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September 24th, 2010:

Le Sfide della Missione – The Most Pressing Mission Challenges

Non c’è niente di più deprimente per un missionario che vive e opera agli estremi confini della chiesa che leggere articoli e libri sulla missione della Chiesa. Esperti e teologi ci spiegano come dovremmo essere e quali azioni dovremmo intraprendere per affrontare le grandi e nuove sfide della missione. Poi , di fatto, si resta soli. Col tempo ogni missionario impara a discernere quali sono le cose che è capace di fare, in cui ha qualche talento da spendere, e, con l’aiuto di Dio, cerca di fare qualcosa al servizio del Vangelo. I fallimenti sono inevitabilmente più numerosi che non i successi. Poi, naturalmente, ti rimproverano di esserti isolato. Ti nasce il dubbio di aver sbagliato tutto, di aver tradito la tua vocazione e il carisma del tuo istituto. Di essere missionario solo per un’etichetta che ti hanno cucito addosso.
Qualche anno fa mi ero iscritto per partecipare ad un ritiro spirituale diretto da un grande teologo e scrittore di temi missionari. Avevo letto alcuni suoi testi e li avevo trovati ricchi di ispirazioni. Il tema era stimolante, “Le sfide per la Missione, oggi”. Il corso si sarebbe dovuto tenere in Malawi, un paese Africano normalmente considerato un paradiso turistico. Ma non lo si tenne, perché il famoso teologo lo cancellò all’ultimo momento quando gli fu detto che in Malawi c’è il rischio malaria… Decisi di usare quella settimana per fare un altro viaggio, ma in Sudan, sui Monti Nuba, in Sudan, dove c’erano cristiani per i quali la celebrazione dell’Eucarestia e del sacramento della Riconciliazione erano un lusso che si potevano permettere solo ogni due o tre anni. Fu un’esperienza che mi vaccinò contro le belle parole, parlate o scritte. Imparai a credere di più alla sapienza delle persone semplici – agli stimoli e alle sfide che ci vengono da loro – piuttosto che alla sapienza dei dotti..
Naturalmente non smisi di riflettere su ciò che facevo e che faccio, e non smisi di leggere tutto ciò che gli altri scrivono sul tema, per lo meno i testi che riesco a trovare. Il tenersi vivi e attenti, vigilare, come ci dice Gesù nel Vangelo, non solo nell’attesa del ritorno del Signore, ma anche per approfondire la conoscenza della società e della cultura della gente in mezzo alla quale si vive, è parte integrale della vita di un missionario.
Dopo questa lunga premessa, è chiaro che le sfide che si parano davanti a me, missionario “di strada” – o, come direbbero a Nairobi, “jua kali” cioè che lavora sotto il “sole cocente” – sono frutto delle mie scelte e di una visione assolutamente personale. Non voglio usare, forse non sarei più capace di farlo correttamente, parole come “pneumatologia”, “modelli di chiesa” e “paradigmi missionari”. Posso parlare delle sfide alla mia vita di missionario solo ripensando agli incontri che ho avuto in questi ultimi tempi, agli sguardi che hanno cercato i miei occhi, ponendomi domande magari senza neppur aprire bocca.
Jeannine è nata in Ruanda. Ne è fuggita nei mesi immediatamente seguenti il genocidio del 94, aveva 19 anni, ed è arrivata a Nairobi insieme alla mamma dopo due anni di calvario fra Burundi, Tanzania e Uganda. Adesso è sposata con un connazionale, hanno tre figli, lui fa lo scultore di legno a Kivuli, il centro per ex bambini di strada dove vivo, lei fa i lavori di casa, e,da pochi mesi, cioè da quando i rifugiati ruandesi in Kenya possono legalmente risiedere in Kenya e quindi non si devono nascondere ogni volta che passa un poliziotto, quando ha tempo libero si mette fuori dalla porta della baracca che affittano a Kawangware per abbrustolire e vendere ai passanti pannocchie di mais. Ma questa non è la sua casa e la sua cultura. Vorrebbe rientrare ma non si sente sicura. Lo stesso vale per i molti sudanesi che sono venuti qui ai tempi della guerra civile nel loro paese, e non vogliono tornare perché temono che la pace non duri. I rifugiati a causa di guerre nel mio quartiere sono almeno uno su cinque.
