Lo scorso fine settimana, a Mthunzi abbiamo avuto ospiti un centinaio di adulti di gruppi carismatici della nostra zona di Lusaka. Si sono sistemati un po’ nelle stanze che abbiamo a disposizione per gli ospiti, un po’ nel workshop, un po’ nella biblioteca. Letti? Non se ne parla neanche. In Zambia, anche nelle capitale, in queste situazioni sono ancora abituati a portarsi in spalla, anche sui mezzi pubblici, una stuoia arrotolata che poi stendono sul pavimento e fa da giaciglio, mentre la borsa o sacca con le altre cose viene usata a mo’ di cuscino. Mi hanno chiesto di celebrare per loro e l’ho fatto molto volentieri, pero’ siccome ne avevo sentiti parecchi che durante la notte si erano messi a pregare, anzi a urlare, in lingue, li ho pregati di controllarsi, perche’ avevo un’ altra Messa nella frazione della parrocchia poco lontano da noi. E’ stata una celebrazione molto partecipata e con canti molto belli.
Poco dopo, nelle chiesetta di Tubalange, erano di turno le “stelle†(cosi qui chiamano i chierichetti femmine, per intenderci) ad animare la Messa. Scatenate, sono entrate per la processione iniziale, e solo dopo mi son reso conto che le magliette bianchissime, che sembravano nuove, avevano la pubblicita’ di una concessionaria d’auto di Figino Serenza, che per chi non lo sapesse e’ un paese delle Lombardia. Gli amici di Figino Serenza che potrebbero averle portate son passati di qui almeno 3, forse 4, anni fa. Come queste magliette siano ancora nuove e’ un mistero che non sono riuscito a chiarire.
Ma, sono parziale, lo so, le celebrazioni sono veramente speciali quando sono con i ragazzi di Mthunzi. Bisogna essere presenti –foto e video e registrazioni non bastano – per lasciarsi permeare dalla gioia del loro canto. In questi giorni di Pasqua poi, nei momenti dopo la Comunione il canto, la danza, le parole e il corpo diventano un’unica cosa. Io, goffo e stonato, li guardo, e mi pare che alcuni non tocchino neanche piu’ terra. E’ un’esperienza spirituale solo lasciarsi travolgere dalla forza che emanano. La gioa delle semplicita’ e della gratuita’.
In questi giorni in cui si parla dei risultati e fallimenti del G20, delle prospettive per il G8, di leggi discriminatorie o puramente razziste, chi segue la liturgia si accorge che siamo i depositari, i responsabili, di un messaggio di straodinaria modernita’ e attualita’ politica. Sconvolgente. Rivoluzionario rispetto a tutti gli schemi, a tutte le diplomazie, a tutte le buone volonta’. Il leader e’ colui che lava i piedi degli altri, e che e’ pronto a morire per gli altri, per tutti gli altri. Siamo fratelli, membri della famiglia del Signore della storia.
Forse l’abitudine ne ha spento la carica dirompente. Piu’ probabilmente siamo bloccati dalla la paura del rischio che l’amore sempre comporta.
Ma almeno non lasciamoci ingannare dalle barriere e dai confini tracciati da mano umana, dalle ideologie pensate per signoreggiare, dalle ipocrisie del “noi†e “loroâ€. Appartengono definitivamente al passato. La crisi mondiale che deve ancora arrivare non e’ economica e finanziaria. E’ di civilta’. Per evitarla dobbiamo cambiare attitudine. Potremo entrare in una nuova dimensione di civilta’ quando avremo profondamente accettato che “noi†siamo gli “altriâ€. Paolo VI and Raoul Follereau usavano un’ espressione che rischia pure di essere svuotata dall’abitudine e dal nostro cinismo: “la civilta’ dell’amoreâ€.
A livelli diversi la Banca Mondiale, il fondo Monetario Internazionale, le Nazioni Unite, i govenri nazionali e i nazionalismi, il preoccuparsi solo dei morti di casa e non partecipare mai al dolore degli altri, anche quella cosa che sembra cosi stupidamente innocua come il tifo sportivo nazionale e locale, sono istituzioni e atteggiamenti irremediabilmente superati, che ci impediscono di progredire verso la dimensione del respiro mondiale in cui dobbiamo davvero entrare se vogliamo costruire il futuro. Forse, semplicemente, se vogliamo avere un futuro.
Come mai i ragazzi di Mthunzi, tutti ex-bambini di strada, con i quali sto vivendo questa Pasqua, riescono a capire che l’insegnamento del Vangelo e’ Vita? Il proverbio africano che recita che “l’anziano sa vedere piu’ lontano anche se non sale sull’ albero†e’ sbagliato. La sapienza sgorga da un cuore puro, non dalla lunghezza della vita.
Buona Pasqua, continuiamo a guardare lontano, continuiamo a risorgere.
These days we hear a lot about the results and failures of the G20, the expectations for the G8, the discriminatory or purely racists laws of some European governments, but we, following the liturgy of the Church, can realize that we are the depositary, those responsible, for a message of extraordinary modernity and political relevance. Upsetting. Revolutionary in respect to all scheme, to all diplomacies, to all human efforts. The leader is the one who washes the feet of the others, the one who is ready to die for the others, for all others. We are brothers, members of the family of the Lord of History.
