Per anni è stata la “guerra dimenticata” per antonomasia. Ogni volta che un giornalista “riscopriva” che in un angolo d’Africa chiamato Sudan – un angolo per modo di dire, visto che il solo Sud Sudan è vasto ben oltre tre volte l’Italia – c’era ancora in corso una guerriglia cominciata nel 1982, l’inevitabile cliché diventava parte del titolo. Poi, da quando il 9 gennaio 2005, dopo due anni di negoziati, a Nairobi è stato firmato un complicatissimo trattato di pace – che gli addetti ai lavori chiamano Comprehensive Peace Agreement (CPA) – è diventata la “pace dimenticata”. In attesa che si riaccenda la guerra?
Scetticismo a parte, è impressionante che ci siano stati tanti sforzi per far terminare la guerra e poi si sia fatto molto poco per consolidare la pace. Stati Uniti ed alleati europei non hanno esitato e evocare, durante i negoziati, sia al Nord che al Sud, da un lato, il bastone di sanzioni internazionali, tagli alla cooperazione e isolamento politico e, dall’altro, la succulenta carota dello sviluppo economico, esportazioni di petrolio senza limiti, abbondanti aiuti umanitari. Oggi però sembrano tutti disinteressati a quanto sta avvenendo.
Ho visitato il Sud Sudan poco tempo fa. Le aspettative e le emozioni in preparazione del referendum previsto dal CPA entro gennaio 2011 hanno creato un’atmosfera di euforia che offusca i pericoli reali. La popolazione è chiamata a scegliere tra una forma di federazione col Nord e l’indipendenza. Non ho mai conosciuto un sudsudanese che non volesse la completa autonomia dal Nord. Nemmeno John Garang, che pure affermava la sua voglia di unità solo per ragioni di politica internazionale.
Che quindi il prossimo gennaio il Sud Sudan voti quasi unanimemente per l’indipendenza è scontato. Le divisioni storiche, culturali, sociali, religiose fra il Nord e il Sud sono troppo profonde per essere sanate in cinque anni. E questo era facile da prevedere. Ma si dovevano prevedere e prevenire anche le condizioni che potrebbero portare al ritorno della guerra, o alla frammentazione del Sud Sudan in un non-Stato, che rischia di assomigliare molto da vicino all’attuale Somalia.
È evidente, infatti, che il Nord non ha nessuna intenzione di lasciar che il Sud si separi, portandosi via tutto il petrolio che contiene, e farà di tutto per dividerlo e indebolirlo.
In settembre, il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, in un discorso a un comitato del Congresso americano, ha solo brevemente accennato al Sudan. Rispondendo a una domanda specifica, ha aggiunto che i rapporti fra Nord e Sud Sudan, nel contesto del referendum che si sta preparando, sono «una bomba a orologeria pronta a scoppiare». Bella scoperta!
La lista dei ritardi e delle inadempienze del CPA è lunga. Non solo si è fatto poco per rendere l’unità del Paese appetibile ai sudisti, come prevede il CPA, ma si è stati a guardare – o si è fatto finta di non vedere – che le due parti si stavano riarmando. Si sono lasciati proliferare gli abusi dei diritti umani e la corruzione. Si sono accettate senza batter ciglio le elezioni come quelle dello scorso aprile, ben lungi dall’essere libere e democratiche. Si è lasciato che nel Sud si consolidassero le tendenze accentratici e dittatoriali dell’Splm. Il Sud Sudan – o comunque si chiamerà il nuovo Stato che nascerà dall’inevitabile scissione – sta ripetendo tutti i peggiori errori delle indipendenze fallite. Come il Congo, la Nigeria, la Repubblica Centrafricana, per nominarne solo alcune: Paesi che dopo anni di indipendenza formale sono ancora tutti da inventare come Stati dignitosamente indipendenti.
