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Life

Montagne Nuba, la pace elusiva – Nuba Mountains, the elusive peace.

Oggi avrei dovuto essere sui Monti Nuba. Non son riuscito ad andarci per cause varie, non ultime la stanchezza e l’incertezza della situazione. La guerra purtroppo è ripresa agli inizi dello scorso giugno. Il governo di Khartoum ha tentato di controllare militarmente Kadugli, la capitale, adducendo come scusa la confusione post-elettorale, e ha cercato di arrestare il leader Abdel Aziz Al Hilu, membro del Sudan People’s Liberation Movement-North (SPLM-N), fino a pochi giorni prima vice-governatore e si era presentato alle elezioni per la carica di governatore. I Nuba hanno reagito a questa prevaricazione, e sono seguiti giorni di battaglie e atrocità. Ci sono immagini satellitari che mostrano fosse comuni. Poi le posizioni si sono attestate, con Abdel Aziz che controlla un territorio leggermente più esteso che non quello che controllava nel gennaio del 2002, quando venne firmato il cessate il fuoco. e i governativi che bombardano Kauda, Gidel, Teberi, Kerker, Sarbule, i posti dove Koinonia ed Amani hanno portato avanti progetti educativi sin dalla prima nostra presenza, nel 1995, fino all’ottobre del 2009, quando abbiamo consegnato le tre scuole alle autorità locali. Ho fatto una settimana in quell’area in marzo di quest’anno ed avevo notato con piacere che nonostante non avessimo più garantito fondi le scuole ancora funzionavano e sopratutto che ovunque andassimo c’erano maestri e direttori di scuole provenienti dal ciclo di formazione che avevamo avviato.
Se fossi andato adesso a Kauda, bombardamenti a parte, avrei potuto trovarmi a dover camminare per qualche decina di chilometri al giorno, dato che auto e ancor più carburante scarseggiano. Dieci anni fa la facevo. Adesso non son più in allenamento ed ho dieci anni di più…
Ora i Nuba riappaiono a Nairobi. Ieri è venuto a trovarmi un uomo che avevamo impiegato come logistico alla fine degli anni novanta. Dopo la pace era andato a Khartoum ed aveva un posto abbastanza importante in un ministero. Il mese scorso si è fatto precedere da moglie e figli al Cairo, poi lui ha chiesto il permesso di andarci per ragioni di salute, e tutti poi hanno preso l’aereo per Nairobi. Adesso sta organizzandosi per andare a Juba, dove spera di trovar lavoro. Anche i pochi studenti Nuba che sono a Nairobi stanno aspettando l’evolversi della situazione per decidere se rientrare a casa – clandestinamente, perché non c’è altra scelta – o andare a Juba, dove potrebbero almeno ottenere il passaporto Sud Sudanese, senza rischiare di restare apolidi per il resto della loro vita.
Quali le cause di questa nuova fase? Sono le stesse dalle guerra civile fra Sud e Nord, durata dal 1983 al 2005. Profonde ingiustizie e discriminazioni sociali, politiche, culturali, con anche una dimensione religiosa, che il trattato di pace non ha risolto, ha solo cercato di ignorare.
Tanti speravano, ma era un speranza ingenua, che dopo la divisone avvenuta lo scorso luglio – Sudan con capitale Khartoum e Sud Sudan con capitale Juba – si sarebbe avviata una fase di normalizzazione e ricostruzione. A soli due mesi dall’indipendenza il Sud Sudan è lacerato da lotte intestine gravissime. Sono i colpi di coda di una eredità di sopraffazione, violenza e tribalismo che sta per scompare, o è solo l’inizio di una nuova frammentazione? Nessuno lo può dire, molto certamente dipende dalle capacità dei leaders. In Sudan sono rimasti attivi i grandi focolai di violenza del Darfur e di Abyei, in giugno si sono aggiunti i Monti Nuba (che molti chiamano col nome ufficiale di South Kordofan) e l’altro ieri il governo di Khartoum ne ha avviato un’altro, attaccando la casa del governatore eletto Malik Aggar (altra mia vecchia conoscenza) e scatenando una reazione che poterà inevitabilmente ad altre violenze.
Potrà Omer Hassan al-Bashir, al potere a Khartoum dal 1989, mantenere il controllo di un paese che dopo aver perso il Sud adesso si sta dividendo su basi regionali? Fra i possibili scenari ci sono la discesa sia del Sudan che del Sud Sudan in una spirale di violenza e di illegalità che li farà diventare un’altra Somalia, o la speranza che in Sudan le opposizioni comincino a lavorare unite e diano la spallata finale al governo di Bashir, portando al potere un governo democratico, che a sua volta potrebbe favorevolmente influire sulla stabilizzazione anche del Sud Sudan. Insomma un’altra fase della primavera araba, con tutte le incertezze ma anche con tutte le speranze che la caratterizzano.
Intanto la comunità Nuba a Nairobi torna ad espandersi. Mentre scrivevo questa nota mi ha chiamato una delle vedove di Yusuf Kuwa, il leader Nuba morto 10 anni fa. Anche lei si è rifugiata a Nairobi, in cerca di quella pace che per i Nuba sembra un sogno impossibile.