Maybe the habit has removed for us its powerful charge. More probably we do not want to understand because we are afraid of the risk that love always demands.
But at least let us not be deceived by the barriers and boundaries traced by human hands, by the ideologies made up in order to lord over the others, by the hypocrisies of the “Us†and “themâ€. These belong to the past. The world crisis that has still to come is not economic or financial. It is a crisis of civilization. To avoid it we have to change attitude. We could enter a new dimension of civilization only when we will have profoundly interiorized that “we†are “the othersâ€.
Paul VI and Raoul Follereau used an expression that too runs the risk of being emptied by the habit and by our cynicisms: “the civilization of loveâ€.
At different levels the World bank, the International Monetary Fund, the United Nations, the national governments and their nationalistic ideologies, the attitude of worrying only about our local dead and never share the suffering of the others, even things that looks so stupidly innocent like the national and local football fans, are institutions and attitudes definitely old, that hinder our progress towards that dimension of world horizon in which we have to enter if we want to really build up a new future. Or, more simply, if we want to have a future.
How is it that the Mthunzi boys, with whom I share this time of Easter, can so easily understand that the teaching of the Gospel is Life? The African proverb that says that “the elder can see far even without climbing a tree†is wrong. Wisdom springs from a pure heart, not from many years of life.
Happy Easter, let’s look forward, let’s enter in the process of the resurrection.
Bernadetta e’ cieca. Trent’anni fa, quando era una giovani infermiera, non riusciva a liberasi dalla malaria che infesta la sua piccola citta’ sulla riva tanzaniana del lago Vittoria, Musoma, cosi prese dosi sempre crescenti di chinino, col risultato di danneggiare irreparabilmente i nervi ottici. Adesso ha i capelli grigi, e siede paziente con un sorriso sereno sul gradino della porta di quella che era la sua casa, una semplice stanza dai muri di mattoni cotti e un tetto di lamiera. Ma intorno a quello che era l’orto, adesso ci sono altre stanze e si e’ formato un cortile interno, con in un angolo una cappellina, nell’angolo opposto cucina, poco lontano docce e servizi. Tutto pulito, ma essenziale, africano, anzi, francescano. Unico segno di modernita’ e’, sul lato che fronteggia la strada sterrata che attraversa il quartiere, un mulino con un motore elettrico di pochi cavalli che riceve un costante flusso di clienti che vengono a macinare il frumento per la polenta quotidiana. Sulle altre porte si vedono persone con diverse disabilita’, alcune gravissime, e una manciata di bambini in eta’ scolare. In tutto poco piu’ di una ventina di persone.
L’anima di questa piccola comunita’ e’ padre Geofrey Biseko, prete diocesano tanzaniano che ha dedicato la sua vita a dare una famiglia a chi e’ stato rifiutato dalla sua famiglia.
“Nel gennaio del 1988 — racconta padre Biseko — ero un giovane prete. Il vescovo mi aveva chiesto di fare il suo segretario e il promotore vocazionale per la nostra diocesi. Le domeniche celebravo Messa la’ dove magari un missionario o un prete era assente per malattia o per vacanze oltremare. Un sabato ho incontrato un lebbroso che viveva di carita’, ed ho letto nei suoi occhi un appello disperato. Non ho potuto dormire. Mi sentivo chiamato a fare qualcosa, ma non sapevo bene che cosa. La mattina, a Messa, ho detto ai fedeli che dovevamo lasciarci sfidare dalle parole di Gesu’, che il Vangelo doveva entrare davvero nella nostra vita. Parlavo a loro, ma sopratutto a me. Al termine della Messa ho invitato chi si sentiva ispirato a far qualcosa per i piu’ poveri e abbandonati ad incontrarci il sabato successivo. Sono arrivati in dodici. E’ stato il primo di una serie di segni che lentamente mi hanno fatto capire che il servizio ai poveri abbandonati era la mia vocazione. Abbiamo incominciato ad andare a visitare i poveri che vivevano in strada, poi Bernadetta ha messo questo sua casa e terreno a nostra disposizione. Altri hanno cominciato a donarci vestiti smessi e a portarci un po’ di cibo. Nel 1994 il vescovo mi ha esentato da ogni altro incarico e da allora sono qui, con quattro uomini che mi aiutano. Abbiamo aggiunto altre stanzette man mano che ricevevamo qualche donazione, abbiamo imparato a vivere condividendo il poco che gli altri, sopratutto i cristiani del nostro quartiere, condividono con noi. Non ce’ nessuno qui nel nostro quartiere che e’ ricco, ma ci arriva il sufficiente per sopravvivere, piu’ qualche occasionale donazione dall’ estero, come quella che ci e’ servita per acquistare il mulino. Adesso abbiamo anche una casa piu’ grande, a venti kilometri da qui, con un centinaio di ospiti e una quindicina di donne che li servono. Anche la’ sono tutte stanzette o camerate senza acqua a luce, la cappella e la cucina sono in comune, e nel refettorio c’e perfino la luce, con un pannello solare. Ma stare insieme fa bene, a loro ma sopratutto a noi. Ci chiamiamo Watumishi wa Upendi, cioe’ Servi dell’Amore. Tutto qui”.