Denis invece è un keniano di 16 anni. La mamma è single, economicamente arrivata, di quella prima generazione keniana di donne emancipate che hanno voluto avere un figlio senza avere un marito. Denis frequenta una scuola privata di ottima reputazione, pagando una retta mensile che corrisponde al salario mensile medio di tanti lavoratori a Nairobi. E’ un privilegiato. Eppure domenica scorsa mi si è avvicinato fuori dalla chiesa dicendomi che voleva confessarsi. Ma come fai a confessarti se non sei cattolico? In realtà Denis voleva fare un colloquio per parlare delle paure e dei sogni del suo futuro, del suo confuso desiderio di approfondire il suo rapporto con Gesù e entrare nella chiesa cattolica, dalla sua incerta identità sessuale, della sua disperata necessità di qualcuno a cui chiedere consigli per orientarsi nella foresta della vita. Mi dice una frase rivelatrice: “I nostri anziani, al villaggio, diventavano adulti attraverso l’iniziazione. Io sono diventato adulto guardando la televisione. Non posso negarlo, mi piace, mi fa sentire in contatto col mondo. Ma non trovo risposte alle mie domande. Mia mamma? E’ un’estranea, anche se le voglio bene perché mi dà tutto”. I giovani in tutta l’Africa non hanno più guida. Le statistiche da decenni ci dicoo che in Africa il 50% della popolazione ha meno di 18 anni. Anche se in molti di loro c’è una forte domanda di spiritualità, la chiesa riesce a raggiungerne pochi, e spesso in modo superficiale, per mancanza di personale apostolico.
Kivuli è punto di ritrovo anche per un gruppo di giovani Luhya, numericamente la seconda etnia del Kenya, tutti adolescenti o poco più, tutti immigrati recentemente dalla stessa zona, tutti in cerca di una borsa di studio e di un lavoro per poter studiare la sera. Anche loro in cerca di un senso per la loro vita. Si ritrovano quasi ogni giorno, si scambiano storie di frustranti giornate sui marciapiedi di Nairobi e si divertono facendo un po di danza e di teatro. Hanno ancora grandi speranze ed un grande senso dell’umorismo sulla loro situazione. Ieri Kasuko, una bellisssima ragazza, imitava gli atteggiamenti lascivi di un potenziale datore di lavoro, mentre Kevin raccontava come avesse rischiato il linciaggio per aver inavvertitamente urtato un anziano passante che si è messo ad urlare “al ladro!”, temendo fosse un borsaiolo. Charles invece è troppo stanco per continuar a andare in giro a cercare un lavoro decentemente retribuito – non chiede molto, gli basterebbero 100 euro al mese – ed ha deciso di aiutare una zia dandole il turno per vendere frutta in un banchetto abusuvo, ai margini della strada. Il papà è una dei tanti sconfitti dalla città, ormai permanentemente ubriaco. Eppure questi ragazzi, nonostante le esperienze negative che hanno sotto gli occhi, continua ad inurbarsi in cerca dell’eldorado, anche perché in campagna, dove in teoria potrebbero avere un vita più dignitosa, il governo non provvede i servizi essenziali.
Mameo è un prode guerriero Samburu. O meglio, lo era. Adesso è venuto in città per accumulare qualche soldo prima di sposarsi, e fa la guardia privata nientemeno che a Kibera, lo slum più grande e più povero di Nairobi. Il primo lavoro, che fa tuttora, è stato per i residenti di un gruppo di baracche poverissime dove non si capisce che cosa si potrebbe rubare. Lo hanno assunto per fare la guardia durante il giorno, quando sono tutti fuori per lavoro, a parte un bambino di 4 anni, gravemente malato, che la mamma è costretta a lasciare in casa da solo. Lo pagano 40 centesimi di euro al giorno. Poi ha trovato lavoro anche come guardia notturna per una famiglia della classe media, in un quartiere residenziale a poca distanza. Quando dorme? Risponde serio serio, non c’è tempo per dormire, adesso devo raccogliere i soldi per poter sposare una buona ragazza. Sospeso fra nomadismo e vita urbana, Mameo è nomade anche religiosamente, ogni domenica va in una chiesa diversa, dove gli capita di passare. Par lui la chiesa non è importante, l’importante è pregare il Creatore.
Sabato il gruppo di donne volontarie che una volta alla settimana vanno a visitare e incoraggiare persone che hanno l’AIDS conclamato, o sono comunque gravemente malate, avevano solo storie tristi da scambiarsi. Due dei loro malati, su circa centoventi, erano morti nella settimana precedente. Altri si stanno lasciandosi morire, avendo perso la speranza di poter accedere ai farmaci antiretrovirali. Un bambino è morto di malaria, e la tubercolosi continua a rovinare vite. Ammalarsi anche di una malattia curabilissima nel mondo ricco, in Africa è una condanna a morte. Agnes scuote la testa, sconsolata, “La cosa migliore che possiamo fare è aiutare i malati a morire sereni, affidandosi a Dio”.