Per il Sudan l’inadempienza più grave, nonché quella che potrebbe avere le conseguenze più drammatiche – è connessa alle rivendicazioni sugli enormi campi di petrolio che giacciono sul confine fra Nord e Sud. Confine che avrebbe dovuto essere definito entro sei mesi dalla firma del CPA e che non è ancora stato demarcato. Alcuni lunghi tratti non sono ancora tracciati per ragioni etniche, altri sono stati contestati. Ormai il tempo stringe. Superare l’impasse non è più solo un compito da tecnocrati: deve intervenire la volontà politica di Khartoum e di Juba.
Invece la tensione sale ogni giorno. Alle tanto bellicose quanto inopportune dichiarazioni dei rappresentati del Sud, il Nord reagisce ostacolando metodicamente il dialogo e il lavoro di preparazione del referendum. Più si avvicina il mede di gennaio, più aumenta la possibilità che si torni a un conflitto armato. Non c’è volontà di superare insieme gli ostacoli, piuttosto ciascuna delle due parti fa ogni possibile mossa perché, nel caso si ritorni al conflitto armato, la responsabilità appaia essere dell’altra parte.
La minoranza di islamisti intransigenti e fanatici che controlla il Nord sembra contare sulla sua capacità di lasciar passare le tempeste, riassorbire il dissenso, alimentare le divisioni nel campo avversario. Vedi il silenzio mediatico che sono riusciti a far calare sul Darfur, nonché l’inefficacia del mandato di cattura spiccato da parte della Corte Penale Internazionale contro il Presidente Omar al-Bashir.
Forse il Sud pensa che, nel peggiore dei casi, sia possibile una veloce guerra di secessione, immaginando si essere appoggiati dalla comunità internazionale. I leader sudisti, infatti, non si considerano più dei “ribelli”, ma rappresentanti democraticamente eletti dalla popolazione, in elezioni che sono state per lo meno formalmente riconosciute come libere.
Anche lo scontro per il controllo delle riserve petrolifere, con tutti i mezzi e mezzucci possibili, é inevitabile.
A meno che non ci sia qualche accordo o qualche piano conosciuto solo nei corridoi della diplomazia internazionale, e delle companie che commerciano in armi. Non è possibile, infatti, che Hillary Clinton e la cosiddetta “comunità internazionale” non si accorgano di cosa sta succedendo, non abbiano previsto tutti gli scenari possibili e non abbiano dei piani di intervento. Davvero Obama e la Clinton stanno solo ad aspettare che la bomba ad orologeria scoppi prima di intervenire? Il Sudan non è solo terreno di scontro economico. È un banco di prova importantissimo per i rapporti fra Stati Uniti e mondo arabo. Agli inizi degli anni Novanta, Khartoum era la base operativa di Osama bin Laden e senz’altro molti nordisti sarebbero pronti a dare ospitalità ad Al-Qaeda. In questo scenario, un nuovo conflitto armato in Sudan sarebbe un fattore di destabilizzazione gravissimo, in un Corno d’Africa che è già una polveriera.
L’indipendenza del Sudan, sia del Nord che del Sud, è ancora un lungo e difficile processo, ad alto rischio di diventare sanguinoso. E’ un treno in corsa, e se anche al momento alcuni dei manovratori paiono distratti, saranno loro che al momento opportuno cercheranno di intervenire per determinarne la direzione.
For years it was the “forgotten war” by definition. Every time a journalist “discovered” that in a corner of Africa called Sudan – a corner so to speak, as only Southern Sudan is vast as Central Europe – there was still an ongoing guerrilla war that had began in 1982 , the inevitable cliché became part of the title. Later, since 9 January 2005, when after two years of negotiations a complicated peace treaty – that the experts called Comprehensive Peace Agreement (CPA) – was signed in Nairobi, it has become the “forgotten peace”. Waiting for a rekindling of the war?
Skepticism aside, it is true that there have been many efforts to end the long civil war but very little has been done to consolidate peace. The U.S. and its European allies during negotiations have not hesitated to evoke, both to the North and the South, alternatively the stick of international sanctions, cuts in cooperation programmes and political isolation, and the juicy carrot of economic development, limitless oil exports and abundant humanitarian aid. But today all seem uninterested in what is happening in Sudan.