Padre Biseko fa questo breve riassunto dei suo venti’anni di servizio nel suo “ufficio” una stanza con due divani vecchi e coperti di polvere perche’ le fessure della porta, e quelle che ci sono fra i muri e il tetto di lamiera non riusciranno mai a fermarla. Poi fa il giro del cortile salutando tutti.
C’e’ chi e’ spaventosamente anchilosato, chi e’ sordomuto dalla nascita, chi ha perso la ragione per una disgrazia familiare ed ora guarda nel vuoto ripetendo sempre la stessa litania di parole incomprensibili. Sorprendentemente, non ci si sente sopraffatti della disperazione, ma si e’ presi dalla semplicità ‘ e spontaneità ‘ dei rapporti. Qui davvero, e’ una nuova famiglia.
Padre Biseko scambia qualche parola, una stretta di mano con tutti. Ha una sorriso felice che contagia tutti. Intanto racconta del suo dispiacere di vedere come la gente stia perdendo i valori tradizionali, e quando alcuni persone come queste diventano un peso troppo grosso li scaricano in strada o appena fuori dall’ ingresso della sua casa. “Finora, pero’, siamo riusciti a non rifiutare mai nessuno, anche se negli ultimi anni abbiamo due o tre persone nuove al mese”. Ha solo un rimpianto, quello di aver fallito coi bambini di strada. Ce ne sono pochi qui a Musoma, ma nonostante si sia impegnato piu’ volte ad aiutare alcuni di loro non sono mai resistiti nella casa per piu’ di qualche settimana. Ce ne sono oggi solo sei o sette, e si stanno divertendo a disegnare. Uno di loro sta facendo colorando quella che, nonostante l’imperizia dell’ artista, si riconosce subito come la scena di San Francesco che parla agli uccelli. Qui Francesco e’ di casa.
Si lascia il piccolo cortile con la bella sensazione di aver incontrato una cellula viva e genuina della chiesa africana. Una piccola chiesa che ama, che cammina con i poveri, che agisce dal basso senza fare rumore. Quante esperienze ci sono in Africa come quella di padre Biseko? Ne conosco poche, ma anche fosse solo questa e’ un segno luminoso che contrasta tante altre debolezze. Si parlera’ queste esperienze nel prossimo sinodo africano che si terra’ a Roma in ottobre e che ha come titolo «La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace»?
Speriamo di si’, perche’ giustizia e pace non si costruiscono con i grandi discorsi e documenti delle conferenze episcopali, con gli incontri internazionali, con le mediazioni di pace piu’ o meno riuscite — per lo meno non solo con quelli — ma piuttosto con l’ amore fattivo di tanti come padre Biseko.
NB. Ho domandato a Padre Biseko: “mi puoi dare la tua email? La vorrei mettere nel mio blog, magari qualcuno ti vorrebbe contattare, o mandarti un aiuto”. MI ha guardato sorpreso, ed ha risposto “Io sono un pollo locale! Sono nato a poche centinaia di metri da qui, ed ho vissuto qui tutta la mia vita. Non ho un computer, un indirizzo di posta elettronica, niente del genere. Mi servo dell’ indirizzo postale della Diocesi di Musoma, P. O. Box 93, Musoma, Tanzania”
Bernadette is blind. Thirty years ago, when she was a young nurse she could not rid herself of the malaria that was infesting Musoma—her home town on the Tanzanian bank of Lake Victoria—and so she began taking an ever-increasing dose of quinine which resulted in irreparable damage to the optic nerves.
Now her hair is gray, and she sits quietly with a serene smile on the doorway steps of the home that once was hers—a simple room of walls built of clay bricks, covered with a tin roof. But all around, what was once a vegetable garden, are now other rooms with an enclosed courtyard, a little chapel in one corner and on the opposite side a kitchen, not far away from the showers and toilets. Everything is tidy and clean, and there is just what is essential, in true African traditional style, Franciscan I would say.
The only sign of modernity is the grinding mill—powered by a small electric motor and situated next to the dust road that crosses the area—which attracts a constant flow of customers who come to grind their maize for their daily mealie meal.
On the doorsteps of other rooms, there are people who suffer from various types of disabilities, some most serious, and a handful of school-age children. In all, a few more than twenty people.
The soul of this small community is father Geofrey Biseko, a Tanzanian diocesan priest who has dedicated his life to giving a family life to those who have been abandoned by their own families.
‘It was January 1988’ recounts Father Biseko, ‘and at that time I was a young priest. The bishop had asked me to be his secretary and the vocation promoter of our diocese. On Sundays I used to go out to celebrate Mass, replacing a missionary or a priest who was absent because of illness or on overseas leave. One Saturday I met a leper who lived on charity, and I read in his eyes a desperate appeal. That night I could not sleep. I felt called to do something, but I did not know exactly what. The next morning at Mass I said to the faithful that we were to allow ourselves to be challenged by the words of Jesus, that the gospel had to penetrate our life. I spoke to them, but above all I spoke to myself. At the end of the Mass I invited those who felt inspired to do something for the most poor and abandoned, to meet me the following Saturday. Twelve people came. It was the first of a series of signs that slowly made me understand that my vocation was to serve the poor and the abandoned. We began to pay visits to the poor who lived in the streets, and it was then that Bernadette offered her home and the ground around it for our purpose. Some people began to donate unwanted clothing and others brought us food.