Parole per l’Anima

Alla fine di giugno mi ero riproposto di scrivere qualcosa su questo blog almeno una volta alla settimana. Poi la tragedia avvenuta a Marina di Ravenna il 2 luglio mi ha fatto capire una volta ancora quanto le parole siano insufficienti. D’altra parte non volevo tornare a scrivere senza nominare George e Marco. Adesso ne trovo la forza riproponendovi una colonna che Pietro Veronese ha pubblicato sul Venerdì di Repubblica.

A MARCO, LA CUI MORTE HA RISCATTATO ANCHE NOI
Il 2 luglio è mancato a Marina di Ravenna il giovane Marco Colombaioni, di 28 anni.
Marco è morto in mare nel tentativo di aiutare alcuni ragazzi africani che si erano trovati in pericolo facendo il bagno. Quattro ne ha salvati, è perito insieme al quinto, il quindicenne George Munya.
Era caro agli dèi questo giovane artista brillantemente diplomato a Brera, volontario in Africa per l’associazione Amani, che molti, celebrandolo, hanno chiamato eroe. Un figlio di quella “Milano perfetta fatta di associazionismo, arte, attività culturale, cooperazione internazionale”, per usare le parole con le quali è stato commemorato in Consiglio Comunale a Palazzo Marino.
A me, più per come ha troppo brevemente vissuto, piacerà ricordare Marco Colombaioni per come è morto. Soccorrendo vite africane in quello stesso mare di indifferenza e di egoismo che è diventato il Mediterraneo. Certamente i suoi giovani amici non erano migranti, non stavano cercando di raggiungere le sponde italiane, anzi se ne erano allontanati per gioco. Ma ai miei occhi il suo sacrificio riscatta tutti quegli annegati, tutte quelle anime che abbiamo lasciato andare a fondo mentre venivano verso di noi attraverso le onde, dalle coste dell’Africa. Marco è stato solidale fino all’estremo, anche per noi, che non lo siamo stati abbastanza. Come quella di Cristo, la sua è stata una morte da redentore. (da Il Venerdì di Repubblica, 15 luglio 2011)

Dopo qualche giorno abbiamo celebrato il funerale e messo a riposare le spoglie di George, in un paesino ai piedi del Kilimanjaro, un paesaggio che come pochi dà il senso della bellezza e dell’eternità. Tornato a Kivuli, ho rivisitato con gli altri ragazzi che erano in acqua al momento della tragedia ciò che era successo. Ho scoperto che anche George è perito per aver pensato agli altri prima che a se stesso. Quando si è accorto di quell’onda pericolosa che lo avrebbe portato via ha incitato agli altri ad andare verso riva, trascinandone alcuni per qualche metro e indicando loro di andare verso Marco.
Marco e George sono una presenza viva e gioiosa, non dimenticheremo mai il loro esempio.

