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3 luglio. Coronavirus in Kenya (27)


Il giornale di stamattina diceva che ad oggi, dai primi di marzo, ci sono in 6,673 casi confermati, 2,889 guarigioni e 149 decessi. Gli esperti prevedono un drammatico peggioramento in agosto e settembre. Ma nell’ambiente in cui vivo, fra le persone che conosco, la percezione diffusa è che il pericolo sia passato e si dovrebbero riaprire le scuole, i ristoranti, e le altre istituzioni che sono state chiuse all’inizio della pandemia, sopratutto che finiscano le restrizioni sui viaggi interni. I viaggi all’estero via aerea sono il privilegio di pochi, e non sono un problema per i miei amici. Stiamo facendo fatica a mantenere Kivuli chiusa, la vita dall’esterno preme sul grande cancello blu.

Già due settimane fa Alex, un sedicenne di Tone la Maji, mi ha chiesto di essere circonciso. Mi sono consultato con gli operatori e la richiesta ci è parsa ragionevole, addirittura un bella idea per approfittare di queste vacanze forzate, visto che di solito la completa guarigione dalla circoncisione richiede dall’una alle tre settimane. Altri si sono aggregati, abbiamo ottenuto il consenso dei genitori, e mercoledì della scorsa settimana un gruppo di 14 ragazzi è stato circonciso dal nostro personale medico del Kivuli Dispensary.

La circoncisione nelle tradizioni di molti popoli africani – con elementi particolari molto diversi – segna il momento di passaggio dall’infanzia all’età adulta, e a fa parte di un periodo di iniziazione in cui solo alcuni anziani maestri di vita possono stare insieme agli iniziandi e li istruiscono sui comportamenti e sopratutto sui doveri che un uomo ha verso la comunità. Al termine dell’iniziazione c’è una festa comunitaria per l’accoglienza dei neo-adulti.

Nella vita tradizionale l’iniziazione era un rito di importanza difficile da sopravalutare, e creava coesione sociale, solidarietà, senso di comunità. In città è sopravvissuta solo la circoncisione, anche perché promossa in quasi tutta l’Africa nera dai governi, in base a studi fatti durante la precedente pandemia, quella di HIV- AIDS, che l’abbinavano ad una diminuita diffusione della malattia.

Fra i nostri ragazzi tutto è andato bene e naturalmente abbiamo cercato di dare un significato a quato momento, sottolineando l‘importanza dei valori della tradizione e facendo con loro lettura del breve racconto delle circoncisione di Gesù e anche degli Atti degli Apostoli dove si riporta la decisione degli apostoli che la circoncisione può essere eseguita ma non è obbligatoria. Abbiamo soprattutto insistito sui doveri di un cristiano adulto.

Non siamo i primi a scopriere che la Cresima ha una affinità particolare con i riti tradizionali di passaggio che erano comuni, con circoncisione o senza, a tutte le etnie africane, ma, da quel che so, i tentativi di inculturazione in questa direzione hanno incontrato profonde resistenze. Come tutto il processo di inculturazione che ironicamente – o tristemente? – è stato bloccato dopo la celebrazione del primo Sinodo Africano nel 1994. Si sono fatti più progressi o per lo meno più tentativi, nel “cristianizzare” i riti, molto meno praticati, che venivano fatti per le ragazze a comportavano anche le inaccetabili mutilazioni genitali.

Oggi, conclusione seconda settimana di corso di catering, H*** un quasi trentenne che è arrivato a Nairobi otto anni fa dal villaggio nell’assurda speranza di trovare lavoro e invece è finito quasi subito in strada, annuncia a tutti: “Non sono mai rientrato al villaggio perché mi vergognavo. Partendo avevo promesso a mia nonna che da Nairobi le avrei inviato dei soldi per essere tranquilla nella sua vecchiaia. Adesso sono felice, mi impegno al massimo e so che presto la potrò aiutare”. La forza dell’amore delle nonne! H***, come la maggioranza di questi ragazzi appartiene alla generazione che è stata allevata dalle nonne perché i genitori erano morti per l’AIDS.

La foto è un attimo rubato durante la Messa di domenica scorsa. Come d’abitudine tutti i ragazzi di Tone la Maji erano curvi, il volto fra le mani, nel momento della preghiera dei fedeli, con tanti interventi di preghiere anche molto lunghe…. interminabili. Ad un certo punto alzo la testa, mi guardo in giro, e vedo il piccolo Kevin, che seminascosto dalla schiena del vicino mi lancia uno sguardo d’intesa. Non ho resistito, ho preso il telefonino che era in modalità silenziata ed ho scattato questa foto. Chiedo pietà ai liturgisti. Spero nessuno mi denunci alla santa Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Ma se la forza della preghiera si misura con l’amore lo squardo di Kevin mi rassicura. Non sarò condannato.

