Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

La Croce – The Cross

Venerdì Santo. Dio che soffre nella nostra carne, ma anche nel nostro debole spirito, che teme il rifiuto, l’abbandono degli amici e del Padre. Che teme la croce, più che per il dolore fisico, per il disprezzo morale che comporta.
Quando la croce non è presente nella nostra vita, magari ci illudiamo che quando la porteremo, perché la dimensione croce entra prima o poi nella vita di tutti, saremo sicuri di ciò che faremo, che la porteremo, magari piangendo, ma con la nostra dignità intatta, le convinzioni interiori granitiche. Saliremo la montagna guardano verso l’alto, verso l’infinito
Poi il momento viene. La croce magari è più piccola di quanto ti aspettassi, ma sei sul fondovalle, non vedi dove stai andando, hai perso la strada. Quanto manca alla meta? Non ne hai idea, e la stanchezza fisica ti impedisce di ragionare. Ti vien voglia, e ti sembra possibile, di abbandonare tutto e di andartene via. Ma sei intrappolato in un’impresa insensata. Poi, chissà come, chissà da dove ti viene la forza, riesci a rialzarti e rimetterti in cammino. E i dubbi riprendono: sarà la direzione giusta? Ma devo proprio portare tutto questo peso? Ma perché non mi crocifiggono subito risparmiandomi tutta questa strada?
Se, nel più profondo non credessi nella comunione con Lui che ha sofferto sulla croce, tutto ti sembrerebbe inutile e sprecato. Invece sai che tutto in Lui diventerà Luce, Pienezza, Felicità.

KOINONIA: SELF-PORTRAITS BY NAIROBI STREET CHILDREN

Oggi a Nairobi, alla ore 14, nelle sede del British High Commission (cioè l’Ambasciata delle Gran Bretagna in Kenya) ci sarà la presentazione del libro KOINONIA: SELF-PORTRAITS BY NAIROBI STREET CHILDREN di David Fullford, un giovane artista inglese già molto noto. Il libro è già stato presentato a Londra e a New York.
Trovate tutto nel sito
http://portraitsofnairobi.wordpress.com/

Commentare è Difficile

La cronaca politica – o criminale? – italiana che mi capita di leggere sembra quella di un paese che non conosco, o non conosco più. Si resta indignati, ma poi? Poi, quando si va a votare, certi personaggi, come Speroni e Castelli – lecchese, ahimè – vengono rieletti. Allora davvero è un paese ch non riconosco più. Non ho parole. Ho letto molti commenti alle parole di Speroni e di Castelli, Quello dei cristiani di Busto Arsizio che allego é forse un po retorico. Ma bisogna riconoscere che è difficile commentare idiozie criminali come quelle che dicono quei due.
Lettera ai cristiani di Busto della Comunità Cristiana di base – 14.04.2011-1

Il Perdono

Nella scuola superiore dove ogni tanto mi chiamano per parlare agli studenti e celebrare una Messa ho notato che i ragazzi non hanno idea di che cosa sia la confessione. Allora organizzo una catechesi di un paio d’ore. Incomincio chiedendo quali sono secondo loro i valori che Gesù ci ha insegnato. Ne fanno un elenco completo e molto partecipato, si sente che molti di loro hanno capito il messaggio del Vangelo: amore per il prossimo, pace, giustizia, perdono, misericordia, verità, servizio, …. Devo interromperli perché non diventi troppo lungo. Ma l’intervento più inaspettato è quello di Joseph, un sedicenne che frequenta la prima superiore. Joseph, probabilmente per una poliomielite, ha una gamba molto debole, che a volte cede, e quindi si aiuta con una stampella. E’ sempre allegro, e prende sportivamente il fatto che ogni tanto ha bisogno dell’aiuto dei suoi compagni di classe per muoversi e per non cadere. Si fida anche molto di loro, e c’è sempre qualcuno pronto a sostenerlo.
Mentre facevamo l’elenco, subito dopo che uno studente ha detto che il valore più importante è l’amore per Dio e per il prossimo, Joseph alza la mano e, prima ancora di aver ricevuto il permesso di parlare (inusuale, perché un Africa anche i giovani danno molta importanza alla parola e rispettano il diritto degli altri a parlare, osservando semplici regole di dialogo, insomma non si comportano come nei dibattiti televisivi in Italia) dice “la gioa!”. Gli chiedo perché. Mi risponde senza esitazione che un cristiano é sempre contento perché il Signore è risorto, è vivo, ci è vicino. Mi colpisce una risposta cosi profonda e esposta in un modo molto sentito, e la sottolineo perché tutti la capiscano. Poi continuiamo con l’elenco e con la catechesi. Le loro sollecitazioni fanno emergere come la confessione, oltre a donarci il perdono di Dio, sia importante per mantenerci in pace con gli altri, e per continuare a camminare nella direzione giusta. I Masai, dice uno di loro, sanno dove andare a cercare pascoli sufficienti per le loro mandrie anche durate la stagione secca. Se sbagliano direzione mettono a repentaglio la vita degli animali e la loro stessa a vita. Anche noi dobbiamo verificare continuamente dove stiamo andando. Ci stiamo muovendo nel solco della parola di Gesù o nel perseguimento dei valori del mondo?