Pietro Veronese ha poi scritto un’altra colonna su un ragazzo di Koinonia.

IL GIOVANE JACK, ELETTO PADRE DAI BAMBINI DELLO SLUM
Non so dire se gli angeli esistano in un mondo ultraterreno, ma talvolta se ne incontra uno che si aggira in mezzo agli uomini. Tale mi è apparso Jack Matika, un ragazzo che a Nairobi accoglie e cura i bambini di strada di Kibera, lo slum più grande della capitale del Kenya e uno dei più estesi dell’Africa.
Spesso ad assumersi questo compito sono ex bambini di strada, che una volta diventati adulti si sentono chiamati a farsi carico dei loro più piccoli compagni di sventura. Ma la storia di Jack è particolare. Lui una famiglia ce l’aveva, sia pure poverissima; ed una modesta casa sulla Kabiria Road, in uno dei sobborghi popolari della città. Appena diplomato, giovanissimo insegnante, sono stati gli “street children” ospitati in una casa d’accoglienza ad invitarlo, e da allora Jack non se n’è più andato. E’ stato insomma lui ad essere adottato dai bambini di strada e non il contrario. Gli hanno addirittura pagato un ulteriore biennio di studi perché diventasse assistente sociale titolato.
Adesso Jack è l’anima di un centro di prima accoglienza che si chiama Ndugu Mdogo, “piccolo fratello”. Dicono che abbia un’energia inesauribile e sia benvoluto da tutti. La polizia gli affida i ragazzi che trova in strada; i capi musulmani di Kibera lo proteggono. Quando lo sono andato a trovare insieme ai suoi bambini, Jack, che potrebbe essere mio figlio, ha adottato anche me. (da Il Venerdì di Repubblica, 12 agosto 2011)

George, in una scenetta con Francis, nel maggio 2010 a Rimini, in una foto di Francesco Cavalli.

Giornata del Bambino Africano

L’altro ieri, 16 giugno, i giovani delle nostre case hanno partecipato alla Giornata del Bambino Africano, da protagonisti. A Ongata Rongai le bambine della Casa di Anita e i bambini di Ndugu Mdogo Home e Tone la Maji. A Kibera quelli di Kivuli, Kvuli Ndogo e Ndugu Ndogo Rescue.
Non sono mai stato un fanatico delle “giornate del …”, ma questa in Africa è sempre più sentita, ed è un’occasione per organizzare incontri di preparazione che possono incidere più della celebrazione pubblica in se stessa, specialmente per noi, che lavoriamo in stretta unione con le famiglie estese di provenienza dei bambini. Quest’anno il tema era proprio “i bambini di strada”.
Il 16 giugno è stata proclamata giornata del bambino africano nel 1991, dall’Organizzazione dell’Unità Africana, per ricordare che in quel giorno del 1976 quasi diecimila ragazzini di Soweto, in Sudanfrica, scesero in strada per protestare contro il razzismo, l’”apartheid”, praticato in quel paese. La polizia sparò su di loro, e, in due settimane scontri, oltre cento bambini e ragazzini furono uccisi. Io allora stavo studiando inglese a Los Angeles, nella parrocchia nera di Watts, e ricordo l’incredulità mia, ma anche la rassegnazione dei nostri parrocchiani a che un fatto simile potesse succedere, ed essere fra le notizie minori, subito eliminate dalle prime pagine. Oggi negli USA c’é un presidente “nero” – che non sta facendo meglio ma neanche molto peggio dei suoi ultimi predecessori – e in Sudafrica la generazione dei bambini he furono uccisi è al potere – anche loro con risultati non esaltanti.
Ma nonostante tutte le delusioni i bambini ci stimolano a sperare in un futuro migliore.
Vi metto qui sotto qualche foto presa a Kibera. Prima i bambini di Ndugu Mdogo che aprono la marcia, poi Andrew che fa il discorso ufficiale, e perfino il piccolo Junior, in strada fino a due mesi fa, che ha preso parola ad ha concionato la folla come se non avesse fatto altro nei suoi meno di sei anni di vita.

