaborazione che tutti sapevano non ci sarebbe mai stato. Una vecchia conoscenza, un olandese che aveva cominciato a frequentare i Monti Nuba alla fine degli anni novanta, e che sarebbe già in pensione se non fosse stato ingaggiato da un’agenzia umanitaria come consulente, mi fa notare “Tutto il personale ONU, UNICEF, UNDP, UNHCR e simili cambia totalmente nel giro di pochissimo tempo. Ormai non c’è più nessuno che era qui alla firma del CPA, ed io, in Sudan dal ’97, sono un sopravvissuto. Non c’è memoria istituzionale. Non solo nessuno sembra interessato e leggere i rapporti che i loro predecessori facevano pochi anni fa, ma nessuno riesce a capire la profondità del risentimento dei Sud Sudanesi contro il governo di Khartoum. Tutti credono o fingono di credere che la storia del Sud Sudan sia cominciata con l’indipendenza proclamata il 9 luglio dello scorso anno”.

Dal 26 al 31 marzo alla Shalom House si è riunita la comunità Nuba di Nairobi, sostenuta dalla Diaspora Nuba di tutto il mondo, e con qualche rappresentante dei campi di rifugiati del Kenya, per ricordare che la guerra sui Monti Nuba c’è ancora, se possibile ancora peggiore di quella degli anni 90. I Nuba hanno organizzato un mostra di recenti fotografie per denunciare gli orrore dei recenti attacchi contro la popolazione civile. C’è stata una buona coperture della stampa, radio e televisioni keniane. I ragazzi delle nostre case hanno animato le giornate, e in maggioranza hanno partecipato al digiuno di venerdì 30. Il problema è sempre “come possiamo aiutare per ristabilire umanità, ragione e pace?”. Le nostre sono piccole forze di fronte alle grandi forze di male che sono scatenate su questa terra da decine di anni. Facciamo un appello? Un altro dopo quello che la stessa diaspora Nuba ha lanciato attraverso Nigrizia? E poi lo stesso “genere letterario” dell’appello è abbastanza abusato e squalificato. Mi dice un rifugiato Nuba: “comincio a capire gli attivisti di altre parti del mondo che si immolano dandosi fuoco per attirare l’attenzione su un problema.”

Il ritorno di Franklin Odhiambo
Dal 2000 al 2004 il bambino icona di Kivuli era Franklin (o Francis) Odhiambo, insieme al suo inseparabile amico Mark Pesa. Franklin era una specie di Gian Burrasca, e, come succede spesso in questi casi, la sue avventure venivano anche esagerate e diventavano in poche ore parte della leggenda. Poi uno zio venne a prenderlo e lo portò al villaggio di origine, garantendo, di fronte ad un magistrato, che se ne sarebbe preso cura. Ne perdemmo le tracce. Le cose non andarono bene, lo zio scomparve e Franklin fu preso in una casa per bambini della sua zona. Pochi mesi fa, dopo aver terminato gli esami della scuola superiore con ottimi risultati, entrando nell’ufficio del direttore, vide sul tavolo una foto che il direttore aveva fatto con me lo scorso anno, e si fece dare i contatti di Kivuli. Cosi, quando son rientrato a Nairobi a fine marzo me lo son ritrovato a Kivuli. Mi ha implorato di portarlo ad incontrare Mark, che sta facendo l’ultima classe di scuola superiore a Domus Mariae.

Mark (a sinistra) e Franklin.