Dopo una settimana sono in confessionale, cioè in sala professori. Esce un penitente e ne entrano due, uno dei quali è Joseph. Penso mi vogliono avvertire dire che mi stanno aspettando per la Messa. No. Si siedono entrambi sulla panca di fronte a me, e Joseph dice “ci vogliamo confessare insieme perché ci eravamo antipatici, ci facevamo dispetti, a volte dispetti veramente cattivi, ma abbiamo capito che era una cosa sbagliata e per di più anche stupida”, poi prima che mi riesca di dire qualcosa ognuno dei due fa una confessione sincera e completa, di fronte all’altro. Una confessione da ragazzi di quell’età, ma molto onesta , personalizzata, sentita. Do penitenza e assoluzione individuale mentre fra di me cerco di analizzare la stranezza di questa confessione “pubblica” e se ci sia qualcosa che ne infici la validità. Ma sono entrambi evidentemente liberi e contenti di aver fatto pace. Successivamente mi viene un dubbio, parlo loro dopo la Messa, e capisco che nessuno dei due è cattolico, appartengono a due diverse chiese cristiane, dove la pratica della confessione non esiste. Il perdono però lo sanno praticare.

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Una statistica ufficiale ci ha fatto sapere, se ne avessimo avuto bisogno, che il costo del cibo nei mercatini di Nairobi dove si vendono le cose di uso quotidiano è cresciuto del 50 per cento in un anno. Uova, carne, ma anche patate, cavoli, carote, cipolle, sukuma wiki, tutto è vertiginosamente aumentato. Invece i salari sono rimasti gli stessi. Eppure lo stesso ufficio di statistica poche settimane fa annunciava solennemente che l’economia del Kenya negli ultimi due anni ha registrato una crescita di quasi il 7 per cento annuo. Ma chi ne beneficia?

Chirurgia Povera e Vita Piena

In viaggio verso i Monti Nuba (Nord Sudan secondo la geografia politica, Sud Sudan secondo la geografia etnico-culturale) mi son portato due libri sul Sudan di recente pubblicazione in Italia. Non so chi sia proprietario della casa editrice, ma son felice che ci siano ancora editori che pubblicano lavori su temi cosi “secondari”. Se si leggesse di più, cominciando dalla scuola, sui popoli “altri”, si allargherebbero anche i nostri orizzonti mentali, culturali e politici.

“Sudan: Un Conflitto Dimenticato. La lotta del popolo Nuba per non scomparire” di Andrea Bartolini, L’Harmattan Italia, 2010
Per i pochi che si interessano da qualche tempo delle attività di Koinonia e di Amani, questo è un tema ben conosciuto. Bartolini ne presenta una sintesi storico-politico stringata ma precisa e che aiuta a cogliere gli elementi più importanti di un quadro estremamente complicato, inserendo la questione Nuba nella storia del Sudan, partendo dal tardo ottocento fino ad oggi.

La conclusione di Bartolini resta attuale anche oggi, dopo che il Sud Sudan ha manifestato con un referendum pacifico la sua volontà di indipendenza dal Nord, che diventerà ufficiale il 9 luglio prossimo con la nascita della Repubblica del Sud Sudan. Decisione che sancisce definitivamente l’appartenenza dei Monti Nuba (ufficialmente South Kordofan) al Nord Sudan, perché cosi previsto dall’accordo di pace che il Sud ha siglato con il Nord il 9 gennaio 2005.

“Proprio la possibile secessione del Sud, rappresenta un fattore di tensione per la leadership Nuba, perché ciò vorrebbe dire trovarsi isolati all’interno di un’amministrazione che fino a qualche anno fa si è macchiata di atroci delitti e politiche da diversi autori definite genocidarie, senza poter sperare nell’appoggio degli alleati meridionali.
Ancora una volta, i Monti Nuba sembrano essere stati trattati come merce di scambio nel confronto fra Khartoum e Juba, e la situazione non potrà che peggiorare senza una forte volontà di democratizzazione e un impegno serio e puntuale per risolvere le cause che sono state alla base della sollevazione in queste zone, prime fra tutte la depredazione delle risorse naturali e umane e la politica di arabizzazione”
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In altre parole, o il Nord Sudan diventa uno stato democratico moderno e riesce ad amministrare le diversità etniche e culturali come una ricchezza piuttosto che come una minaccia, o continuerà a frammentarsi fino a scomparire. Una speranza che Bartolini non ha prevista – nessuno l’aveva prevista – potrebbe venire dalla “rivoluzione araba” che sembra essere fallita in Libia ma potrebbe avere possibilità di successo a Khartoum, pur in una contesto ben diverso da quello della Tunisia e dell’Egitto.