Iniziative per l’Estate

In luglio, agosto e settembre Koinonia organizza a Nairobi e a Lusaka i campi di lavoro di Amani, de La Goccia e di altri gruppi che ci hanno contattato, scouts e parrocchie.
Ci saranno poi due iniziative nuove e molto interessanti. Una Summer School organizzata dall’Università Cattolica, con residenza in Shalom House e la collaborazione di alcuni nostri operatori video, e un campo di studio sulla pace, organizzato insieme ad Amani, Mani Tese, Tavola della Pace.
Metto qui sotto i pieghevoli delle due iniziative, e invito eventuali interessati a contattare direttamente le persone indicate.

pieghevole ASAG Summer School Nairobi

campopace

San Daniele Comboni

1) Qual è stata, secondo lei, la grande novità che Comboni ha introdotto nel modo di fare missione e di guardare agli altri?

Personalmente non vedo San Daniele Comboni come un grande innovatore delle metodologie missionarie. Le idee che ha proposto e che ha cercato di mettere in pratica sono sostanzialmente quelle degli altri grandi missionari dello stesso periodo storico. E lui leggeva molto e mutuava di quanto si scriveva soprattutto nel mondo missionario francese. Ha messo l’accento su alcuni aspetti, come il salvare l’Africa con l’Africa, l’importanza della donna, delle suore, come protagoniste della missione, ma mi pare che in questo fosse nel solco dei grandi missionari suoi contemporanei, come il fondatore della Società delle Missioni Africane di Lione, Melchior de Marion Bresillac, il quale già diceva ai suoi missionari di procedere immediatamente alla preparazione di un clero locale, cosi che dopo pochi anni non sarebbe più stato necessario mandare missionari… Per non parlare di San Justino de Jacobis, che diversi anni prima del Comboni aveva una visione modernissima della missione. Spesso, nel Comboni come negli altri missionari del tempo, più che di metodologie, si trattava di visoni necessarie a tener viva la speranza di fronte alle orrende difficoltà fisiche che la missione in Africa comportava a quei tempi. Basta visitare il cimitero dei missionari Spiritani a Point Noire, oggi Congo Brazzaville, dove sono sepolti decine di missionari, padri e suore, che morirono neanche o poco più che trentenni, dopo pochi mesi o pochissimi anni dal loro arrivo in Africa, per rendersi conto di quanto fosse difficile, eroica, la missione di allora. C’era bisogno di grandi visioni per poter andare avanti, credendo fermamente che il fallimento e la croce sono solo un passaggio per arrivare alla risurrezione. In questo contesto Comboni sogna la salvezza dell’Africa con L’Africa, vede “la perla nera”, la chiesa africana come una splendida realtà. Ma non si può parlare di metodologia. Anche il suo Piano per la rigenerazione dell’Africa del 1864 è una visione, una grande visione.
Ma questo non inficia minimamente la grandezza e la santità di Daniele Comboni, perché non stanno nei nuovi metodi missionari che avrebbe introdotto, ma, evangelicamente, nel sua smisurato amore per le persone Africane. Un amore che lo ha portato a spendere la vita completamente al loro servizio, fino alla morte. L’ultimo anno della sua vita è stato tutto un confronto con la morte. Sapeva di essere alla fine, ma non si è mai fermato, non ha mai smesso di dedicare tutto il suo tempo al servizio della gente che amava. Nessuno degli altri grandi fondatori degli istituti missionari dell’ottocento è morto in Africa. Lui ci è morto perché di fronte al fallimento dei suoi “metodi”, all’incomprensione e difficoltà, alle malattie che decimavano i missionari e anche le sue forze, non si è mai arreso. Il suo amore per le persone africane non si è mai fermato di fronte a niente, neanche alla morte. Questa per me è il motivo della sua santità. Insisto ad usare “le persone africane”, e non l'”Africa”, Il grande missionario protestante Davide Livingstone, per esempio, è morto in Africa, ma Livingstone amava l’Africa anche per i suoi aspetti geografici e la maestosa bellezza che si incontra ad ogni passo in questo continente. Cosi è morto in una palude vicino al lago Bangwelo, in quella che oggi è la Zambia, mentre cercava le sorgenti del Nilo, e voleva coronare la sua attività di esploratore. Questo per il Comboni sarebbe stato inconcepibile. Per lui lo scopo delle sua vita, l’amore che lo muoveva, era la gente, perché la gente potesse conoscere Gesù e il Vangelo. Anche se la sua visione della gente e delle cultura e delle religioni dall’Africa era quella sostanzialmente negativa che tutti avevano in quel tempo. Ma l’amore, e nel caso del Comboni, un amore testardo a invincibile, superava anche questi aspetti limitati dalla cultura del tempo. In sintesi per me il Comboni è un grandissimo santo perché ha dedicato la sua vita a Dio e al suo prossimo, in particolare le genti d’Africa, donandosi a loro fino alla morte. Non c’è amore più grande che dare la vita.