26 giugno. Coronavirus in Kenya (26)

Oggi un gruppo di tredici ragazzi maggiorenni del gruppo riscattato della strada in situazione di emergenza ha completato la prima settimana di corso pratico di ristorazione, organizzato da Diakonia Institute per dieci settimane. Molto lavoro in cucina, servizio in sala e nozioni di management, tutto a Shalom House e Baraza Café. Come gestire un piccolo ristorante – o eating point – e quali sono i permessi da ottenere e le tasse da pagare.

Per necessità logistiche sono ospitati a Kivuli. Ogni mattina fanno una camminata di 30/40 minuti fino a Shalom, e alle 9 iniziano a lavorare, in gruppi, al forno o in cucina. Parte della lezione è preparare il loro pasto, e aiutare a servire al tavolo gli eventuali clienti, pochi in questi giorni. Si sono subito appassionati. Oggi mi hanno voluto servire il pasto preparato da loro, un hot dog con riso pilau.

Oggi S***, che sta ancora imparando ad usare forchetta e coltello, a fine pasto nel nostro immacolato – se cade una briciola fanno il turno a pulire – ma modesto Baraza Café guarda stupefatto il suo piatto vuoto, poi mi dice, “Grazie padre, è la prima volta in vita che mangio in un ristorante. Finora li avevo visti solo in televisione”. Quale televisione? Quelle che i negozianti espongono accese in vetrina o sulla strada per attirare i clienti. I vestiti sporchi, il sacco con i rifiuti di metallo o plastica che poi andranno a vendere, i bambini di strada che guardano queste televisioni sono essi stessi uno spettacolo. Assorbono ogni dettaglio delle telenovelas che vanno tanto di moda, sognando un mondo fasullo che non sarà mai il loro. Per fortuna.

La vita che loro portano è molto più bella e genuina. La loro presenza ha fatto rivivere Kivuli, temporaneamente privato della presenza dei bambini. Le scatenate partite di pallacanestro sullo sgangherato campetto, i capannelli che parlano di calcio, i fanatici di reggae che in nel salone ballano senza sosta intono ad un computer che ripete all’infinito Buffalo Soldier, mentre i due di turno in cucina di danno da fare a praticare l’arte imparata il mattino, perché a tavola non ci saranno solo loro tredici, ma anche i tre ragazzi che ancora vivono a Kivuli, Peter con il suo eterno problema alla gamba, e stasera anche sette ragazzi Sud Sudanesi ed Evelyn, la responsabile di Kivuli.

Tutto intorno al grande tavolo nel locale che a Kivuli è conosciuto come “Italian Restaurant”. Dileggi e risate e non finire ricordando gli impacci e gli errori di ognuno durante la pratica in cucina, lo stupore del cliente che si vede attorniato da sei camerieri, il rimprovero del capocuoco/istruttore Kasanga che ha sorpreso uno di loro che si si era fatto una fetta di pane e marmellata… Poi si alza J*** al quale da quando è arrivato non ho sentito dire più di 10 parole, con un cenno chiede il silenzio e recita una preghiera in inglese impeccabile. Applauso generale, J*** si guarda in giro e dice in un inglese non più perfetto perché improvvisato qualcosa tipo “Io chiedo scusa perché qui siete tutti troppo miei amici”. Altre risate, e M*** lo corregge “Non dovevi dire chiedo scusa, ma vi ringrazio”. J*** accetta la correzione con un sorriso, e non si azzarda a dire altro ma con un cenno invita ad incominciare il pasto. Spaghetti aglio olio peperoncino con contorno di cavoli stufati. Cala il silenzio. Il cibo lo si mangia con rispetto, quasi con devozione.

Ma cosa c’entra organizzare un corso di cucina con fare il missionario? Forse non c’entra niente con “fare il missionario” ma c’entra molto con l’”essere missionario”. E se non lo capisci io non posso spiegartelo, perché non lo capiresti mai, anche se te lo spiegasse un grande biblista. Ma ci provo. Le parole possono spiegare il Vangelo e approfondire la fede di chi già crede, solo eccezionalmente lo comunicano. Essere missionario è creare fraternità. Solo lo stare insieme, il vivere fianco a fianco, il condividere, l’amore vissuto possono comunicare il Vangelo. Questo è il linguaggio che tutti capiscono e che può comunicare la Vita.

Litanie per l’Africa

Papa Francesco ha aggiunto alle litanie lauretane anche le invocazioni “Mater misericordiae”, “Mater Spei” e “Solacium migrantium”. L’ultima, “Aiuto dei migranti” è un segno dell’attenzione dal papa al popolo dei migranti, un popolo fatto di genti dai mille colori e lingue e sofferenze. Un popolo che purtroppo continuerà ad aumentare negli anni a venire, a che ha tanti cittadini di origine africana. In un mondo in cui diminuiscono i diritti e crescono le ingiustizie siamo infatti destinati a vedere sempre più grandi masse di poveri che si spostano in cerca di dignità e pane.

