Da parecchi anni faccio il pendolare fra Kenya, Zambia, Sudan e Italia. In questi giorni sono uscito dal solito percorso ed ho appena concluso una settimana in una zona della Scozia rurale, piu’ precisamente a Lochgilphead e dintorni. Ci son venuto per essere insieme ai ragazzi di Mthunzi (Lusaka) che erano qui gia’ da tre settimane, offrendo workshops e spettacoli di musica e danze africane in scuole e teatri, e cantando in diverse chiese durante celebrazioni liturgiche.
Sono arrivato senza che se lo aspettassero, ed hanno improvvisato uno show di benvenuto sulla riva del Loch Gilp (foto qui sotto).
Personalmente ho riprovato l’importanza di incontrare nuove persone e nuove culture, mentre ancora una volta i ragazzi hanno dimostrato di essere i migliori promotori di se stessi e delle attivita’ di Koinonia.
Giovedi pomeriggio eravamo ad Oban, una piccola cittadina sul mare. C’erano, nell’aula magna della scuola dove dovevano fare lo spettacolo, un preside evidentemente preoccupato dall’aver dato il permesso di esibirsi a quel gruppo di ragazzi africani con tre vecchi tamburi, e una ventina di studenti dall’aria annoiata sparpagliati sulle 250 sedie… probabilmente obbligati a star li per punizione dopo la fine dell’orario scolastico. Si aspettavano una delle solite esibizioni di routine di gruppi folkloristici. Ma man mano che i ragazzi di Mthunzi hanno incominciato a cantare e ballare le loro composizioni, gli studenti uscivano di corsa a chiamare gli amici. Vedevamo dalle finestre gli studenti che gia’ erano saliti in bicicletta tendere l’ orecchio, fermarsi e appoggiare la bicicletta al muro ed entrare; chi aveva gia’ addentato un panino metterselo in tasca e rientrare precipitosamente. Un’ora dopo non c’era piu’ neanche posto in piedi e lo spettacolo e’ terminato con un’ ovazione e ripetute richieste di bis. E il preside entusiasta che diceva “So bene che i ragazzi son capaci di far tanto rumore, ma di sentirne quindici fare cosi tanto rumore positivo, armonioso ed entusiasmante non mi era mai capitato.â€
I quindici sanno di lanciare un messaggio forte, un messaggio di cui sono convinti. E torneranno in Africa con il desiderio di far crescere il loro paese negli aspetti positivi che hanno visto in Europa, ma senza rinunciare ad essere africani.
Gli amici scozzesi dal canto loro, sono stati di un’accoglienza straordinaria. I ragazzi sono stati sempre con famiglie che li hanno ospitati e coccolati. Che in tutta sta storia ci sia lo zampino di David Livingstone, il missionario scozzese che e’ stato il primo europeo, almeno nei tempi moderni, a fare turismo in Zambia?
Da parecchi anni faccio il pendolare fra Kenya, Zambia, Sudan e Italia. In questi giorni sono uscito dal solito percorso ed ho appena concluso una settimana in una zona della Scozia rurale, piu’ precisamente a Lochgilphead e dintorni. Ci son venuto per essere insieme ai ragazzi di Mthunzi (Lusaka) che erano qui gia’ da tre settimane, offrendo workshops e spettacoli di musica e danze africane in scuole e teatri, e cantando in diverse chiese durante celebrazioni liturgiche.
Sono arrivato senza che se lo aspettassero, ed hanno improvvisato uno show di benvenuto sulla riva del Loch Gilp, c’e’ una foto qui sotto.
Personalmente ho riprovato l’importanza di incontrare nuove persone e nuove culture, mentre ancora una volta i ragazzi hanno dimostrato di essere i migliori promotori di se stessi e delle attivita’ di Koinonia.
Giovedi pomeriggio eravamo ad Oban, una piccola cittadina sul mare. C’erano, nell’aula magna della scuola dove dovevano fare lo spettacolo, un preside evidentemente preoccupato dall’aver dato il permesso di esibirsi a quel gruppo di ragazzi africani con tre vecchi tamburi, e una ventina di studenti dall’aria annoiata sparpagliati sulle 250 sedie… probabilmente obbligati a star li per punizione dopo la fine dell’orario scolastico. Si aspettavano una delle solite esibizioni di routine di gruppi folkloristici. Ma man mano che i ragazzi di Mthunzi hanno incominciato a cantare e ballare le loro composizioni, gli studenti uscivano di corsa a chiamare gli amici. Vedevamo dalle finestre gli studenti che gia’ erano saliti in bicicletta tendere l’ orecchio, fermarsi e appoggiare la bicicletta al muro ed entrare; chi aveva gia’ addentato un panino metterselo in tasca e rientrare precipitosamente. Un’ora dopo non c’era piu’ neanche posto in piedi e lo spettacolo e’ terminato con un’ ovazione e ripetute richieste di bis. E il preside entusiasta che diceva “So bene che i ragazzi son capaci di far tanto rumore, ma di sentirne quindici fare cosi tanto rumore positivo, armonioso ed entusiasmante non mi era mai capitato.â€
I quindici sanno di lanciare un messaggio forte, un messaggio di cui sono convinti. E torneranno in Africa con il desiderio di far crescere il loro paese negli aspetti positivi che hanno visto in Europa, ma senza rinunciare ad essere africani.