2) Comboni nel suo stile di vita e nei suoi Scritti è stato una profeta della vita missionaria. Che incidenza ha avuto questo fatto nella sua vita personale?

Ho pensato spesso al Comboni nei momenti delle scelte più difficili della mia vita. E l’ho preso come modello di amore per la gente. Comboni amava l’istituto di cui faceva parte, quello di don Nicola Mazza, ma quando si è trattato di scegliere fra l’Istituto e le genti d’Africa dalle quali si sentiva chiamato, ha scelto quest’ultime. Non si è mai scoraggiato, se non per momenti, di fronte alle difficoltà fisiche e morali, ai tradimenti delle persone alla quali aveva dato fiducia e sostegno. Quando si sentiva sicuro di aver fatto una scelta motivata dal desiderio di servizio, andava avanti fino alla fine. Io non ho avuto difficoltà neanche lontanamente paragonabili alle sue, ma certamente quando mi son trovato di fronte alla mie relativamente piccole difficoltà anche la sua testimonianza e la sue presenza, mi hanno aiutato a seguire a continuare il cammino portando le mie piccole croci.

3) Comboni è sempre stato al fianco dei più deboli, povero tra i poveri. Come pensa di aver vissuto questa caratteristica nel suo essere missionario?

Non dobbiamo esagerare con la retorica del povero tra i poveri. Comboni prendeva tutte le precauzioni necessarie per evitare le malattie. e voleva che lo stile di vita dei missionari – cibo a cure mediche – non ne minasse il lavoro. Soprattutto a qui tempi, l’Africa obbligava fin troppo spesso a vivere in situazioni difficili, che non era necessario andare a cercarsele! Basti pensare che i primi suoi missionari, subito dopo la sua morte, sono passati attraverso l’esperienza della schiavitù. Ma non se la sono certo cercata, l’hanno accettata come inevitabile conseguenza di essere rimasti con la gente.
Non riusciremo mai a condividere radicalmente la povertà della gente, alle fin dei conti restiamo sempre dei ricchi. Se ci ammaliamo seriamente magari alcuni di noi vorrebbero anche andare a farci curare nel dispensario o nell’ospedale locale, ma i superiori, giustamente, lo obbligherebbero a rientra in Europa. E questo ci pone nell’impossibilità di essere radicalmente poveri come lo è la maggioranza della nostra gente. La nostra povertà è quella del cuore, di restare in comunione di destino con la gente anche nei momenti più difficile. In questo abbiamo avuto anche dopo il Comboni una serie di missionari, per lo più dimenticati, che ci hanno dato esempi chiarissimi. Quando penso alla povertà io penso alla tomba di un fratello comboniano, Remigio Zappella, che ho visto a Tonga, sul Nilo, un posto che ancora oggi è invivibile per le mosche di giorno, le zanzare di notte, il caldo, l’umidità. Questo comboniano ci h vissuto all’inizio del secolo scorso per quasi trent’anni, interrotti solo da un viaggio in Italia di un anno. E ci è morto, e di lui non sappiamo quasi niente, non ha fatto scelte clamorose. E’ semplicemente restato a servire un popolo, gli Shilluk che non ha cominciato ad accettare il cristianesimo se non dopo due decenni dalla sua morte.