In questo contesto ricordo una invocazione alla Madonna che fa parte della tradizione comboniana, “Mater Nigritiae” o “Madre della Nigrizia”. “Nigrizia” nella tradizione classica corrisponde all’espressione francese creata dal poeta senegalese Léopold Sédar Senghor, “négritude”, cioè l’insieme dei popoli di pelle nera e delle loro culture.

Nella foto l’ingresso della scuola di Koinonia a Nairobi “Domus Mariae Mater Nigritiae” con bassorilievi a grandezza naturale degli intagliatori di Kivuli che interpretano la Mater Nigritiae.

21 giugno. Coronavirus in Kenya (25)

A ieri le statistiche ci dicono che in Kenya c’erano 4,478 casi confermati di Covid-19, 1,586 guariti e 121 decessi. Nonostante che l’avanzata del coronavirus sia lenta il governo ha scelto di muoversi ancora con prudenza. Il ministero dell’educazione ha fatto sapere che le scuole – da primarie a università – potrebbero riaprire in settembre, se ma solo se ci saranno segnali che i contagi sono in diminuzione, altrimenti tutto potrebbe slittare più avanti, a gennaio. Considerando che l’anno accademico per la scuola primaria e secondaria va da gennaio a novembre e che quest’anno tutte le scuole hanno chiuso ai primi di marzo, significa che tutti gli studenti perderanno un anno scolastico. In Zambia, dove vige lo stesso anno accademico e l’evolversi della pandemia è stato simile, hanno invece già riaperto le scuole per gli studenti che dovranno sostenere gli esami a novembre.

La scuola è anche una protezione per bambini e adolescenti che a casa vivono in condizioni difficili, in quartieri sovraffollati e famiglie numerose che coabitano in una stanza. L’altro ieri i mass media hanno divulgato cifre allarmanti, anzi spaventose, circa l’aumento di stupri, incesti e gravidanze che coinvolgono minorenni, il tutto attribuito alle condizioni createsi in conseguenze del coprifuoco.

La corruzione continua senza sosta, la lista degli scandali per la sparizione di soldi arrivati da istituzioni internazionali per combattere la pandemia e spariti nelle tasche dei funzionari è lunghissima. Tony Idris, rifugiato sudanese che vive a Kibera da ormai 15 anni, mi dice: “Ogni tanto dicono che un capetto di partito – governo o opposizione, sono tutti al potere – è stato ricoverato d’urgenza. Ma tutto è in funzione di mantenere la tensione, In realtà qual funzionario è in vacanza a Mombasa, magari proprio coi soldi che ha rubato dalla cassa per il coronavirus. Per loro è un affare”. E qualche ragione indubbiamente ce l’ha.

Siamo in una società in cui il Covid-19 ha aumentato tensione e violenza ed ha fatto emergere gli aspetti peggiori. Anche le denunce contro i poliziotti sono sempre più frequenti, e fortunatamente l’onnipresenza degli smartphone, permette, sul modello americano, di accompagnare queste denunce con prove incontrovertibili. La scorsa settimana ha fatto scalpore il caso di una donna che, accusata di aver rubato, è stata presa, legata ad una motocicletta e trascinata a terra per decine di metri e poi ricoverata in condizioni disperate. Da un poliziotto, che è stato fermato dai passanti, e ripreso col cellulare.

A volte, dopo aver dato un’occhiata al giornale del mattino, ci si potrebbe scoraggiare. Poi alzo gli occhi dalle notizie del giornale, mi guardo intorno, e mi ritrovo con tante persone come me, che a volte fanno fatica a superare il male, però cercano di vivere la loro giornata con rispetto verso gli altri, amore per la famiglia e gli amici, gioia per il tempo condiviso. Persone che ogni giorno si rinnovano e crescono nel bene che hanno seminato ieri. Che nonostante tutto guardano agli altri con un sorriso che viene dal cuore.

14 giugno. Coronavirus in Kenya (24)

Non vorremmo più vedere bambini macilenti mendicare per le strade di Nairobi. Il rischio è che se ce ne siamo presi cura di cento, fra poche settimane quando la tensione per il timore del covid-19 si allenterà scopriremo che nelle stesse “basi” ne sono arrivati altri duecento. In questi tempi in cui la povertà cresce, i bambini filtrano della periferie povere verso il centro città, impossibile fermarli. Già ci sono i primi segnali. L’altro ieri la polizia di Kasarani ci ha chiamati per andare a prendere in consegna tre ragazzi quindicenni, nuovi alla vita di strada. Sono arrivati a Kerarapon impauriti e tremanti, con ancora addosso i vestii con cui erano scappati di casa 15 giorni fa. Perché? In casa non c’è da mangiare. Tutti di famiglie molto modeste, però fino a marzo frequentavano regolarmente la scuola. Poi le conseguenza economiche delle misure di contenimento del Covid-19 hanno fatto perdere lavoro ai genitori e senza alcune forma di sicurezza sociale è stata una discesa precipitosa vero la povertà e la fame.