In 1994, the bishop relieved me of other duties and since then I live here, helped by four men. Slowly other rooms were added as we were receiving donations, and we have learned to live by sharing the little that is offered by others, particularly by the Christians in our neighborhood. There is nobody in* *our neighborhood that is rich, but we receive enough to live on, occasionally we benefit from a donation from overseas, such as the one that enabled us to buy the grinding mill.
Now we have a bigger home 20 km from here with about one hundred guests and fifteen women who attend to them. There too there are little rooms without lights and water, the chapel and the kitchen shared by everybody and the refectory where there is even a light operated by a solar panel. To live together does good to them but especially to us. People call us /Watumishi way Upendi/, which means the Servants of love. That is all.’
Father Biseko gives the short summary of his twenty years of service in his office, a room with two old couches covered in dust due to the cracks in the door and the gaps between the walls and the tin roof. He then takes me around the courtyard where he greets everybody. There are some who are severely handicapped, others who are deaf and dumb from birth, and another one who has lost all reasoning through family tragedy and now he looks with vacant eyes, repeating a string of incomprehendible words. Surprisingly, one does not feel overtaken by desperation but is instead impressed by the simplicity and spontaneity of their relationships. This is truly a new family.
Father Biseko shakes hands with everybody, exchanging a few words with them. He has a happy smile that is contagious. Meanwhile he tells of his sorrow seeing how people have lost their traditional values and reject persons—such as those he has welcomed in his community—who have become too big a burden and abandon them in the streets or just outside the entrance of Father’s home.
‘Fortunately, up to now we have managed not to refuse anyone, even though in these past years we have received two or three new people a month.’ Father Biseko has only one regret: to have failed with the street children. There are only a few here at Musoma, but in spite of his many attempts to assist some of them, they never stayed in his home for more than a few weeks. Today, there are six or seven street children living in the community, and they are enjoying themselves making drawings. One of them is busy drawing with colours what can be guessed is the scene of Saint Francis talking to the birds. Here, Francis is a familiar saint and much at home.
I leave the small courtyard with the satisfying feeling to have met a living cell of the genuine African church. A small church that loves, that walks with the poor, that works from the grassroots without making noise.
How many experiences are there in Africa similar to that of Father Biseko? I know a few, but even if this had to be the only one, it is a luminous sign that contrasts with other weaknesses in the Church.
Will these experiences be brought up at the next African Synod to be held in Rome in October and entitled ‘The Church in Africa at the service of reconciliation, justice and peace’? I sincerely hope so. Speeches and documents that come from the Episcopal conferences, international meetings and peace negotiations will not be able to achieve justice and peace—though at times they may be helpful. A just and peaceful world will be built above all through the dynamic love of many more individuals following the model of Father Biseko.
NB. I asked Fr. Biseko “Could you give me a contact, like your email? I would like to put it in my blog, so that those who want to contact you could do so. Maybe some will have questions, others would like to support you”. His answer was ” I am a local chicken. I was born a few hundred meters from here, I have lived here all my life, I do not have a computer, an email address or anything like that. My contact? Diocese of Musoma, P. O. Box 93, Musoma, Tanzania”.
A fine dicembre un gruppo di giovani clown dell’ associazione Vivere in Positivo hanno visitato il nostro Mthunzi, a Lusaka. Sono stato qualche giorno con loro. Sono ragazzi – in verita’ il gruppo venuto a Lusaka era composto in grande maggioranza da ragazze – che fanno volontariato come clown in ospedale per alleggerire le sofferenze dei pazienti, specialmente dei bambini. Quindi sono persone particolarmente sensibili e comunicative, e sono entrate subito in sintonia con i nostri ragazzi. Ho chiesto loro di mandare una breve presentazione della loro associazione, ma si fanno attendere, allora metto qui sotto per il momento la breve relazione di una di loro, molto immediata. Leggendola, mi veniva di riflettere: ma perche’ le domande che si fa adesso non le ha fatte quando era in Zambia? E’ una delle cose che io ho imparato a fare: con delicatezza, aspettando il momento piu’ opportuno, bisogna domandare perche’ poi dalle risposte si imcomiciano a capire tante cose e si avvia il dialogo a l’ apprezzamento reciproco. Ma forse Ciriola aveva troppe domande e non e’ riuscita ad esprimerle tutte mentre era a Lusaka.
27 dicembre 08 – 12 gennaio 09
Non amo scrivere ma stamattina mi è venuta voglia di mettere nero su bianco le sensazioni sullo Zambia.
Sono in treno, e accendo, come tutte le mattine ormai, il mio ipod con le canzoni che ci hanno dato i ragazzi del Mthunzi. Solo al pensiero già mi si riempiono gli occhi di lacrime per la malinconia. Penso di essere stata in trance per 2 settimane lì e forse un po’ lo sono ancora. Se non fosse per il tamburo (scelto accuratamente da Rickon e Richard), il grande batik appeso al muro sopra il mio letto ed il piccolo ippopotamo in pietra fatto da Bernard e Jonas……., pensereiche è stato solo uno splendido, meraviglioso, incredibile sogno.
Non so se prima parlerò delle cose brutte e poi di quelle belle.