4) Cosa significa oggi “Salvare l’Africa con l’Africa”?

Significa sempre credere nelle potenzialità dell’Africa. Significa essere presenti in spirito di attenzione e servizio per lasciare che gli altri crescano, significa annunciare il Vangelo e lasciare che gli africani lo vivano integralmente ma anche in modo genuinamente africano, senza voler sempre inscatolare tutto e tutti nei nostri schemi.

Easter – Pasqua

Oggi celebrerò la Pasqua a Tone la Maji con tutti i ragazzi e ragazze delle case di Nairobi.
Ieri sera invece i residenti di ogni casa, di ogni famiglia, sono andati a celebrare la Resurrezione nella parrocchia più vicina, a parte i ragazzi di Kivuli, che hanno celebrato in casa, con me.
E’ stata una celebrazione “intima” rispetto ad altri anni: solo i nostri ragazzi – anche quelli non cattolici e i musulmani sono stati liberi di partecipare, come al solito, e nessuno è mancato – e alcuni pochi amici che vivono vicini a Kivuli.

Al momento delle preghiere dei fedeli, molti si sono ricordati di essere stati battezzati in parrocchia negli anni precedenti durante la Veglia Pasquale, ed hanno pregato per i nuovi cristiani che in tutto il mondo in questa notte hanno finito il cammino catecumenale e sono entrati a far parte della Chiesa. In Kenya questa notte qualche decina di migliaia di cristiani adulti si sono aggiunti alla chiesa. Con parole semplici un ragazzo di Kivuli ha pregato “per la grande famiglia dei discepoli di Gesù, dove anche chi non ha una casa é amato dagli altri”. Un altro ha detto semplicemente “Signore, fa che tutti i cristiani diano il benvenuto a tutti coloro che entrano nella chiesa questa notte”.

Il dare il benvenuto, l’accogliere, é uno degli atteggiamenti fondamentali di un cristiano. Incomincia come sempre dalle piccole cose. Dall’ andare a stringere la mano allo straniero che vediamo arrivare con sguardo sperduto alla Massa domenicale nella nostra parrocchia, a ascoltare chi ha bisogno di sfogarsi, a organizzare interventi umanitari per il sostegno ai migranti e rifugiati.
Ho imparato in Zambia. Tutti i partecipanti alla preghiera domenicale – a volte è solo una preghiera perché il prete per la celebrazione eucaristica non c’è – si conoscono, si salutano all’entrata scambiandosi parole di benvenuto e qualche notizia sulla famiglia, e se ci sono di volti nuovi li si avvicina, li si saluta, ci si informa sulla provenienza, e poi al momento degli annunci, dopo la comunione, li si presenta a tutti. Ognuno si deve sentirsi benvenuto, senza forzature. Uscendo dalla chiesa i nuovi arrivati saranno avvicinati da tutti che li saluteranno con loro nome.

Nel Vangelo abbiamo una lunga lista di atteggiamenti diversi di fronte a Gesù. Maria e Giuseppe lo hanno accolto con amore incondizionato, ma poi fin dalla nascita altri lo hanno rifiutato. Lui invece ha sempre accolto chiunque lo abbia cercato. Le prime comunità cristiane descritte negli Atti degli Apostoli ci raccontano di fratelli e sorelle che si ritrovano in un clima di accettazione e di affetto, qualunque fosse la loro origine. L’idea di dare il benvenuto non solo ai fratelli nella fede, ma a tutti, pervade il Nuovo Testamento. I due discepoli che vanno ad Emmaus scoprono che lo straniero non è altri che il Risorto, ma non se ne sarebbero accorti se non lo avessero ricevuto nella loro casa. San Paolo ci ricorda che il dare il benvenuto allo straniero é un dovere da non dimenticare mai.