In Kenya ci sono 46,639 persone di strada, secondo il primo censimento delle famiglie di strada, presentato alla stampa lo scorso mercoledì, che però fa una fotografia che risale a quasi due anni fa. La presenza più alta è a Nairobi, con 15,337, seguita da Mombasa con 7,529 e Kisumu con 2,746. Oltre il 75%, sia per i maschi che per le femmine, hanno frequantato alcune classi del ciclo primario, e il 14% ha frequentato il ciclo secondario. I “push factors” (cioè le motivazioni che le ha spinte in strada) sono stati, in ordine, la mancanza di cibo in casa, la non accessibilità ai servizi sociali, l’ostilità generale della società verso i poveri. I “pull factors” (le attrazioni) sono tutti parte del sogno di trovare una vita migliore in città. Sono cifre attendibili, come non ce ne sono mai state, ma da leggersi tendo presente che sono solo il numero delle persone che non hanno assolutamente più una casa di riferimento. A Nairobi i bambini che vivono in strada durante il giorno e rientrano a casa la sera, quindi “borderline”, sempre a rischio di finire in strada permanentemente, sono molti ma molti di più.

In questi giorni con il coprifuoco allentato (dalla scorsa domenica è dalle 21 alle 4) abbiamo più possibilità di muoverci e abbiamo incominciato a rintracciare le famiglie dei bambini che ci sono stati affidati. Prima quelli che provengono dai quartieri della città, poi quando si riapriranno i confini potremo andare a visitare le famiglie dei bambini provenienti da più lontano. I nostri operatori hanno le storie più diverse quando tornano da queste visite il cui risultato è sempre imprevedibile. Dalla vicina di casa che quando vede un bambino si mette a gridare “ma è tornato dai morti” e corre a chiamare la mamma che impazzisca di gioa riabbracciando il figlio che credeva ormai perso per sempre, al papà che non lascia entrare il figlio nella baracca spiegando a Besh che “è la quarta o quinta volta che ce lo riportano dopo che è scappato di casa portandosi via i soldi che la mamma si guadagna ogni giorno al mercato. Non lo voglio più vedere, Tenetevelo”.

Cominciamo a conoscere meglio anche i ragazzi più grandi che sono con noi ormai da due mesi. Dalle statistiche emergono volti di persone, ciascuna con i suoi problemi, i suoi sogni, la sua voglia di ripartire. Fra di loro un gruppetto che già aveva nozioni di saldatura (nelle foto Jousha e Daniel) e si è impegnato a riparare i letti a castello e le sedie in ferro delle nostre diverse case e scuole. Una decina di letti e quasi cento sedie sono state già rimesse a nuovo. “Finalmente lavoro, il sogno della mia vita” dice Daniel a tutti, mostrando orgogliosamente la fila di sedie ancora fresche di vernice.

Lo speciale TG! Che vi avevo segnalato è andato in onda la sera di domenica scorsa. Chi volesse lo può vedere su RaiPlay, al link qui sotto. Il reportage dal Kenya parte da 49′ 50″ e si vedono i nostri ragazzi a partire da 53′ 05”
http://www.tg1.rai.it/dl/tg1/2010/rubriche/ContentItem-9b79c397-b248-4c03-a297-68b4b666e0a5.html

6 giugno. Coronavirus in Kenya (23)

E’ un luogo comune che nei momenti di difficoltà le persone sono capaci di tirar fuori le energie migliori. Lo abbiamo sentito ripetere fino alla nausea negli ultimi mesi. A Nairobi abbiamo visto dei casi molto significativi,come Fred Juma.
Nato e cresciuto a Kibera, dove ancora abita, Fred è un ex-calciatore della nazionale kenyana. Cinque anni fa, ritiratosi dall’attività sportiva – che in Kenya ti arricchisce di popolarità ma di nient’altro -, ha dato vita ad piccola ONG, Green Card. Lo scorso agosto Fred si era entusiasticamente associato a Koinonia e alla fondazione Run4Future per organizzare una maratona che ha abbracciato Kibera.
Appena il coronavirus è arrivato in Kenya, Fred ha organizzato capillarmente incontri per spiegare le più importanti regole igieniche e l’uso delle mascherine. Poi ha tormentato supermercati nelle vicinanze, piccoli produttori che arrivavano al mercato e non riuscivano a vendere le patate o i cavoli, altre persone di pochi mezzi e tanta buona volontà, finché è riuscito a creare una catena di solidarietà per provvedere ai bisogni dei più poveri. Niente di originale, ma fatto con tanta dedizione e passione, arrivando là dove nessun altro riesce ad arrivare.