A Kibera, vicino alla casetta che ospita il nostro progetto di prima accoglienza per bambini di strada, vive Musa, musulmano quarantenne. Non un fanatico, ma di fede granitica. Commercia in vestiti usati e nel tempo libero fa l’allenatore di un gruppo di giovani che praticano la lotta tradizionale. Un paio di mesi fa mi ha rivolto la parola per la prima volta, avvicinandomi con un discorso conciso e ovviamente preparato con molta cura: “Mister Kizito (così mi ha chiamato), sono due anni che osservo ciò che tu e gli altri di Koinonia fate per il recupero dei bambini e l’educazione dei nostri giovani. Mi piace ciò che fate. Perché non facciamo delle attività insieme?”. E’ nata cosi l’iniziativa di una competizione di lotta tradizionale. E’ facile collaborare con Musa, è un uomo giusto, senza inganno. Spero che insieme si possano fare anche cose più impegnative a livello di formazione umana.
Sono tutti questi volti che mi vengono in mente. Con loro sono parte del fiume della vita , che mi porta e mi fa sentire immerso nell’inesauribile e sempre mutante complessità della condizione umana. Sono persone povere, umili, che faticano a mantenere se stessi e la famiglia, ossessionati dal mettere insieme ogni giorno qualcosa per mangiare, per pagare l’affitto a fine mese. Sono persone che in molti modi sono in transizione, fra la tradizione e la modernità, in balia di forze sociali, economiche e culturali immensamente più forti di loro. Quando si parla con loro di Dio manifestano una fede genuina. Sono aperti al Vangelo anche se provengono da tradizione religiose diverse. Hanno una carica di speranza e positività che li aiuta a superare difficoltà inimmaginabili.
Io, proveniente da un mondo impregnato da un grande senso di superiorità culturale, rafforzata dalla supremazia tecnologica, con queste persone, non con altre, vorrei condividere il Vangelo di Gesù di Nazareth, anch lui un popolano povero, semplice e buono, un uomo che era capace di avvicinarsi a tutti, con comprensione, affetto, per farli rinascere portarli a Dio Padre. Gesù, che vuol bene alla gente, che accetta tutti e perdona tutto a tutti, che a tutti tende una mano invitandoli a crescere in umanità accettando l’amore del Padre.
Come essere missionario per tutte queste persone che incontro? Quali sono le sfide che mi pongono? Potrei elencare i problemi di giustizia e pace legati alla povertà e al mancato sviluppo, l’urbanizzazione, l’attrazione di una cultura moderna che è impregnata di materialismo, il dialogo con le fedi diverse, sopratutto l’islam. Queste sembrano essere, almeno per me in Africa, le sfide maggiori che ci vengono dall’esterno. C’è una serie di altre sfide che nascono dalle nostre insufficienze di chiesa e di missionari, e che potrebbero essere elencate come: tendenza a presentare la fede come fosse una serie di precetti piuttosto che come rapporto personale con Gesu risorto; la poca attitudine al cambiamento, e quindi l’incapactà di promuovere un’ inculturazione profonda, che non riguardi solo l’esteriorità come gli strumenti musicali o la gestualità durante le celebrazioni, ma le relazioni comunitarie e la formazione cristiana di un popolo di giovani; una presentazione della sessualità umana che ancora risale, nel migliore dei casi, ad una elaborazione fatta in Europa alla metà del secolo scorso, centrata sul cosa non si può fare piuttosto che sul come essere.
Ma la sfida vera sono sono le persone, il loro bisogno di senso e di relazioni. Non un problema, ma una ricchezza, la sola autentica ricchezza della chiesa. La metodologia missionaria è la metodologia di Gesù: andare diritto al cuore delle persone e costruire relazioni e comunità. Se sono cristiano posso guardare agli altri solo come a fratelli o sorelle da capire e da amare. Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo protestante così vicino alla gente da morire in campo di concentramento nazista, ha sintetizzato in una frase l’atteggiamento con cui bisogna bisogna porsi di fronte altri: “Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Chi non sa ascoltare il fratello ben presto non saprà neppure più ascoltare Dio.”
Allora, certamente, la sfida più grande è la mia conversione.
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