Il libro di Bartolini è il risultato di una seria ricerca storica e politica, ed è ciò che ci si aspetta da un giovane che si interessa d’Africa da pochi anni. Invece il libro di Giuseppe Meo – “Africa Malata. Memorie di chirurgia povera in Sudan”, della stessa casa editrice, é il frutto di una vita appassionatamente spesa a fianco dei malati negli ospedali più dimenticati dell’Africa. L’ho letto con attenzione perché Meo l’ho conosciuto vent’anni fa e siamo diventati amici, pur incrociandoci troppo raramente. Vi ho trovato pagine che di grande interesse sui principi della chirurgia povera e sulla connessione fra povertà e malattia, che mi hanno confermato la visione che ha sostenuto questo esperto di “chirurgia povera”. Ma sopratutto vi ho trovato, espressa con parole quotidiane e molto misurate, una profonda spiritualità.
Si, il titolo non deve ingannare, questo è un libro di spiritualità. Fra le righe emerge una visone del mondo che è profondamente cristiana, e un senso della propria professione – che sia la chirurgia od altro non importa – come autentico servizio agli altri. In ogni pagina il lettore trova spunti che costringono a riflettere. Mi rendo conto di quanto deve essere stato difficile per lui, sempre riservato, scrivere un testo cosi, mettendo insieme le note che ha raccolto nel corso dei sui viaggi, e nello stesso tempo facendo capire le motivazioni del suo agire.
E’ un libro da raccomandare ai giovani che cercano la proprio strada e vogliono realizzare la pienezza di vita.

Mentre leggevo questi due testi ho viaggiato per i Monti Nuba e sono sulla via del ritorno. Ho visto tante scuole, tanti giovani, (allego qui sotto una foto fatta nella scuola he era di Kerker, adesso trasportata a Sarbule) ho sentito mille opinioni e mille promesse di impegno al servizio della propria gente. Ma cosa succederà durante e dopo le elezioni previste per la prima settimana di maggio?? Chi si impegnerà per un cambiamento positivo e chi si adatterà a qualunque cambiamento avvenga per amore di vita comoda? In incontrato uno dei figli di Philip Ghaboush, prete anglicano a padre del risveglio dell’identità Nuba, fondatore nel 1965 del General Union of the Nuba (GUN). Mi dice: Nei prossimi mesi ci saranno dei passaggi decisivi per valutare il progresso del Sudan verso la modernità. La proclamazione dell’indipendenza del Sud Sudan sarà un atto importante. Ciò che avverrà qui sui Monti Nuba dipende solo da noi. O diventiamo padroni del nostro destino nei prossimi dieci anni, o scompariremo come Nuba. I nostri figli allora non sono non saranno più Nuba, ma si vergogneranno di essere nati da noi.

Un Angelo in Incognito

Ho un amico, A., che vede gli angeli. A volte anche li fotografa, e lì incominciano i problemi fra di noi, perché se non ho ragioni per metter in dubbio le visioni che mi racconta, le sue foto mi lasciano più scettico. La mia formazione da perito meccanico e da fallito aspirante fotografo mi fa vedere una lampadina sovraesposta dove lui vede una presenza angelica. Dove lui, in una foto fatta nella nostra casa di Ndugu Mdogo a Kibera vede il dito di in angelo che indica il cielo e sullo sfondo il volto di un altro angelo, io vedo una combinazione di errori di messa a fuoco e di esposizione per cui il ditino che Wallace stava per mettersi nel naso è risultato chiarissimo mentre la sciabolata di sole sul viso di Eliud circondato da volti neri nella stanza buia gli dà effettivamente un aspetto evanescente, eventualmente però più simile ad un fantasma che ad un angelo.

Settimana scorsa A. mi ha scritto, mettendo altri due amici in copia, di aver visto in una trasmissione televisiva in Italia due persone che dicono di aver fotografato degli angeli durante un incidente aereo, poi finito bene. Adesso A. li vuole contattare per comparare le foto. Uno degli amici in copia, B., che è un vero mistico e che scrive bellissime poesie, gli ha risposto: “io lascerei perdere le “immagini” del sacro. Nei suoi bellissimi scritti San Giovanni della Croce (insieme ad altri grandi mistici) ci suggerisce come ci si debba liberare delle manifestazioni “sensibili” di Dio, false o autentiche che siano. Penso che l’unica cosa interessante sia la ricerca di Dio nel cuore, dove non vi è nulla di eclatante ma solo un rapporto profondo di amore silenzioso, oscurato da tenebre che lo custodiscono.”