3 giugno. Corona e altri virus in Kenya e altrove (22)

Ad oggi ci sono 2,093 casi confermati di Covid.19 e 71 decessi. D’alto lato, secondo quanto afferma l’IPOA (autorità indipendente di controllo della polizia) ci sono stati 32 incidenti e sono state uccise 15 persone dalla polizia in interventi direttamente collegati all’imposizione del coprifuoco. Ottantasette denunce contro la polizia sono state segnalate dalla fine di marzo. L’ultima morte è stata un senzatetto nello slum di Mathare che è stato ucciso lunedì per presunta violazione del coprifuoco. Anche Yassin Hussein Moyo, 13 anni, è stato ucciso dalla polizia mentre era sul balcone di casa dopo l’inizio del coprifuoco. Il direttore della pubblica accusa Noordin Haji ha approvato l’arresto dell’ufficiale che ha ucciso Yassin. Centinaia di manifestanti di Mathare hanno protestato martedì protestando contro questi “incidenti”. Human Rights Watch sostiene che la polizia fa irruzione nelle case e nei negozi e estorce denaro.

Non c’è da meravigliarsi quindi se il caso di George Floyd abbia avuto una risonanza particolare. C’è la dimensione razzismo, che non è estranea a nessuna persona di pelle scura che vive su questo pianeta. C’è anche l’esperienza diretta e quotidiana per tutti in Kenya di una Polizia che con la costituzione del 2010 ha cambiato nome da Police Force a Police Service, ma sempre profondamente corrotta e prone alla violenza rimane. Gli “incidenti” capitano sempre a danno dei poveri.

Il razzismo è l’esperienza fondante l’identità di tutte le persone di pelle nera, in qualunque nazione e continente vivano. Si può dire che è questa esperienza negativa che crea un senso di solidarietà fra le persone di origine africana che va al di là di ogni confine nazionale, è più importante di ogni altra catalogazione. In America un cristiano nero, e un musulmano nero, sono per prima cosa neri.

In tempi lontani, ho speso quasi l’intero anno 1976 in una parrocchia a Watts, allora il getto nero di Los Angeles conosciuto in tutto il mondo per la violenza, soprattutto quella dei poliziotti, e studiavo quella che allora si chiamava Black Theology. Ho conosciuto e intervistato una delle più famose (allora) delle Pantere Nere. Oggi ho ritrovato in internet una citazione di James H. Cone, il fondatore della Black Theology che pure avevo cercato di incontrare personalmente, senza successo. “In the “lynching era,” between 1880 to 1940, white Christians lynched nearly five thousand black men and women in a manner with obvious echoes of the Roman crucifixion of Jesus. Yet these “Christians” did not see the irony or contradiction in their actions.” (James H. Cone, The Cross and the Lynching Tree). Cioè “Nell’era dei linciaggi”, tra il 1880 e il 1940, i cristiani bianchi linciarono quasi cinquemila uomini e donne neri in un modo che evidentemente echeggia la crocifissione di Gesù fatta dai romani. Eppure, questi “cristiani” non hanno visto l’ironia o la contraddizione nelle loro azioni “.

Sembra che le cose non siano cambiate molto da allora. Forse in alcuni paesi sono peggiorate.

Frammenti di vita Nuba ((6)

Stamattina siamo pronti per tornare in Sud Sudan, campo profughi di Yida. Ci aspettano una decina di ore di viaggio su pista dissestata. Appena avviati, sulla grande spianata che serve da campo di calcio, prima del mercato e della moschea, troviamo una ragazza e un ragazzino di forse 12 anni che ci chiedono un passaggio. Dopo che si sono sistemati sull’auto cerco di capire dove vadano. La ragazza non parla una parola d’inglese, ma il ragazzino mi spiega che lui si chiama Adam, e la ragazza è sua zia, sorella minore della mamma. Ma dove vanno? “Per le vacanze scolastiche andiamo ad aiutare mia mamma che sta nel campo profughi”. Che aiuto le darai? “Lavorerò nei campi, coltivando la durra che nutrirà mia mamma per tutto l’anno. Un sacco lo porto anche a Kauda, sarà il mio contributo al mantenimento dei maestri”. Il suo sogno è di finire la scuola elementare a Kauda e poi andare a frequentare la Vision Secondary School, che Koinonia sostiene ad Yida con fondi donati dall’8×1000 delle Chiesa Italiana.

Nel primo pomeriggio, dopo cinque ora di guida e un centinaio di chilometri di pista, ci fermiamo un una capannuccia di canne, a lato della strada, dove una donnina prepara caffè speziato, tostando ogni volta la quantità necessaria in una padellina, per poi polverizzarlo in un mortaio di legno. Dopo aver aggiunto zenzero e spezie varie offre questa corroborante mistura infuocata.