John Epucha torna alla vita
Nei pochissimi giorni trascorsi a Nairobi, fra Lusaka e Juba, ho incontrato i “nuovi” bambini riscatti dalla strada del nostro team di Kibera. Ci sono le storie più incredibili, dal Kevin (un altro!) tredicenne pacioccone arrivato pochi giorni fa da Mombasa nascosto sotto il vagone di un treno e subito preso dalla polizia e portato a Ndugu Mdogo, a John Epucha, un ragazzino Turkana – il popolo seminomade che vive vicino al confine con l’Uganda. John racconta in modo vivace che due anni fa ha deciso di sfuggire ad una vita di analfabetismo e povertà assoluta come quella che ha visto fare da suo padre, pastore di una stentata mandria di cammelli e capre, sempre al limite della sopravvivenza e della fame. Si è nascosto in un camion, fra un carico di capre destinate al macello di Nairobi, e per due giorni ha vissuto nascosto fra le loro gambe, riuscendo solo a bere un po dell’acqua che veniva data per mantener gli animali in vita. Quando sono arrivati a Nairobi era probabilmente svenuto dalla stanchezza e dalla fame, e il camionista deve averlo trovato, coperto di escrementi, nel cassone del camion quando hanno scaricato le capre. Lo ha messo al margine della strada, vicino al macello, forse credendolo morto. Il fresco della notte gli ha fatto riprendere le forze, e prima che la giornata finisse si era già fatto degli amici di strada, che lo ammiravano per l’incredibile avventura e per l’insostenibile puzza che emanava. Da allora ha imparato le strategie per sopravvivere in strada. Poi la scorsa settimana un ragazzo che è stato a Mdugu Mdogo lo ha convinto che può iniziare una vita nuova. Eccolo, nella foto qui sotto, nella veranda di Ndugu Mdogo, pronto a ricominciare. Ma, dice “fare i tre chilometri da Kawangware a Ndugu Mdogo è stato più lungo che da Lodwar a Nairobi. Avevo paura di essere rimproverato e punito. Non credevo che mi accettassero cosi come sono”.

Una Storia di Pasqua – An Easter Story

Pasqua, l’inizio di un mondo nuovo, ma il vecchio non vuole andarsene. Il ricco epulone resta tenacemente attaccato alle sue ricchezze, e il povero Lazzaro deve accontentarsi delle briciole. L’uomo vecchio non dà spazio all’uomo nuovo. Le promesse che abbiamo fatto, o che i nostri genitori hanno fatto per noi, al momento del battesimo sono troppo difficili da mantenere. Solo il Risorto ci aiuta a continuare il faticoso cammino, a tornare ogni volta a testa bassa al suo seguito, bisognosi del suo perdono e della forza del suo Suo Spirito.

Montagne Nuba, marzo 2012. Zeinab cammina a passo sciolto, anche se le forze sono poche, con un figlio di pochi mesi in braccio e altri due al seguito. La terra è bruciata da un sole impietoso, non piove da cinque mesi e per arrivare alla prossima stagione delle piogge di mesi ce ne vogliono almeno altri due. Oltre al bimbo Zeinab porta in equilibrio sulla testa una grande cesta contenente una coperta, pochi utensili, noccioline, durra e verdure essiccate sufficienti per mangiare per una paio di settimane, forse tre, e un contenitore di plastica con dell’acqua, ma quasi vuoto. Il maschio e la femminuccia di cinque e tre anni che la seguono, ogni tanto rallentano, e Zeinab si deve fermare spesso per non perderli.
Sono stanchi e vorrebbero fermarsi, ma non si può, Zeinab sa che nella zona ci sono pattuglie governative che sparano a vista. Per tre giorni sono stati nascosti in una grotta sul fianco di una montagna, ma poi ha deciso di tentare di passare il confine, mancano ancora una ventina di chilometri, laggiù a sud, per trovare sicurezza e qualcosa da mangiare, soprattutto da bere.
All’improvviso arrivano tre camionette. Gli alberi sono troppo radi per potersi nascondere. I soldati sparano, ridendo, per divertirsi, e Zeinab e i figli sono paralizzati dalla paura. I due figli, nonostante siano un po’ più lontani, vengono quasi subito colpiti in pieno. Zeinab stringe più forte il bambino che ha in braccio, sa che non può fare niente se non morire abbracciata al piccolo. Il comandate – pietà o fretta di andare altrove – grida “Basta, non abbiamo tempo da perdere”.
Zeinab depone il bambino e compone i cadaveri dei due figli morti sotto un albero, come per proteggerli dal sole, e li copre come può con delle pietre, in un ultimo gesto di affetto. E’ un lavoro lungo e faticoso, ma non può lasciare i corpi dei figli in pasto agli animali selvaggi.
La sera del giorno dopo arriva al campo profughi di Yida, Stremata, mangia e beve a piccoli sorsi, mentre nutre il figlio nello stesso modo. Sa che dopo la fame e sete che hanno patito deve assumere tutto con calma. Sembra non sentire niente, le parole di consolazione dei primi soccorrritori e degli altri profughi non la toccano, è in un altro mondo, tutta la sua amorosa attenzione concentrata sul figlio. Quando il piccolo sembra sazio, sempre tenendolo in braccio, gli parla come fosse un adulto, sussurrando: “Kallo, noi perdoniamo. I tuoi fratelli sono con Dio, e non vogliono altro odio e altre morti”. Poi si dà vinta e si lascia andare ad un pianto sommesso e senza lacrime.