Partecipo a questo scambio di corrispondenza in email mentre sono a Lusaka., in visita a Mthunzi, e, pur nel mio scetticismo, il pensare agli angeli ha stimolato una riflessione sulla vera natura di Noah. Che é un ex bambino di strada come tanti altri, che non emerge in nessun modo, solo un po più timido e obbediente. E’ arrivato da noi lo scorso giugno, avrà sei anni adesso, ed ha cominciato a frequentare la prima elementare all’inizio di quest’anno. Una caratteristica che lo distingue è di essere l’unico bambino africano che ho conosciuto in quasi quarant’anni – il mio primo viaggio in questo continente ormai risale al luglio 1971 – che non balla, non canta, non suona il tamburo, non batte il tempo in nessun modo. Ma la caratteristica più straordinaria è il sorriso.

Noah ha sorriso trasognato, interrogativo, sorpreso, ma pieno di dolcezza e di comprensione. Che non ti prende in giro, non giudica. E’ impregnato di una sapienza che viene da lontano ed ha una sfumatura di distacco, a volte di scetticismo. Che non ti mette a disagio, anzi, ti fa sentire benvoluto . Sembra che dica, mentre si mette in disparte e guarda gli altri che ballano improvvisando un ritmo su una pentola rovesciata. “ma guarda questi simpatici mattacchioni, chissà perché si divertono a fare sta cosa, comunque sono proprio bravi”. Altre volte si guarda intorno con un sorriso perplesso, come si domandasse “ma io qui, come ci son capitato?”

A. mi ha contagiato, ed ho cominciato a pensare che Noah sia un angelo in incognito. Ma quando ho tentato di fotografare quel suo sorriso più enigmatico di quello della Gioconda non sono mai riuscito a catturarne il mistero. In foto diventa un sorriso qualsiasi. Al contrario delle foto di A., dove si vede ciò che non esiste, le mie non riescono a catturare ciò che è visibile a occhio nudo. Ve ne metto qui sotto una delle tante che gli ho fatto in questi giorni, sempre insoddisfatto per non essere riuscito a cogliere le misteriose e mutevoli qualità del suo sorriso.

La sera, ogni volta che rientro a Lusaka, godo di uno straordinario privilegio; sono l’unico spettatore di uno spettacolo che i bambini di Mthunzi fanno solo per me. Mettono una comoda sedia al centro dello spazio che usano per questo scopo, io mi ci siedo, e tutti vanno in scena. Lo staff non assiste perché ha visto questi spettacoli centinaia di volte. I bambini si scatenano e fanno cose straordinarie. A me sembra sempre che questi spettacoli siano immensamente più belli di quelli che fanno davanti agli altri, perfino di quelli che li ho visti fare in Scozia, durante una delle loro uscite internazionali.

Da quando c’è Noah, il rito cambia, perché anche lui fa lo spettatore. Si siede in terra, davanti a me,e usa i miei stinchi come schienale. Ogni tanto si gira e mi guada in su, con un sorriso che vuol dire “ma ti rendi conto di quanto siano bravi questi miei fratellini?”

In una cosa Noah non assomiglia per niente agli angeli. A tavola mangia fettone di polenta con manciate di pesciolini secchi che a me manderebbero in catalessi. Forse già mentre contemplava il volto di Dio dall’inizio dei tempi, pensava ad una pausa con “pulenta e pesit”, come si usava a Lecco, e adesso che ne ha l’occasione non si tira indietro. Non lo so, non mi faccio domande di spiritualità o di teologia, mi dico solo che – sia un angelo in libera uscita o un bambino con anni di fame arretrata – io ho la responsabilità di nutrirlo. Se è a Mthunzi é perché doveva venire qui.

Ieri notte, dopo lo spettacolo, ho fatto un sogno. Era la fine del mondo, e mentre mi avvicinavo agli angeli incaricati di discernere gli eletti, ho pensato che non fossero molto simpatici, e che poi magari erano fra quelli che si divertivano a giocare a nascondino nelle fotografie di A. Un gioco un pò sciocco, a dir poco. Ho fatto male, perchè evidentemente mi hanno letto nel pensiero, mi hanno afferrato e buttato come un sacco là dove c’è pianto e stridore di denti. Mentre cadevo nel baratro, due manine, odorose di pesce secco, mi hanno afferrato e portato al cospetto di Dio. E Noah, con la sua vocina intercedeva per me “Perdonalo, Padre, è stato davvero per tanti un rompiscatole non da poco, ma con me è stato buono, mi ha dato tante buone cose da mangiare, non dimenticherò mai la sua pulenta e pesit”. E Dio ha sorriso e mi ha preso a riposare nelle Sue Mani.