Dalla direzione opposta arriva un camion di una piccola ONG americana che rifornisce di medicine l’ospedale del dottor Tom e i pochi dispensari sparsi per tutta l’enorme area nuba. L’assistente autista, un ragazzotto di una ventina d’anni quando mi vede salta giù dal camion prima che sia completamente fermo, mi corre incontro, mi abbraccia. “Tu certamente sei abuna Kizito. Io invece sono Kizito. Ti ricordi di me?”. “No – dico io esitante – non mi ricordo”. “Ma sei stato tu a battezzarmi!”. Fra adulti e bambini ho battezzato qualche centinaio di persone, ma questo proprio non me lo ricordo. “Ma si, me l’ha detto mia mamma, e mi ha raccomandato di non dimenticarmelo mai. Ad Amdrafi, una notte di Pasqua.

Mi ricordo! Era il 97. Avevo celebrato una prima veglia pasquale a Kerker, appena tramontato il sole. Poi una camminata di quasi due ore ed eccoci a Amdrafi. Siamo, come sempre di Pasqua, in piena stagione secca, il grande spazio intorno alla rustica chiesetta in pietra inondato dalla luce della luna pena. I cristiani avevano preparato un enorme fuoco pasquale, torce e grandi contenitori di acqua. Avevo chiesto che i segni della Pasqua, luce, fuoco, acqua fossero chiari e visibili. I bambini da battezzare sono parecchi più di cento. Al momento dei battesimi mi viene vicino Paul, il vecchio catechista che ha preparato sia i catecumeni adulti che i genitori dei bambini. Per i piccoli mi presenta i genitori per nome, e poi il bimbo, e Stephen, mio assistente, mi passa un guscio di zucca secca colmo d’acqua che verso tutto sulla testa del bimbo.

Dopo oltre un’ora ne mandano solo una decina. E’ il turno di una mamma con un bebé, e dopo avermi detto i nomi di mamma e papà Paul mi sussurra il nome del bambino “Hitler”. Non ho ma avuto ragione di rifiutare un nome di battesimo, ma questo non è accettabile. “Ma sapete chi era Hitler?” No, non lo sanno, sanno solo che era un uomo importante… e non hanno preparato un’alternativa. Mi guardano preoccupati. “Allora – dico io – lo chiameremo con il nome di un santo Ugandese, del quale anch’io ho preso il nome. Kizito. Va bene?” Approvano felici. “Kizito, io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, e anche con Kizito non risparmio acqua.

Ecco che adesso, dopo ventun anni, Kizito, che pensava potessi riconoscerlo perché l’ho battezzato bebè, mi racconta che vuol fare il camionista, felice di andare su e giù fra Sudan e Sud Sudan portando medicinali e beni di emergenza per la sua gente. Mi racconta della sua vita in pochi second. Della mamma e del papà che gli hanno sempre raccomandato di essere un buon cristiano. Della ragazza che lo aspetta. Salta sul camion che sta già ripartendo e continua dal finestrino a salutarmi con grandi sorrisi e grandi gesti finché lo vedo. Sarebbe stato un pessimo Hitler.

A Yida accompagniamo Adam e sua zia a casa della mamma. Salutandomi Adam mi bisbiglia “Abuna, abbiamo bisogno di maestri. Ce ne mandi altri da Nairobi?”

Nota finale con domanda: ho fatto questo viaggio dal 26 giugno al 5 luglio. Sono rientrato a Nairobi col desiderio di trovare risorse per continuare a camminare a fianco dei Nuba e soddisfare la loro voglia di crescita umana e cristiana, la loro voglia di scuola. C’è qualcun altro che vuole camminare con noi?

(fine)

Frammenti di vita Nuba (5)

E’ domenica, e col parroco di Kauda Fok concelebro alla Messa della comunità. C’è ormai da tempo un manipolo di preti presenti in modo stabile e il vescovo di El Obeid, Tombe Trille, egli stesso Nuba, sta pensando di aumentarne il numero. “La gente – mi disse quando lo incontrai a Nairobi – ha fame di educazione, e di educazione cristiana. Tutti pensano che la presenza di un prete sia la certezza che i loro figli avranno un’educazione migliore”.