Una storia di Pasqua? Si perché l’odio e la morte, non possono vincere contro la forza dell’amore e del perdono, che rendono possibile una vita nuova. Me l’ha raccontata un operatore sanitario keniano rientrato a Nairobi dal campo profughi di Yida, nel Sud Sudan, al confine col territorio dei Nuba che è sotto il controllo di Khartoum. Mi dice che nelle ultime settimane ha visto tante sofferenze causate dalla guerra, niente però lo ha toccato come le parole che ha sentito mormorare da Zeinab al piccolo Kallo.

Marzo 2012. I Nuba tornano nelle grotte per sfuggire ai bombardamenti. The Nuba take refuge in the caves to escape air bombings.

La forza della fedeltà – The force of faithfulness

La forza spirituale di una comunità non si misura col numero dei fedeli cristiani o con le posizioni importanti nella gerachia ecclesiasitca. La Chiesa africana è importante per la Chiesa universale – non in forza dei numeri, ma in forza della sua fedeltà a Cristo.

La crescita numerica della Chiesa in Africa è una realtà di grande importanza non solo per i cambiamenti profondi che potrebbe significare per i paesi in cui la crescita si svolge, ma anche per la vita della Chiesa nel suo insieme. Però, quando si parla di una realtà spirituale come il “popolo di Dio” che è la Chiesa, il significato dei numenri deve essere messo in giusta prospettiva.
Il pericolo maggiore è quello di pensare che i numeri possano darci indicazioni chiare e quasi automatiche per capire come sarà la chiesa del futuro.
Uno studio sulla crescita del cristianesimo nel mondo –The Next Christendom. The Coming of Global Christianity, di Philip Jenkins, pubblicato nel 2002 – dimostra, utilizzando statistiche disponibili in quel momento, che l’adesione alle Chiese cristiane sta vivendo una rapida crescita in Africa e in Asia, e che la maggior parte dei nuovi credenti tendono verso un cristianesimo pentecostale, carismatico e, in ultima analisi, fondamentalista. Utilizzando proiezioni statistiche, Jenkins prevede che nel 2050 il cristianesimo a livello mondiale sarà fortemente fondamentalista, più propenso ad confrontarsi in modo conflittuale con le altre fedi, piuttosto che a dialogare. La crescita numerica, infatti, sempre secondo le proiezioni statistiche eleborate da Jenkins, sarà solo fisiologica per le grandi Chiese tradizionali – Cattolica, Luterana e Anglicana – ma sarà travolgente nella costellazione delle nuove chiese di stampo pentecostale che sono Cristo-centriche ma socialmente conservatrici e politicamente disimpegnate.
E ‘vero che l’analisi statistica dei fenomeni sociali è importante per capire dove siamo e dove probabilmente andremo nell’immediato futuro. Tuttavia, è altamente discutibile proiettare le tendenze attuali per un periodo così lungo, come Jenkins fa, in particolare per quanto riguarda cultura, società e religione. Ci sono dei cambiamenti nella società che sfidano tutte le statistiche. Per esempio, la primavera araba, con tutte le sue ambiguità, non è stata prevista da nessuno. Le trasformazioni che sta provocando non sono ancora chiare e magari diventeranno evidenti solo fra una generazione, ma chi aveva costruito un quadro di come il mondo arabo sarà nel 2050, supponendo che le tendenze del 2010 sarebbero continuate per lungo tempo, ha fatto un esercizio in futilità. Allo stesso modo, cosa sappiamo dei movimenti culturali e politici che cresceranno in Africa nel prossimo futuro? Niente. Ci sarà una nuova percezione dei diritti umani che cambiarà l’auto-comprensione del mondo africano? Oppure la crescente influenza della cultura materialistica occidentale causerà il crollo della visione del mondo tradizionale in cui Dio e la religione occupano un posto importante? E le chiese cristiane perderanno il sostegno della spiritualità tradizionale che è una forte preparazione al cristianesimo? Quali trends e correnti di pensiero prevarranno? Gli elementi in gioco sono troppi e troppo imprevedibili, nessuno può neanche con relativa certezza dirci come sarà l’Africa fra trenta o più anni. Leggere i segni dei tempi non è un esercizio facile.