Noi diamo il benvenuto e abbracciamo gli altri perché sappiamo che Cristo ci ha dato il benvenuto senza nessun nostro merito. Chi é accolto deve capire che che amiamo lui o lei, con i suoi doni, i suoi problemi e le sue necessità, non stiamo mettendo in pratica un comandamento, non stiamo neanche facendo un calcolo economico. E’ vero per esempio che le proiezioni statistiche e il più elementare buon senso ci dicono che senza gli immigrati l’Europa morirebbe di vecchiaia entro una generazione. Ma i cristiani li accolgono in primo luogo perché sono persone umane, non perché sono una risorsa economica..

Benvenuti quindi a braccia e cuore aperto ai nostri fratelli e sorelle che la notte scorsa sono venuti a rendere più forte la nostra fede. In stragrande maggioranza sono Africani e Asiatici, in stragrande maggioranza sono poveri. La Chiesa per fortuna non é legata dalle pastoie dei confini, dei passaporti, dei permessi di soggiorno. Qui nessuno è straniero. Chi non ci è fratello nella comune fede, lo é nella comune figliolanza da Dio.

Buona Pasqua.

La Croce – The Cross

Venerdì Santo. Dio che soffre nella nostra carne, ma anche nel nostro debole spirito, che teme il rifiuto, l’abbandono degli amici e del Padre. Che teme la croce, più che per il dolore fisico, per il disprezzo morale che comporta.
Quando la croce non è presente nella nostra vita, magari ci illudiamo che quando la porteremo, perché la dimensione croce entra prima o poi nella vita di tutti, saremo sicuri di ciò che faremo, che la porteremo, magari piangendo, ma con la nostra dignità intatta, le convinzioni interiori granitiche. Saliremo la montagna guardano verso l’alto, verso l’infinito
Poi il momento viene. La croce magari è più piccola di quanto ti aspettassi, ma sei sul fondovalle, non vedi dove stai andando, hai perso la strada. Quanto manca alla meta? Non ne hai idea, e la stanchezza fisica ti impedisce di ragionare. Ti vien voglia, e ti sembra possibile, di abbandonare tutto e di andartene via. Ma sei intrappolato in un’impresa insensata. Poi, chissà come, chissà da dove ti viene la forza, riesci a rialzarti e rimetterti in cammino. E i dubbi riprendono: sarà la direzione giusta? Ma devo proprio portare tutto questo peso? Ma perché non mi crocifiggono subito risparmiandomi tutta questa strada?
Se, nel più profondo non credessi nella comunione con Lui che ha sofferto sulla croce, tutto ti sembrerebbe inutile e sprecato. Invece sai che tutto in Lui diventerà Luce, Pienezza, Felicità.

KOINONIA: SELF-PORTRAITS BY NAIROBI STREET CHILDREN

Oggi a Nairobi, alla ore 14, nelle sede del British High Commission (cioè l’Ambasciata delle Gran Bretagna in Kenya) ci sarà la presentazione del libro KOINONIA: SELF-PORTRAITS BY NAIROBI STREET CHILDREN di David Fullford, un giovane artista inglese già molto noto. Il libro è già stato presentato a Londra e a New York.
Trovate tutto nel sito
http://portraitsofnairobi.wordpress.com/

Commentare è Difficile

La cronaca politica – o criminale? – italiana che mi capita di leggere sembra quella di un paese che non conosco, o non conosco più. Si resta indignati, ma poi? Poi, quando si va a votare, certi personaggi, come Speroni e Castelli – lecchese, ahimè – vengono rieletti. Allora davvero è un paese ch non riconosco più. Non ho parole. Ho letto molti commenti alle parole di Speroni e di Castelli, Quello dei cristiani di Busto Arsizio che allego é forse un po retorico. Ma bisogna riconoscere che è difficile commentare idiozie criminali come quelle che dicono quei due.
Lettera ai cristiani di Busto della Comunità Cristiana di base – 14.04.2011-1