Il vescovo Tombe è stato nominato lo scorso anno come leader della diocesi più vasta dell’Africa, con giurisdizione oltre che sull’area dei monti Nuba (o South Kordofan) anche sul Darfur. Qui lui non può venire perché il governo di Khartoum non gli darebbe il permesso, anzi considererebbe una provocazione solo il chiederlo, e di entrare clandestinamente, come faccio io, non se ne parla neppure. Il suo predecessore, il vescovo Micheal Didi, pure Nuba, è stato nominato da papa Francesco arcivescovo di Khartoum, l’unica altra diocesi del Sudan. La chiesa sudanese è oggi governata da quei Nuba che all’inizo del secolo scorso venivano considerati buoni solo per essere schiavi. Daniele Comboni, a fine ottocento, li incontrò solo negli ultimi anni della sua vita, e ne lasciò una descrizione entusiasta, intravedendo nella loro apertura al cristianesimo e nel loro forte carattere la via di penetrazione nell’interno dell’Africa che aveva cercato per anni. Questo non avvenne, sia per le politiche coloniali inglesi che hanno impedito ai missionari cattolici di accedere al Souh Kordofan fino all’indipendenza del 1956, sia per gli ostacoli naturali che si sarebbero incontrati cercando di andare verso sud.

Dopo la Messa supero una barriera di persone che si prodigano in “Al Hamdu lilai!” (grazie a Dio, una delle poche espressioni arabe che capisco) incontro una giovane donna, sopravissuta alla bomba che a pochipassa dalla chiesa nel 2001 uccise quindici scolari e la loro maestra. Vado verso nord, a Heiban dove sta per aprirsi il National Liberation Council, che vede la partecipazione di 130 rappresentanti sia dei Nuba che delle genti del Southern Blue Nile, un’altra area in ribellione conto il govenro, situata fra il Nilo Bianco e l’Etiopia, là dove il Nilo Blu entra in Sudan. Prevedono di stare insieme per 45 giorni

Il luogo dell’incontro è il Bible College, un campus costruito dalle chiese protestanti durante il breve periodo di pace fra il 2005 e il 2011, per la formazione dei leaders delle chiese. E’ composto da diverse strutture – chiesa, ostelli, aule, mensa, biblioteca, punti d’incontro – distribuite su un ampio spazio, ed è aperto a tutti, anche ai musulmani, secondo la migliore tradizione Nuba.

Il National Liberation Council è stato convocato per dare un’ossatura legislativa alle aree liberate, e per creare le strutture amministrative necessarie a quello che ormai è un’area autogestita all’interno del Sudan. “Dobbiamo – dice Jabir Komi – stabilire le istituzioni fondamentali e assicurare tutti di governare nel rispetto delle leggi e dei diritti fondamentali”. Bisogna organizzare l’educazione, la sanità, la manutenzione delle strade, e la raccolta delle tasse sui minerali e sul commercio. Sta nascendo uno stato indipendente?

(continua)

Frammenti di vita Nuba (4)

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A Gidel il dottor Tom Catena cura ammalati e feriti dei Monti nuba da oltre dieci anni. Il suo è un servizio che nasce dalla fede cristiana in modo cosi evidente che la rivista americana Time ha parlato di lui come di un “living saint” un santo vivente, e nel 2016 lo ha inserito nella lista delle 100 persone più influenti al mondo. A lui di questo non importa molto, ed essendo l’unico dottore in un’area di mezzo milione di persone, la sua giornata nell’ospedale “Mother of Mercy”, dove ci sono anche tre suore comboniane africane, è spesa nel consultorio e in sala operatoria. L’ho incontrato diverse volte e c’è fra di noi una certa complicità per il legame che entrambi abbiamo con questo popolo. Ora che le situazione è abbastanza tranquilla e che ha trovato qualcuno che lo può sostituire – risultato dell’articolo del Time – si è permesso una breve vacanza casa, negli Stati Uniti, da dove è appena tornato. Proviene da una famiglia molto unita, di origine siciliana. Ma perché ritorni sempre qui, Tom? “Una cosa che mi ha colpito molto del Nuba è che sono persone orgogliose, indipendenti, franche e per questo mi hanno sempre trattato alla pari. Mi piace il fatto che anche una donna anziana che non ho mai visto mi chiami per nome, non si rivolga a me come “dottore”, e non mi tenga a distanza come un estraneo. Poi la connessione forte è nata condividendo bombardamenti, paure, sofferenze. Dopo qualche anno questo legame è diventato fortissimo, e mi sento sempre più in comunione con questa gente dimenticata dal mondo”. Questa comunione è visibile anche nella casa in cui vive, in pietra col tetto di paglia. Unico lusso per il dottore è un telo di plastica nera sistemato sotto la paglia, per proteggere da ospiti indesiderati come scorpioni o serpenti. E’ preoccupato per gli sviluppi recenti “Il governo di Kharotum è abilissimo nel manipolare la gente. Certamente ci sono in giro spie di Khartoum che cercano di fomentano conflitti. I Nuba sono molto uniti, ma sappiamo tutti quanto male possano fare i seminatori di zizzania.”