Erano Sette Bambini Impauriti

Sabato scorso la polizia ci ha portato dodici bambini a Ndugu Mdogo Home, a Kerarapon., e due bambine alla Casa di Anita, dopo aver forzatamente chiuso la casa che li ospitava, a una decina di chilometri da noi. Ci hanno raccontato che in quella casa c’erano oltre cento bambini, con camere, cucina e servizi insufficienti, con pochissimo cibo e una routine quotidiana quasi militaresca, i bambini costretti ad ascoltare istruzioni su temi che non capivano. L’assurdo è che molti dei bambini hanno una famiglia normale e avrebbero potuto essere a casa, tanto che il papà di uno dei bambini portati da noi è un piccolo commerciante della zona, benestante secondo tutti gli standard.
Perché allora erano in una casa per bambini di strada? I responsabili della piccola associazione che gestiva la casa, quando si aspettavano la visita di un gruppo di donatori europei, e volevano far vedere di avere la casa piena e di conseguenza aver bisogno di sostanziosi aiuti economici, andavano nelle zone più povere di Ngong e proponevano ai genitori di lasciare che i loro figli partetipasero a un corso, un workshop, di un paio di settimane per i loro figli, il tutto gratuito. Per molte famiglie che fanno fatica a mettere in tavola cibo sufficiente per tutti, la proposta era troppo allettante per poter essere rifiutata. La cosa, sembra, succedeva con regolarità, due o tre volte all’anno. A delegazione partita, i bambini venivano riportati in famiglia, a parte un piccolo gruppo di una decina che era sempre presente nella casa.
Quando sono arrivato da noi erano pulcini impauriti e bagnati. Quella sera pioveva e non avevano nessuna protezione. Il giorno dopo le due bambine e cinque bambini erano già riunificati alla famiglie. Quando ho fatto la foto qui sotto ai sette bambini rimasti, erano già abbastanza integrati e Shirò, la figlia di Anne, responsabile di Ndugu Mdogo Home, era sempre con loro.
Adesso i nostri operatori di strada stano aiutando la polizia a riunificare i bambini alla famiglie, e pensiamo che per fine settimana saranno tutti a casa.

Riccardo Muti a Nairobi – Riccardo Muti at Nairobi

Comunicato stampa del Ravenna Festival

Le vie dell’amicizia
Piacenza-Ravenna-Nairobi

É a Sarajevo che, nel 1997, è cominciata l’avventura delle Vie dell’Amicizia, il ponte di fratellanza attraverso l’arte e la cultura, divenuto momento irrinunciabile di Ravenna Festival. Oggi, come quindici anni fa, è ancora una chiamata a segnare il cammino del Festival che ora punta al cuore dell’Africa per una grande festa della musica e dello stare insieme che avrà luogo sabato 9 luglio a Nairobi, capitale del Kenya.

Una chiamata arrivata al termine del concerto che Riccardo Muti ha tenuto, con l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, poco più di un anno fa al Teatro Municipale di Piacenza a sostegno delle attività di Francesca Lipeti, medico piacentino che opera in Kenya dal 1994, e di Padre ‘Kizito’ Sesana, missionario comboniano in Africa dal 1977 e fondatore delle comunità Koinonia.

In quell’occasione furono presentati a Riccardo Muti un’idea, un sogno: dedicare un concerto alle genti delle baraccopoli cresciute al margine della metropoli di Nairobi con l’intento di sensibilizzare gli animi – grazie al messaggio universale che la grande musica contiene e trasmette senza confini – e portare un segno di tangibile solidarietà e sostegno ad alcuni progetti mirati allo sviluppo ed alla promozione sociale della baraccopoli di Kibera, mai censita nelle sue dimensioni, ma senz’altro la più grande dell’Africa sub-sahariana.

Alla disponibilità immediata di Muti si sono affiancati il Festival di Ravenna e la città di Piacenza (con la collaborazione di Amani, un’associazione laica di cui Padre Kizito è tra i fondatori e il cui impegno è rivolto in particolare alla cura, all’educazione e alla crescita dei bambini più soli in Kenya, Zambia e Sudan), Rai Trade e Rai 1 (che trasmetterà in Italia l’evento) per gettare le basi organizzative del progetto che oggi viene presentato ufficialmente.
Il progetto fin dalle prime fasi organizzative è stato accolto con grande entusiasmo dalla municipalità di Nairobi e reso possibile grazie alla preziosa collaborazione della nostra sede diplomatica in Kenya e dell’Ambasciata della Repubblica del Kenya in Italia.

Una grande festa, aperta a tutti gratuitamente, che la mattina del 9 luglio si svolgerà nella cornice del popolare Uhuru Park (Parco della Libertà) di Nairobi, cuore verde della città, per una scelta che vuole propiziare la partecipazione della popolazione degli sterminati slums che circondano la metropoli. Una festa con e per questa dolente ed umile umanità che, soprattutto nei piccoli e nei più giovani dei suoi componenti, non ha perso la capacità di sorridere ancora alla vita e di sperare in un futuro migliore.