I numeri non significano maturità

Se i numeri non possono essere l’unico fattore per aiutarci a vedere nel futuro, non sono neanche molto utili per misurare la forza spirituale di una comunità. Quando l’Europa fu travolta dall’orrore del nazismo e della seconda guerra mondiale, era statisticamente abitata da una maggioranza cristiana. Ma quanti cristiani furono capaci di resistere a quella follia? Alcuni lo fecero, dando testimoninaza di grande coraggio, ma dobbiamo ammettere che furono pochi. Allo stesso modo, quando il Ruanda, un paese a grande maggioranza cattolica, è stato sconvolto dalla furia genocidaria del 1994, quanti si opposero in nome della loro fede? Alcuni lo hanno fatto, dimostrando eroismo civile e santità cristiana, ma sono stati una piccola percentuale. Hanno salvato vite umane, anche sacrificando la propria e dimostrando adesione totale al Vangelo, ma non furono in numero sufficente a creare un ostacolo capace di fermare l’onda del genocidio.
Alcuni giustificano il caso del Ruanda dicendo che il cristianesimo non aveva ancora messo radici profonde. Ma allora come giustificare ciò che è accaduto in Europa, dove il cristianesimo era stato presente per almeno duemila anni? Era un segno del declino del cristianesimo europeo? Il minimo che possiamo dire è che, in entrambi i casi, i numeri non sono stati un buon indicatore della maturità e della forza di quella Chiesa particolare di resistere al male.
E’ evidente che parlare di “maturità” di una Chiesa, basandosi sulla forza dei numeri o sul tempo in cui la chiesa è stata presente su un territorio non ha molto significato. Come si valuta la maturità? Spesso, una Chiesa “giovane” genera persone che sono pronte a morire per mostrare la loro fedeltà a Cristo. Abbiamo l’esempio dei Martiri d’Uganda, e molti altri. Giustamente alcuni africani non accettano che le loro chiese siano denominate “giovani” perché può dare l’idea di immaturità e di dipendenza. Oppure lo stesso aggettivo, anche se inteso in senso positivo di vitalità e di forza, può diventare un vuoto luogo comune, che si riferisce solo a danze e ululati tollerati durante le cerimonie liturgiche come si tollerano gli schiamazzi degli adolescenti.
Di recente ho sentito un missionario paragonare i leader cristiani africani a un neo-patentato che incomincia a guidare l’automobile: si concentra più sulla gestione dei comandi – come cambiare marcia, come controllare l’auto in curva, quanta forza usare premendo sui freni – che a scegliera la strada e arrivare alla meta. Con questo paragone, il vecchio missionario voleva bonariamente giustificare la mancanza di programmazione pastorale e di visione del suo vescovo africano. Ma alcuni amici africani presenti erano piuttosto infastiditi dal paragone!
Accesi dibattiti sorgono anche quando si vuol valutare se l’importanza numerica della Chiesa africana sia adeguatamente rappresentata agli alti livello della gerarchia cattolica. Prima dell’ultimo concistoro, tenutosi il 18 febbraio 2012, un sito web africano, ha pubblicato un commento molto amaro sulla mancanza di africani fra le nuove nomine. Sicuramente, a parere di chi scriveva, non vi è carenza di africani che meritano la berretta cardinalizia. L’autore esprimeva anche il suo disappunto per il fatto che, sempre secondo lui, nell’ultimo conclave il cardinale africano Francis Arinze non sarebbe stato eletto papa, come tutti si aspettavano, solo per ragioni di pregiusdizi anti-africani… Il chiaro sottinteso era: “Ci meritiamo posizioni importanti a Roma, perché siamo in molti! Ora è il nostro turno! “. Aspettative sbagliate? Troppa fiducia nella forza dei numeri? Non sono stati nominati cardinali africani perché i posti disponibili erano pochi o perché l’episcopato africano non ha molti leaders di grande livello? Tutte queste domande sono inutili. Se pensiamo che avere un papa africano sia un diritto di riparazione alle discriminazioni subite in passato, o guardiamo con orgoglio al numero dei cardinali africani che lavorano in Vaticano e pensiamo che il loro numero dovrebbe aumentare, entriamo in una logica di potere che certamente non è quella del Vangelo e che non aiuta la chiesa a spogliarsi della metalità eurocentrica. Continuiamo a ragionare con paramentri sbagliati.