Per arrivare a Gidel ho percorso in quaranta minuti d’auto i quindici chilometri di pista che fra il 1995 e il 2006 ho fatto a piedi oltre una cinquantina di volte. Ne conoscevo ogni metro, ogni collinetta, ogni cosa che mi poteva servire da punto di riferimento e segnalarmi che mi stavo avvicindo alla meta.

Avevo due punti fissi. Dopo circa cinque chilometri c’era un grande baobab che poi nel 2000 crollò di lato. I baobab sono imponenti ma deboli, il tronco è di legno spugnoso e capita che dentro si svuoti e poi improvvisamente, quando ha magari un paio di metri di diametro, l’albero cade di lato sotto il suo stesso peso, e marcisce. Il legno non serve a nulla, non per costruire e neanche per fare fuoco. Questo particolare baobab, coricato sul fianco e vuoto all’interno, per anni servì di rifugio notturno alle sentinelle dei ribelli che sorvegliavano l’inizio della valle di Komu. Avvicinandomi al posto pensavo che non l’avrei più trovato. Invece eccolo, ha addirittura generato tre nuove piante, là dove il vecchio tronco ha toccato terra! Non ho mai visto un baobab cosi testardo. Autentico simbolo della resistenza nuba, della vita che continua e vince la morte.

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L’altro punto di riferimento dopo altri 5 chilometri era un enorme mango. Qui, un caldissimo pomeriggio di qualche anno fa, Gian Marco ed io ci sdraiammo esausti alla sua ombra, incuranti dei ricordi lasciati da un gregge di capre, giurando che non saremmo mai più fatto quel percorso a piedi in pieno giorno.

Più avanti c’è un bosco. In tempo di guerra, in piena notte, stavo andando a Kerker con un catechista, naturalmente a piedi, quando un un razzo segnaletico rosso si alzò dal quel bosco. Sapevamo entrambi che i ribelli non avevano in dotazione nulla del genere. Era una pattuglia governativa? Io sperimentai per la prima volta cosa vuol dire l’espressione “ghiacciare il sangue”, e anche “mettere le ali ai piedi”.

Sono venuto a Gidel per visitare l’Yusuf Kuwa Teachers Training Insitute, che Koinonia con un finanziamento dell’8×1000 delle Chiesa Cattolica ha costruito nel 2001 e sostenuto per diversi anni. Grande disappunto quando mi dicono che ha chiuso l’anno accademico proprio ieri. Tutte le scuole di tutti i livelli cominciano i tre mesi di vacanza all’inizio della stagione delle piogge, per permettere agli studenti di lavorare nei campi con la famiglia. C’è bisogno di tutte le braccia per assicurarsi che al tempo dei raccolti più importanti – novembre dicembre gennaio a seconda che si tratti di durra, mais, girasole, sesamo, noccioline o fagioli – si possa festeggiare in abbondanza la fertilità della terra e la cura che Dio ha per le sue creature.

C’è ancora un tempo prima del buio. Convinco l’autista ad andare a Sarbule, bisogna girare intorno ad una catena di colline e ci vorrà un’ora. Incredibilmente arriviamo mentre sta per chiudersi la celebrazione di fine anno scolastico. Evitiamo di attraversare un wadi che potrebbe essere pericoloso e facciamo l’ultimo tratto a piedi. Vedo gli edifici della scuola molto degradati, ma la scuola è viva, studenti, maestri e parenti sono in un grande cerchio e stanno distribuendo i premi ai migliori alunni: un quaderno nuovo nuovo al miglior maschio e alla migliore femmina di ogni classe. Quando mi vedono il cerchio si scompone, devo stringere la mano a tutti, fare l’inevitabile discorso. Li ringrazio per l’impegno che ci mettono a mandare avanti la scuola con le solo loro forze, e ascolto tante sentite parole di bentornato. L’ultimo a prendere la parola è Matta, l’anziano capo-villaggio di Kerker, che conclude dicendo “Tu ti muovi troppo, tu vuoi bene a troppe altre persone. Adesso che sei qui non ti lasciamo più andar via, devi restare qui fino al tuo ultimo giorno”. Con esagerato sfoggio di autorità intima all’autista di andar via senza di me. Grande applauso. E’ una prospettiva allettante, e quasi mi dispiace che si convincano troppo facilmente che oggi proprio non posso restare, ma devo promettere che la prossima volta, davvero, tornerò per restarci.

Mi guardo intorno: i volti degli anziani scavati dalla fatica, i piccoli con occhi luminosi di speranza. Quasi tutti a piedi nudi, vestiti con abiti sdruciti che prima di arrivare qui probabilmente hanno girato mezzo mondo. Cosa faccio qui con loro? Cosa mi posso illudere di fare insieme a questi perdenti? Niente, assolutamente niente. Semplicemente questa è la gente che mi vuol bene e riempie di senso la mia vita. Sarei io a essere perso, inutile, senza di loro.

(continua)

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