La prima parte del viaggio sembrava molto normale, sembrava di essere in una normalissima città . Palazzoni, centro commerciale etc. ma ad un tratto il pulmino fa una svolta e lì il paesaggio cambia improvvisamente, non più asfalto ma tanta terra rossa e sassi, buche, pozzanghere. La cosa, però, più terribile era quella di trovare tutti i giorni, dall’alba al tramonto, sul ciglio della strada, bambini e mamme che spaccavano delle grosse pietre per farne di piccolissime e poi metterle in un sacchetto e venderle al miglior offerente camionista (credo le usassero nell’edilizia). Accanto a loro una capanna fatta di soli 4 paletti rivestiti di sacchetti di plastica dove riposarsi per pochi minuti, quando sei troppo stanco ed il sole diventa troppo cocente.
Prima domanda: “Ma gli uomini dove sono?â€
Arriviamo al centro e tutto sembra molto tranquillo. Scarichiamo i bagagli e iniziamo a preparare i nostri letti per vincere le zanzare, poi cena, qualche chiacchiera e a letto che domani si inizia presto.
Iniziano così le nostre giornate, scandite da visite nei villaggi, giochi con i bambini, visita alle scuole, distribuzione del materiale portato dall’Italia, visita alla clinica, all’ospedale di Lusaka e poi chiacchiere, canti, musica e balli con i ragazzi del Mthunzi.
A pranzo e a cena eravamo sempre una marea di gente e quindi si cucinava tantissimo (mitica Pallola) e mi sembrava strano, delle volte, buttare il cibo che avanzava, in Africa. Diciamo che forse dipendeva dal fatto che non c’era il frigo oppure dal fatto che quando arrivano gli Italiani è davvero una festa, però, comunque mi faceva un certo effetto fare un gesto del genere lì. Poi i nostri commensali si preparavano dei piatti stracolmi, che puntualmente non riuscivano a finire e quindi altro cibo buttato. Che strano!!!
Quando si andava in giro non si cercava mai di organizzare il tragitto in modo da ottimizzare i tempi e sprecare meno benzina ma si andava su e giù. Che strano!!!
In Africa i tempi sono veramente molto lenti, direi quasi snervante come situazione però poi ti ci abitui ed effettivamente cominci a godertela di più.
I bambini dei villaggi erano splendidi, sempre allegri e molto disciplinati. Lì il più grande guarda il più piccolo, si ha cura l’uno dell’altro. Nessuno sembra apparentemente abbandonato a se stesso.
Cosa differente, invece, nei quartieri poveri della città , dove vige la legge del più forte. La ragazza più grande da uno spintone al bimbo piccolo per rubargli la caramella ed in precedenza aveva rubato almeno 4 braccialetti colorati alle altre bimbe. Mentre sei tranquillo in macchina con il finestrino aperto ecco che all’improvviso ti rubano gli occhiali dal viso. Insomma in città è meglio stare sempre con gli occhi bene aperti e magari sempre scortati. I ragazzi erano grandi in questo, erano sempre con noi, non ci mollavano mai, erano ormai diventati i nostri stupendi “Bodyguards.â€
Adesso è appena passato un mese dal nostro ritorno e ancora, ogni tanto, mi sembra ieri e allo stesso tempo una vita fa. Come il tempo in Africa, certi giorni ti sembra di essere lì da sempre, altri invece, di essere appena arrivata. Le giornate ti sembrano lunghissime e ti sembra che in un giorno riesci a fare una marea di cose. Poi senti così forte il calore del posto, il calore della gente, di tutti quei bambini, i loro sorrisi, le loro mani e i loro occhi che ti cercano. E’ meraviglioso!!!!
Non può finire qui. Sento che l’Africa mi chiama e mi desidera, come io desidero Lei.
I bambini e i ragazzi del Mthunzi ci aspettano, non possiamo deluderli. Anche se lontani noi tutti con loro staremo insieme in ogni dove. La canzone dice: “SOMEWHERE OVER THE RAINBOW……†come i 2 arcobaleni dai colori super intensi che ci hanno accolto e accompagnato al nostro arrivo dall’aeroporto di Lusaka e a Mthunzi.
Cosa ti rimane dentro dell’Africa? Io penso che non sia tanto l’ingiustizia e la povertà che vedi attorno a te, anche se terribile, quanto le persone, i loro volti, i loro occhi vivi, i loro sorrisi, la vitalità dei bambini (in realtà già grandi), dei ragazzi (in realtà già adulti). La loro sincerità , semplicità e soprattutto la loro DIGNITA’.
Dov’è finito in noi tutto questo?
LIBERTA’? Nonostante i diversi disagi che vivono il loro mondo ed il nostro, chi si può considerare un uomo veramente libero, NOI o LORO?
Alessandra Raichi ha speso un po del suo tempo con noi durante luglio e agosto scorsi, ed ha fatto foto di bambini di strada con espressioni straordinariamente intense, come quella qui sotto. Alcune accompagnano un articolo che si trova qui:
Qualcuno avrà notato che ho lasciato pubblicare nei commenti al blog qualche testo pesantemente adulatorio nei miei confronti, cosa che finora avevo evitato. Non e’ megalomania, e’ che i ragazzi di Mthunzi, a Lusaka, stanno scoprendo internet, ed hanno trovato il mio blog, e anche se non capiscono i testi che sono quasi tutti in italiano, mandano il loro commenti. E mi hanno fatto sapere che se non avessi pubblicato qualche loro messaggio non mi avrebbero mai perdonato… D’ora in poi pero’ li bloccherò’.