Costruire un’identità africana

In “La Terza Chiesa alle Porte, un’analisi del presente e del futuro ecclesiale”, pubblicato nel 1976, Walter Bühlmann, un cappuccino svizzero che ha insegnato a Roma negli anni effervescenti dopo il Concilio Vaticano II, metteva insieme le sue riflessioni sulla crescente importanza di quella che allora era ancora popolarmente chiamata “Chiesa missionaria.” Per la prima volta, un eminente studioso occidentale (gli africani avevano già cominciato venti anni prima) sistematizzava in un quadro teologico, le nuove tendenze e le aspirazioni che già emergevano dal “Terzo Mondo” e in particolare dall’Africa, e acutamente inventò il termine “Terza Chiesa”. “Terzo Mondo” era già in uso comune e non aveva la connotazione negativa che prese più tardi, e certamente Bühlmann usò “terza chiesa” in modo positivo. Il suo era un testo pieno di speranza, con le braccia tese verso la terza chiesa, e pronto ad accettare i cambiamenti che le comunità cristiane emergenti avrebbero potuto portare alla Chiesa universale.
Bühlmann aveva ragione: il suo approccio è ancora valido. I numeri non dovrebbe essere visti come potere, ma la Chiesa africana deve vederli come un segno della sua responsabilità a scoprire e svolgere la sua chiamata all’interno della Chiesa universale, e per rafforzare la sua determinazione a seguire il Vangelo di Gesù. Per tutta la Chiesa cattolica, il crescente numero di cristiani africani è una fonte di gioia e un incentivo a far loro spazio nell’assemblea, in uno spirito di fratellanza e nel riconoscimento delle diverse lingue e culture che possono esprimere la fede comune. La Chiesa africana ha il suo giusto posto nella Chiesa universale, non per la forza dei numeri, ma in forza della sua fedeltà a Cristo, in forza dei doni che porta nella comunione universale. Lo Spirito di Dio crea sempre cose nuove in mezzo a noi, e dobbiamo aprirci a Lui.
La Chiesa africana deve fare un bilancio dei suoi successi – soprattutto di quelli recenti, avvenuti dopo gli anni delle indipendenze, con alla guida dei Pastori africani – e andare avanti, costruendo la propria identità. L’inculturazione, la giustizia sociale, la partecipazione dei laici nella vita della Chiesa, sono solo alcune delle linee di identità che sono emerse durante i due Sinodi africani, nel 1994 e nel 2009. Sono questi i doni che la Chiesa africana può portare alla comunità cattolica in tutto il mondo.
I numeri non sono la cosa più importante. Gesù parlava di sale, di lievito, di piccolo gregge. “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”. (Lc 12,32). Nella chiesa l’unico titolo di merito dovrebbe essere la fedeltà al Vangelo.

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