Riccardo Muti dirigerà la Cherubini, a cui si affiancheranno i ragazzi dell’Orchestra Giovanile di Nairobi, con la presenza festante sul palcoscenico della gioventù africana accolta e aiutata dai numerosi missionari italiani (ex bambini di strada provenienti da Kibera e dagli altri slum che si esibiranno con acrobazie, canti e ritmi sulle loro percussioni tradizionali).

Il programma che prevede un’alternanza di sinfonie, arie e duetti del più popolare repertorio italiano sarà concluso dal coro del ‘Va pensiero’ eseguito da oltre 200 giovanissimi allievi delle missioni italiane a Nairobi coordinati da Padre Kizito e da Nino Valerio, ravennate da anni attivo nella metropoli africana per conto dell’Associazione Volontari per il Servizio Internazionale (Avsi).

Un Comitato Promotore dell’evento di solidarietà che affianca il concerto, presieduto dal sindaco di Piacenza Roberto Reggi, sarà costituito al fine di accogliere donazioni da soggetti privati e pubblici di Piacenza e Ravenna dando vita ad un progetto di aiuto concreto: borse di studio per ex bimbi di strada e per giovani meritevoli di proseguire in specifici percorsi formativi; sostegno sanitario per un centro-medico in terra masai, come supporto ad una realtà rurale particolarmente bisognosa di assistenza; risorse e dotazioni logistiche per garantire il funzionamento di un centro di prima accoglienza per bambini nella baraccopoli di Kibera.

Il ponte di amicizia partirà dall’Italia con i due concerti in programma a Piacenza (6 luglio) e Ravenna (7 luglio).

Il Papà di Wanjohi

Wanjohi ha 16 anni e pochi minuti fa abbiamo dovuto dirgli che suo papà é stato trovato morto in strada, al mattino. Non vittima di violenza, piuttosto vittima della vita che conduceva da anni.
La moglie era morta di AIDS da tempo. Con lui, Waweru, la malattia ha avuto un decorso molto più lento, pur senza che facesse nessuna cura, probabilmente solo perché dotato di un fisico più resistente. Lentamente però si è lasciato andare, il banchetto di frutta e verdura che dava da vivere alla piccola famiglia – Wanjohi era l’unico sopravvissuto di tre figli – si é prima ridotto a qualche mucchietto di pomodori e cipolle posati per terra, poi è scomparso del tutto, e Waweru ha cominciato a vagare per Kabiria Road prestando le sue braccia per fare qualche piccolo lavoro, poco più che sufficiente per procurargli da mangiare. Ormai da mesi dormiva in strada, rifiutando ogni aiuto. Poi la malattia ha avuto il sopravvento.
Waweru avrà avuto poco più di 40 anni, apparentemente una vita fallita, eppure c’era una cosa che lo rendeva orgoglioso e felice, e la raccontava sempre a tutti: “mio figlio Wanjohi vive a Kivuli, anzi negli ultimi due anni frequenta la scuola superiore, alla Domus Mariae, e gli insegnanti dicono che è un ragazzo molto bravo e intelligente”. Quando riusciva a mettere da parte qualche spicciolo, magari il corrispondente di un euro in una settimana, lo portava a Wanjohi perché si comprasse qualcosa di più. Era una scena che si svolgeva davanti agli occhi di tutti, quest’uomo che sembrava ormai un vecchio, che aspettava pazientemente il figlio vicino al cancello di Kivuli, e quando lo vedeva rientrare dalla scuola gli metteva in mano qualche soldo.
Adesso, alla notizia della morte del papà, Wanjohi cerca di trattenersi, poi si lascia andare in un pianto da bambino. Io prego che il semplice gesto d’amore del papà gli resti sempre inciso nell’anima.