Il Perdono

Nella scuola superiore dove ogni tanto mi chiamano per parlare agli studenti e celebrare una Messa ho notato che i ragazzi non hanno idea di che cosa sia la confessione. Allora organizzo una catechesi di un paio d’ore. Incomincio chiedendo quali sono secondo loro i valori che Gesù ci ha insegnato. Ne fanno un elenco completo e molto partecipato, si sente che molti di loro hanno capito il messaggio del Vangelo: amore per il prossimo, pace, giustizia, perdono, misericordia, verità, servizio, …. Devo interromperli perché non diventi troppo lungo. Ma l’intervento più inaspettato è quello di Joseph, un sedicenne che frequenta la prima superiore. Joseph, probabilmente per una poliomielite, ha una gamba molto debole, che a volte cede, e quindi si aiuta con una stampella. E’ sempre allegro, e prende sportivamente il fatto che ogni tanto ha bisogno dell’aiuto dei suoi compagni di classe per muoversi e per non cadere. Si fida anche molto di loro, e c’è sempre qualcuno pronto a sostenerlo.
Mentre facevamo l’elenco, subito dopo che uno studente ha detto che il valore più importante è l’amore per Dio e per il prossimo, Joseph alza la mano e, prima ancora di aver ricevuto il permesso di parlare (inusuale, perché un Africa anche i giovani danno molta importanza alla parola e rispettano il diritto degli altri a parlare, osservando semplici regole di dialogo, insomma non si comportano come nei dibattiti televisivi in Italia) dice “la gioa!”. Gli chiedo perché. Mi risponde senza esitazione che un cristiano é sempre contento perché il Signore è risorto, è vivo, ci è vicino. Mi colpisce una risposta cosi profonda e esposta in un modo molto sentito, e la sottolineo perché tutti la capiscano. Poi continuiamo con l’elenco e con la catechesi. Le loro sollecitazioni fanno emergere come la confessione, oltre a donarci il perdono di Dio, sia importante per mantenerci in pace con gli altri, e per continuare a camminare nella direzione giusta. I Masai, dice uno di loro, sanno dove andare a cercare pascoli sufficienti per le loro mandrie anche durate la stagione secca. Se sbagliano direzione mettono a repentaglio la vita degli animali e la loro stessa a vita. Anche noi dobbiamo verificare continuamente dove stiamo andando. Ci stiamo muovendo nel solco della parola di Gesù o nel perseguimento dei valori del mondo?

Dopo una settimana sono in confessionale, cioè in sala professori. Esce un penitente e ne entrano due, uno dei quali è Joseph. Penso mi vogliono avvertire dire che mi stanno aspettando per la Messa. No. Si siedono entrambi sulla panca di fronte a me, e Joseph dice “ci vogliamo confessare insieme perché ci eravamo antipatici, ci facevamo dispetti, a volte dispetti veramente cattivi, ma abbiamo capito che era una cosa sbagliata e per di più anche stupida”, poi prima che mi riesca di dire qualcosa ognuno dei due fa una confessione sincera e completa, di fronte all’altro. Una confessione da ragazzi di quell’età, ma molto onesta , personalizzata, sentita. Do penitenza e assoluzione individuale mentre fra di me cerco di analizzare la stranezza di questa confessione “pubblica” e se ci sia qualcosa che ne infici la validità. Ma sono entrambi evidentemente liberi e contenti di aver fatto pace. Successivamente mi viene un dubbio, parlo loro dopo la Messa, e capisco che nessuno dei due è cattolico, appartengono a due diverse chiese cristiane, dove la pratica della confessione non esiste. Il perdono però lo sanno praticare.

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Una statistica ufficiale ci ha fatto sapere, se ne avessimo avuto bisogno, che il costo del cibo nei mercatini di Nairobi dove si vendono le cose di uso quotidiano è cresciuto del 50 per cento in un anno. Uova, carne, ma anche patate, cavoli, carote, cipolle, sukuma wiki, tutto è vertiginosamente aumentato. Invece i salari sono rimasti gli stessi. Eppure lo stesso ufficio di statistica poche settimane fa annunciava solennemente che l’economia del Kenya negli ultimi due anni ha registrato una crescita di quasi il 7 per cento annuo. Ma chi ne beneficia?

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