In questa cosa c’e’ un aspetto positivo, ed e’ che si sono impegnati e mettere settimanalmente qualche notizia nel loro sito, quindi gli amici che sono stati a Mthunzi e chiunque voglia tenersi aggiornato puo’ visitare il sito www.koinoniazambia.org e leggere le Mthunzi News.
Sono in Tanzania, con collegamenti,  anche telefonici, molto aleatorii. Pochi minuti dopo aver messo online il testo precedente ho ricevuto la notizia che ieri mattina a Nairobi, nell’ ufficio della’istituto di filosofia in cui ha lavorato per piu’ di due decenni, hanno ucciso padre Giuseppe Bertaina, missionario della Consolata, originario della provincia di Cuneo.Una violenza assurda e assolutamente non necessaria, oltre che stupida. Sembra che il responsabile del gruppo che ha tentato la rapina fosse un ex-seminarista.
Padre Bertaina era un gentiluomo, magro, dritto, affabile, sempre sorridente, che cercava di educare gli studenti – ha speso la piu’ parte della vita nelle scuole delKenya – con l’esempio. Seguiva con simpatia gli ex-seminaristi. In diverse occasioni, su mia richiesta, mi ha dato documenti e raccomandazioni per loro, chiedendomi poi con trepidazione se erano riusciti a sistemarsi nella vita. Era felice quando, diversi anni fa, ho potuto raccontargli che uno studente di filosofia che era stato postulante dei comboniani, dopo esserenstato dimesso era poi entrato nel seminario della sua diocesi di origine in Sudan ed era diventato un bravissimo prete diocesano. Negli ultimi anni l’ ho visto raramente, e solo alla Shalom House, deve veniva per una pizza con i confratelli nelle rare occasioni in cui si concedeva qualcosa.
Sembra che sia morto soffocato dal bavaglio che i rapinatori gli hanno messo. Immagino il dolore di quest’uomo gentile di 82 anni quando ha visto un ex-allievo fra di loro. Immagino che lo abbia subito perdonato, ma che forse sia morto col cuore trafitto dal dolore che gli causato il riconoscere quel volto piu’ che per il soffocamento. Tantissimi suoi allievi piangono la sua morte, come quello che me l’ha annunciata per telefono. Che il suo esempio ci aiuti a superare tutte le violenze.
Mi arrivano ancora reazioni, tutte positive, al giro fatto in Italia dai bambini di Kivuli. Teresa Giorgi, di Chiavari,
da poco laureata all’accademia di Belle Arti di Genova, li ha accompagnati da Caserta alla Malpensa, insieme a
Roberta Cerboneschi, di Larderello, un’insegnante socia di Amani, che e’ venuta per la prima volta a trovarmi in
Zambia nel 1988. Teresa, che ha contribuito anche a far crescere la qualita’ dello spettacolo, ha poi chiesto
ad alcuni amici di scrivere le loro impressioni, e le ha legate con le sue riflesisoni. Ecco il suo testo.
Sono riusciti a farsi ammirare per la giusta ragione: non tanto per la perfezione delle loro acrobazie, quanto per il coraggio che mostrano ogni giorno della loro vita, per la fiducia che nutrono verso se stessi e verso i loro compagni, che è così lampante, quando si esibisconoâ€.
Le parole di Chiara Avezzano riassumono un po’ il pensiero dei tanti che hanno visto i Koinonia Children esibirsi in Italia.
Roberta ed io, che li abbiamo accompagnati da Caserta fino all’ ultimo minuto prima del loro rientro a Nairobi, siamo state nell’ occhio del ciclone di simpatia causato dai Koinonia Children per quindici giorni, e adesso speriamo che il loro ricordo rimanga impresso a lungo e faccia da stimolo per una voglia di conoscenza sempre più profonda di loro e dei loro problemi. Perchè, come scrive padre Kizito, iniziatore del progetto del centro di accoglienza di Kivuli, dal quale i bambini provengono, “l’esperienza occasionale rischia di restare soltanto un bel ricordo, il rapporto continuo invece cambia il modo di mettersi di fronte agli altri, la prospettiva e il senso del vivere”.
Il progetto nacque durante un viaggio a Nairobi di Paolo Comentale, direttore del teatro Casa di Pulcinella di Bari, recatosi in Kenya per tenere alcuni spettacoli di marionette. All’arrivo a Kivuli, i circa 60 ragazzi che vivono nel centro lo accolsero con entusiasmo: canti, balli e acrobazie, ma soprattutto sprigionando un’allegria tale da far nascere l’idea di portare in Italia alcuni di loro. E il progetto si è concretizzato lo scorso dicembre: iniziato proprio da Bari, dove al gruppo è stato assegnato il premioâ€Pulcinella d’Oro 2008â€, il tour ha visto i ragazzi esibirsi in diverse città italiane. Caserta, Fabriano, Torino, Piacenza, Milano. Tappe frutto della rete di relazioni che gli stessi bambini hanno creato tra noi italiani che da anni ormai li seguiamo e li vediamo crescere nella loro casa a Nairobi. Le richieste per portare lo spettacolo nella propria città erano molte di più ma purtroppo per motivi di tempo non è stato possibile esaudirle tutte. In ogni tappa l’accoglienza è stata tanto calorosa da lasciare impressionati gli stessi ragazzi che delle relazioni umane sono i maestri. Gli italiani si sono mostrati ottimi discepoli in quell’arte, così sacra in Africa, di donare tempo agli altri, contribuendo a creare un clima estremamente disteso e gioioso.