Sudan: i Nuba e l’Imminente Indipendenza del Sud

Nelle scorse settimane l’attenzione internazionale è stata richiamata dal referendum sull’indipendenza del Sud Sudan, un voto storico che corona l’Accordo di pace globale (CPA) firmato nel 2005 dal governo centrale del Sudan e dall’Esercito di liberazione popolare del Sudan/Movimento (SPLM/A) per mettere fine a una lunga guerra civile che ha causato oltre due milioni di morti.
Dai primi risultati sembrerebbe che i sud sudanesi abbiano scelto di separarsi formando un nuovo Stato. Le immagini dei sud sudanesi euforici perché si lasciano finalmente alle spalle un passato di sangue sono state ampiamente diffuse da giornali e televisioni, ma in tutta questa copertura mediatica emerge un vuoto eclatante: la sorte delle popolazioni dei Monti Nuba, una regione schiacciata tra il Nord e il Sud Sudan, che durante la guerra civile ha combattuto dalla parte del Sud.
L’ex presidente dell’SPLM, John Garang, si recò per la prima volta in visita sui Monti Nuba nel dicembre 2002. Incontrò centinaia di delegati all’ombra di un bosco di manghi a Kauda, cittadina nel cuore delle zone liberate dallo SPLA. Motivo della sua visita era partecipare alla All Nuba Conference (Conferenza di tutti i Nuba), istituzione politica democratica unica dei Monti Nuba durante la guerra civile, costituita dai rappresentanti di tutte le comunità Nuba e delle tribù arabe nomadi allo scopo di deliberare su questioni riguardanti la sopravvivenza del popolo Nuba. Yusuf Kuwa, il carismatico leader dei Nuba e alto comandante dello SPLA, aveva convocato per la prima volta la All Nuba Conference nel 1991, dopo che il regime di Khartoum aveva scatenato una repressione senza pietà e una jihad contro i Nuba. Kuwa chiese ai Nuba se volevano continuare la loro rivolta o arrendersi. La risposta collettiva fu a favore della continuazione della ribellione contro Khartoum.
Fu una decisione senza ritorno. Da allora i Nuba hanno appoggiato pienamente lo SPLA e vissuto anni di reinsediamenti coatti, distruzioni, bombardamenti, uccisioni, senza mai vacillare nella loro determinazione di stare con il Sud.
Davanti a quei delegati a Kauda, Garang promise che «lo SPLA non vi deluderà. Qualsiasi accordo raggiungeremo… includerà anche voi». Fu solennemente promesso ai Nuba che sarebbero stati presi in considerazione nell’accordo di pace che si stava allora negoziando a Naivasha. Due giorni dopo le parole di Garang, presi nota del commento di Adam, un vecchio amico Nuba che era rimasto nella sua terra a Kauda: «Ora siamo sicuri. Garang ha parlato. Staremo con il Sud».
Non sarebbe stato così. La promessa solenne non è stata mantenuta. I Nuba – che avevano dato mandato allo SPLA di garantire che durante i negoziati sarebbero stati rispettati i principi di autodeterminazione, equa distribuzione del potere, delle ricchezze e soprattutto della terra e che il loro destino sarebbe stato strettamente legato a quello del Sud – sarebbero andati incontro a un’amara delusione. Quando l’Accordo globale di pace (CPA) fu finalmente firmato a Nairobi, i Nuba scoprirono che non avevano nemmeno ottenuto il diritto di partecipare al referendum sull’indipendenza. Con il CPA, lo SPLA/M accettò il principio che i Monti Nuba, ufficialmente parte dello Stato del Kordofan meridionale, sarebbe rimasto al Nord. La stessa sorte fu decisa per la popolazione del Nilo azzurro meridionale, un altro territorio conteso vicino al confine del Sudan con l’Etiopia. I due territori hanno condiviso la sofferenza degli anni di guerra civile ma sono ora esclusi dal risultato dell’autodeterminazione. È soltanto ad Abyei – piccola area di confine che non ha mostrato alcuna particolare volontà di combattere con il Sud durante la guerra civile – che alla popolazione è stato garantito il diritto di scegliere a chi vuole appartenere. Ma la gente di Abyei gode anche di un vantaggio particolare: la loro terra è ricca di riserve petrolifere.
I Nuba sono la prima popolazione etnicamente e culturalmente africana che si incontra viaggiando verso sud da Khartoum. La loro posizione geografica (con un deserto al Nord e le paludi al Sud) li ha sempre mantenuti isolati e, nei secoli, la loro determinazione a restare ancorati alla propria cultura e religione ancestrale è stato un ostacolo alla diffusione della cultura araba e musulmana nella zona attualmente conosciuta come Sud Sudan. Soltanto all’inizio del secolo scorso sono avvenute alcune irruzioni/incursioni. Tuttavia, fu nei Monti Nuba che, già nel 1965, un prete anglicano Nuba, Philip Ghabbush, formò l’Unione Generale dei Monti Nuba (GUN) e avviò la campagna per l’autodeterminazione.
Alla fine degli anni Ottanta, la leadership dei Nuba passò a Yusuf Kuwa, un uomo più giovane e carismatico, nato in una famiglia musulmana. Dopo diversi tentativi falliti di ottenere una garanzia politica per il riconoscimento dei diritti Nuba – soprattutto il diritto alle terre strappate ai Nuba e assegnate a società e gente di Khartoum per avviare «fattorie meccanizzate» – Kuwa si unì allo SPLM/A nella lotta armata e diventò il punto di riferimento per tutti i Nuba.