I visited Southern Sudan recently. Expectations and emotions in preparation for the referendum scheduled according to the CPA in January 2011 have created an atmosphere of euphoria that obscures the real dangers. People will have to choose if staying united with the North or go for complete independence. I have never known a South Sudanese who did not want full independence from the North, even John Garang, who was affirming his belief in a united secular Sudan only for international political reasons.
So, that next January, the South Sudan people will vote almost unanimously for independence must be taken for granted. The historical divisions, cultural, social and religious differences between North and South are too deep to be healed in five years. And this was easy to predict. But the international community should have predicted and prevented also the conditions that could lead to the return of war, or to the fragmentation of South Sudan as a non-state, with the risk of creating another Somalia.
It is clear that the North has no intention of letting the South go – taking with it all the oil it contains – and will do everything to divide and weaken it.
In September, U.S. Secretary of State, Hillary Clinton, in a speech to a committee of the American Congress, alluded to Sudan only briefly. Then, answering a specific question, she added that relations between North and South Sudan, in the context of the referendum that is being prepared, are “a time bomb ready to explode.” Discovery!
The list of delays and failures of the CPA is long. Not only little has been done to make the country’s unity attractive to Southerners, as required under the CPA, but the international community has pretended not to see that the two sides were rearming. It has allowed the proliferation of human rights abuses and corruption. It has accepted without flinching elections like those of last April, that were far from being free and fair. It has allowed the Sudan People’s Liberation Movement (SPLM) in the South to consolidate centralist and dictatorial tendencies. Southern Sudan – or whatever the new state that will be born by the inevitable division will be called – is repeating all the worst mistakes of the failed independences. Like Congo, Nigeria, Central African Republic, to name a few: Countries that after years of formal independence are still to be built up as dignified independent States.
The most serious failure, and the one that might have the most tragic consequences – is related to the claims on the huge oil fields that lie on the border between North and South, a boundary that was supposed to be demarcated within six months of signing the CPA. Up to now some long stretches have not yet been demarcated because of ethnic tension, with others stretches being questioned. Now the clock is ticking. To overcome the impasse is not just a job for technocrats, political good will is important.
The tension mounts every day. To the bellicose as well as inappropriate statements made by representatives of the South, the North reacts with methodical obstruction of the dialogue and of the preparatory work of the referendum. The closer we get to the referendum deadline in January, the greater the chance of a return to armed conflict.
The minority of hardline Islamists and fanatics who control the North seem to rely on its ability to let the storms pass, to absorb dissent, to foster divisions in the opposing camp. See the media silence that they have managed to bring down on Darfur and the ineffectiveness of the arrest warrant by the International Criminal Court against President Omar Al-Bashir.
Perhaps the South believes that, at worst, it can win a quick war of secession, imagining it to be supported by the international community. Southern leaders, in fact, are no longer ‘rebels’, but the democratically elected representatives of the South Sudan people, in spite of the doubts on last April elections.
The struggle for control of oil reserves, by all possible means, seems inevitable, unless there is some agreement or some plan known only in the corridors of international diplomacy, and in the offices of the arms merchants. One cannot, in fact, believe that Hillary Clinton and the “international community” have not noticed what’s happening, have not foreseen all possible scenarios and have no plans to intervene. Are Obama and Clinton really just waiting for the bomb to explode before intervening? The Sudan is not only an economic battleground. It is an important testing ground for relations between the U.S. and the Arab world. In the early nineties, Khartoum was the operational base for Osama bin Laden and many Northerners would certainly be ready to give hospitality to al-Qaeda. In this scenario, a new armed conflict in Sudan would be a serious destabilizing factor in the Horn of Africa, that is already a powder keg.
The independence of Sudan, both North and South, is still a long and difficult process, with a high risk of becoming bloody. It ‘s a fast moving train, and if some shunters seem distracted, no doubt at the appropriate time they will be ready to intervene and determine the direction.