Gli amici di Fabriano cosi raccontano il passaggio del ciclone Koinonia Children.
Per poter godere di ogni prezioso momento offerto da questa esperienza, i ragazzi del Kenya sono stati ospitati nelle famiglie dei ragazzi, giovanissimi e giovani di AC: di fronte ai sorrisi luminosi e agli occhi luccicanti sui volti scuri, la timidezza e le prime difficoltà di comunicazione sono state superate in fretta, e sin da subito mani bianche e nere si sono intrecciate in saluti, giochi e abbracci.
Giovedì 4 dicembre è stata la giornata dedicata agli spettacoli: i ragazzi si sono esibiti per ben due volte al Pala Guerrieri, in uno show di grande impatto: la mattina è stata la volta dello spettacolo per le scuole, invitate dall’Azione Cattolica nell’ambito di una proposta volta all’approfondimento e al confronto sulla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (di cui il 10 dicembre ricorre il 60° anniversario). Più di 1000 studenti, provenienti dalle scuole medie inferiori e superiori della città , sono quindi giunti al Pala Guerrieri, e l’emozione è stata grande da entrambe le parti: i giovani artisti si sono trovati di fronte ad un pubblico di coetanei davvero numeroso e caloroso, che sono riusciti a stupire e conquistare sin dai primi minuti; con grande abilità interpretativa, gli ex-bambini di strada hanno inizialmente messo in scena episodi di vita nelle baraccopoli per raccontare al pubblico di coetanei il background dal quale provengono, proseguendo poi con una avvincente serie di acrobazie e giocolerie che ha lasciato gli spettatori a bocca aperta. Gli applausi si sono susseguiti ininterrottamente durante tutto lo spettacolo, ed hanno trasmesso agli acrobati tutta l’ammirazione e l’affetto del giovane pubblico che, alla fine dell’esibizione, è stato trascinato in canti e danze. Al termine dello spettacolo gli studenti, scesi dalle gradinate, hanno avuto l’opportunità di congratularsi di persona con i piccoli artisti che, come sempre, sono andati incontro a tutti coloro che li acclamavano, presentandosi con i loro grandi sorrisi.
In serata, il Koinonia Children Team è riuscito a replicare il successo ottenuto la mattina con le scuole anche nello spettacolo rivolto alla cittadinanza, al quale hanno risposto circa 700 persone (un numero eccezionale per Fabriano!), e anche questa volta non hanno deluso le aspettative: hanno costruito altissime piramidi umane mantenendo equilibri incredibili, hanno coinvolto il pubblico con la forza e l’energia tipica di chi ha voglia di riscatto e trova in un applauso il calore e l’affetto a lungo cercati. Di nuovo al termine dello spettacolo il pubblico, questa volta di tutte le età , è finito in pista, a ballare danze africane al ritmo scandito dai bravissimi percussionisti.
In 3 giorni i nostri piccoli amici africani hanno lasciato un segno profondo nei cuori di tutti coloro che hanno avuto la fortuna di ospitarli, incontrarli, parlarci, giocare con loro.
Noi che ci eravamo presi l’ impegno di accompagnarli in giro per l’Italia, lo abbiamo fatto. Ma spesso sembrava come se le parti si invertissero e fossero loro a portarci per mano lungo nuovi percorsi; e noi lì, affascinati, a guardarli incantati e a momenti imbambolati. Poi riprendevamo il sopravvento appena arrivati in una nuova città . Pochi minuti e l’iniziale loro timidezza si trasformava in entusiasmo e il gioco tornava nelle loro mani. Loro vogliosi di fare e noi di guardare e imparare. Sembrerebbe un’inversione di parti dell’antico stereotipo di un nord esportatore di civilizzazione e un sud pronto ad apprendere; ma quando il campo si restringe fino a scendere nel rapporto uno ad uno con esso si cancella, se mai ce ne fosse stata, qualsiasi forma di presunta superiorità . A livello umano ogni volta sembra palese come siamo noi alla fine ad uscirne arricchiti ed estremamente grati delle gioie del momento regalateci. Perchè quando i bambini diventano Stephen o Martin, Harrison o Kelvin, ecco che le facce assumono espressioni e le parole significato profondo pur nella loro semplicità . E non esistono appelli corali, per quanto lodevoli, che restino impressi più di una singola battuta di uno Stephen o di un Martin, di un Harrison o di un Kelvin. Perchè è a quel punto che il “loro†più volte ripetuto crolla e resta un “io†di fronte a un “tuâ€.