Ne derivò una brutale repressione governativa, che rimase inosservata e incontrastata per oltre un decennio. Con l’attenzione internazionale puntata sul conflitto nel Sudan meridionale, Khartoum isolò la regione dal 1991 al 1995. Dal 1991, i Nuba, tagliati fuori perfino dallo SPLA del Sud, combatterono da soli senza rifornimenti, dipendendo unicamente dal supporto locale. Tuttavia, con la leadership di Kuwa e nel bel mezzo di una carestia di tre anni, istituirono un’amministrazione civile operativa e un sistema giudiziario che integrava la legge tradizionale. Kuwa sostenne fermamente la tolleranza religiosa e sotto la sua leadership i Nuba non hanno mai conosciuto i conflitti intertribali che hanno invece sconvolto lo SPLA in altre zone del Sud. Ma tutti questi risultati non hanno sempre giocato a favore di Kuwa. Molti leader del Sud erano chiaramente infastiditi dalla crescente popolarità che aveva raggiunto prima di morire nel marzo 2001.
Al suo culmine, la guerra civile sui Monti Nuba non fu un semplice conflitto per sconfiggere i ribelli che avevano importato la ribellione dello SPLA dal Sud “Africano” al Nord “Arabo”. Come ha osservato Julie Flint, giornalista inglese e prima outsider a visitare i Nuba nel 1995, «si è trattato di un programma di ingegneria sociale per spostare l’intera popolazione dalle aree in rivolta in campi che avrebbero cancellato l’identità Nuba. Agli inizi degli anni Novanta, l’esercito e le milizie paramilitari delle Forze di difesa popolare (PDF) hanno ucciso tra i 60 e i 70 mila Nuba in appena sette mesi. Massicce offensive militari sono state condotte nel nome della jihad. È stato negato l’accesso agli aiuti umanitari. Leader di comunità, gente istruita e intellettuali sono stati arrestati e uccisi per fare in modo che i Nuba non avessero più voce per denunciare la loro situazione».
Migliaia di giovani Nuba sono partiti per il Sud, mettendo a rischio la propria vita, per combattere nelle forze dello SPLA. Il loro contributo al lungo conflitto in corso non è sempre stato pienamente riconosciuto. Ora, con l’imminente proclamazione dell’indipendenza del Sud, i Nuba si ritroveranno isolati nel Nord Sudan, sotto un governo che appena pochi anni fa intraprese azioni genocide contro di loro e potrebbero non ricevere alcun aiuto dal Sud. «Ancora una volta – mi racconta uno sconsolato Nuba – siamo stati trattati come merce di scambio nel confronto tra Juba e Khartoum». La prospettiva che il presidente del Nord Sudan possa diventare ancora più intollerante in campo religioso fino al punto di applicare la sharia non è un buon auspicio per un futuro democratico e rappresenta una grave minaccia per le decine di migliaia di Nuba convertiti al cristianesimo. Anche i resoconti degli spostamenti militari non sono positivi: fonti molto attendibili riportano che la presenza militare nel Kordofan meridionale è aumentata con truppe pesanti passate da 15 a 45 mila uomini, la maggior parte dei quali dislocati lungo la linea di confine della parte più meridionale dei Monti Nuba – e dello Stato del Nord – con il Sud.
Oggi, mentre i Nuba si uniscono ai loro fratelli e sorelle dei Sud nel celebrare la nascita di una nuova nazione, il loro destino è molto incerto. Un rapporto del 2008 del Gruppo internazionale di crisi ha parlato dei Monti Nuba come del «prossimo Darfur», a causa della loro marginalizzazione, dell’incertezza politica e della potenzialità di scoppio di un conflitto. Quello che il CPA prevede per i Nuba e per l’area del Nilo azzurro meridionale nell’immediato futuro dipende da quelle che vengono denominate «consultazioni popolari». La separazione tra Nord e Sud Sudan sarà completata entro il 9 luglio di quest’anno; una consultazione popolare dovrebbe avere luogo prima di quella data per determinare il destino dei Nuba. I termini di questa consultazione non sono molto chiari nel CPA: secondo l’interpretazione comune, ci saranno elezioni governative e parlamentari nel maggio o giugno 2011, e i leader eletti indicheranno la strada da percorrere in seguito. Se il nuovo governatore e la maggioranza dei parlamentari locali vengono dal ramo dello SPLM nei Monti Nuba, ci sarà la vaga possibilità che possano indire un referendum per chiedere ai Nuba se vogliono staccarsi con il Sud o restare nel Nord. Altrimenti, la partita è conclusa e i Nuba, in un prevedibile futuro, resteranno parte del Nord. E data la loro situazione di marginalizzazione, la possibilità di elezioni manipolate dal Nord è estremamente alta.
Si può solo sperare che la volontà di pace e riconciliazione prevalga anche nel Nord e che il regime di Khartoum, avendo imparato la lezione dal lungo conflitto nel Sud e nel Darfur, si impegni ad affrontare le questioni da lungo tempo irrisolte alla base della battaglia dei Nuba: per prima cosa, il riconoscimento della dignità dei Nuba e il loro diritto a godere di un certo grado di autonomia nell’amministrazione della loro area; in secondo luogo, la depredazione delle risorse naturali e la politica di arabizzazione e islamizzazione insieme al tentativo concreto di sradicare la cultura indigena Nuba.

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