Fabrizio Floris, uno degli amici torinesi di Koinonia di piu’ lunga data e grande conoscitore degli slums di Nairobi sui quali ha scritto piu’ di un libro, ha commentato:
“Se si guardano le statistiche sui bambini di strada si scopre che il tasso di delinquenza è alto, che l’accattonaggio è prevalente e che i servizi sociali in loro favore sono inesistenti. Gli street children appaiono solo come potenziali clienti dell’assistenza delle ONG, destinati a diventare criminali. Sono figli dello slum, di un paese povero, di un quartiere povero e di una famiglia povera e tutto questo comunica loro che “dallo slum non può venire niente di buono†quindi sono loro stessi a essere “buoni a nullaâ€. La loro vita appare segnata fin dall’inizio, il futuro non è una prospettiva, ma una minaccia. Il tempo che possono vivere è solo quello presente. Non possono andare a scuola perchè troppo costosa, ma non possono nemmeno lavorare perchè la disoccupazione e’ alta e chi sarebbe cosi folle da assumere un ragazzo di Kibera o di Korogocho? Quindi sono vittime e agiscono come tali. Per la Banca Mondiale rientrano in quel miliardo di persone “senza futuroâ€, sono di troppo, in eccesso.
Eppure vedendo e ascoltando i Koinonia Children, provenienti da un rifugio (kivuli) della periferia di Nairobi, saltare, ballare e cantare ricordandoci il diritto alla pace e alla giustizia, ci si accorge che il quadro delle statistiche e’ sbagliato: siamo di fronte a persone di grandissma umanita’. E ti vien da pensare che non solo non sono scarti, ma che loro ci stanno precedendo su strade nuove e che noi dobbiamo impegnarci molto di piu’ se vogliamo tenere il passo.â€
Il giudizio lusinghiero di Wilson e la sapienza di Martin sono espressi alla fine di un’esibizione che ha portato il Koinonia Children Team di Nairobi, in Kenya, in giro per l’Italia per quasi tre settimane con uno spettacolo dal titolo Pamoja kwa Amani (“Insieme per la pace“). Provengono tutti da drammatiche esperienze di abbandono, di anni di vita di strada vissuti procurandosi il cibo fra i rifiuti e magari praticando il piccolo furto, delle droghe povere, come la colla da falegname e la benzina, sniffate per calmare i morsi della fame. La loro vita è cambiata da quando il personale di Koinonia, con l’aiuto economico della Ong italiana Amani, li ha convinti a iniziare un processo riabilitativo ed educativo nel grande centro per ex bambini di strada di Kivuli.
Durante i gravissimi disordini avvenuti in Kenya, i bambini di Kivuli si sono accorti di appartenere a tante etnie diverse e hanno voluto immediatamente dare un contributo alla pace improvvisando, pochi giorni dopo l’inizio degli scontri, una manifestazione, chiamando a raccolta tutti i gruppi acrobatici giovanili di Nairobi per fare una grande piramide umana, e adesso con il loro spettacolo vogliono lanciare un appello di pace che vada al di là del Kenya.
«Quanto vale il passaporto di ciascuno di questi bambini? Quanto vale l’esperienza che stanno facendo e la gioia di stare insieme che stanno comunicando? Quanto vale il messaggio di pace contro il razzismo che stanno lanciando ai loro coetanei?», si domanda Paolo Comentale a chi obietta che le risorse per portare i 18 bambini di Koinonia in Italia avrebbero potuto essere usate per necessità  più urgenti.
Comentale è il direttore del Teatro Casa di Pulcinella di Bari. Lo scorso maggio è stato invitato dal Centro italiano di cultura di Nairobi, col collega Giovanni Mancino, a tenere alcuni spettacoli di marionette.
Nel corso della visita è stato a Kivuli, dove vivono oltre 60 ex bambini di strada. Mentre lavorava con una trentina di ragazzini felici di esibire le proprie qualità  di acrobati e giocolieri, Comentale, toccato dalla serenità  e dalla gioia che si respira a Kivuli, ricorda di essersi detto: «Mi avevano detto che negli slum di Nairobi avrei trovato l’inferno, invece ho trovato il paradiso», e poi ha avvicinato John Kanene, il keniano che gestisce il centro, dicendogli: «Io un gruppo di questi bambini li voglio portare in Italia». Così i bambini di Koinonia sono arrivati a Bari, dove è stato loro assegnato il Pulcinella d’oro 2008, premio per la promozione e diffusione del teatro di figura.
Dopo Bari i bambini sono stati a Matera, Caserta, Fabriano, Torino, Piacenza e Milano. Ovunque sono stati accolti da gruppi e famiglie che li avevano già  visitati e conosciuti nel loro ambiente, a Nairobi, e il viaggio in Italia è stato un ritrovarsi, un continuare a costruire dei rapporti di solidarietà . I bambini hanno improvvisato nel parlatorio di un convento di clausura un mini spettacolo per ringraziare le monache che da anni pregano per loro.
Questa visita non poteva capitare in un momento più opportuno, in particolare a Bari, dove recentemente in una scuola alcuni vandali avevano deturpato le immagini di bimbi africani dipinte sui muri di una scuola primaria.
Chi ha incontrato i bambini di Kivuli, li ha ascoltati mentre raccontavano i loro sogni, si è lasciato aprire il cuore dal loro sorriso disarmante, non può non essersi posto delle domande sul suo modo di rapportarsi agli africani, e agli stranieri in genere. Conclude Comentale: «Dobbiamo certo far conoscere i grandi drammi dell’Africa, le ingiustizie di cui è vittima e quelle di cui è complice, ma dobbiamo farne conoscere anche le aspirazioni e le immense potenzialità ».