Gli amici scozzesi dal canto loro, sono stati di un’accoglienza straordinaria. I ragazzi sono stati sempre con famiglie che li hanno ospitati e coccolati. Che in tutta sta storia ci sia lo zampino di David Livingstone, il missionario scozzese che e’ stato il primo europeo, almeno nei tempi moderni, a fare turismo in Zambia?
August, 2008:
Zambia in Scozia
Giustizia e pace, cioè chiesa
The best thing about the next African Synod is the aptness of the theme chosen by Pope Benedict XVI, “The Church in Africa in Service to Reconciliation, Justice and Peaceâ€.
The theme hits the nail on the head. Issues of reconciliation, justice and peace are of extreme importance in the present African society, and the Catholic Church has the both right and the moral authority to address them. There are few African institutions, if any, that can compare their record with that of the Church on these matters.
The Church’s record is not merely composed of official declarations, theological books, seminars and symposia. It is also made up of the sweat and blood of hundreds and thousands of people and communities that have given their energies, their love and in some cases their lives at the grassroots level in order to build a just, reconciled and peaceful society despite the enormous difficulties they have had to fight against.
Even at the level of the hierarchy the efforts were notable. It is enough to think of the actions and positions taken in Mozambique, Sudan, in the Democratic Republic of Congo and in Northern Uganda.
Particularly enlightening is the case of the post-election violence in Kenya. When the rioting began, the Catholic Church, as with most Christian Churches, was kind of taken by surprise and was unable to deliver positive leadership. But even in that moment of confusion, hundreds of grassroots faithful did the right thing: they preached peace, encouraged reconciliation, sheltered those rendered homeless and opened their homes to the wounded. For a few weeks, it was a case of the sheep knowing what to do while the shepherds were confused.
Now, six months after Kenya’s post election violence was halted, tens of thousands remain huddled in displacement camps, relegated to an undesirable identity as refugees in their own country. As the new coalition government busies itself with routine governance and the dissipation of sporadic political mini-storms, the country’s Internally Displaced Persons (IDPs) are increasingly becoming a forgotten, sidelined group.
The IDP issue was relegated to the sidelines almost as soon as the dust from the ethnic skirmishes that killed an estimated 1500 Kenyans and drove another 350,000 from their homes settled, and a power sharing agreement created a coalition government headed by President Mwai Kibaki and Opposition leader Raila Odinga.
When the two leaders unveiled a 42 member coalition cabinet, the local media denounced it as “bloated†and many civil society organizations chided them for being insensitive to the economic implications of such a large cabinet.
Eager to get their new administration up and running, the two leaders hurriedly implemented a slapdash plan to have the IDPs immediately returned to their homes and farms.
Some legislators implored the executive to shelve the resettlement plan until all the factors that had precipitated the unprecedented bloodshed had been examined and resolved to prevent any future resurgence of such deadly turmoil.
Kibaki and Odinga ignored these pleas and sent army trucks to ferry the IDPs from the camps to their homes. Television images showed IDPs crowding around tarpaulin-covered trucks with deserted Red Cross tents in the background. Images of teenagers hoisting themselves to the backs of the trucks and women handing their crying babies to armed paramilitary officers before being helped to climb onto the trucks by good natured men with outstretched hands signaled hope. For a moment, it appeared as though the resettlement program had been a success.
Yet, murmurs that IDPs in some camps were being intimidated to leave surfaced almost immediately. These allegations remained unsubstantiated until Medicines Sans Frontiers (MSF) reported that it had witnessed government officials and armed police forcing people to vacate a camp in Western Kenya.
The Kenya Red Cross Society estimated, in mid-July, that nearly 70,000 IDPs remain stuck in refugee camps across the country. A chunk of these IDPs were frightened into returning after being welcomed with death threats by their ethnocentric neighbors.
A meaningful compensation for the IDPs is not forthcoming and meanwhile, Prime Minister Odinga, supported by legislators from the Rift Valley province, stoked controversy when he called for a general amnesty for suspects detained over the post election violence “in the name of reconciliationâ€. This proposal was roundly rejected by President Kibaki.
Pundits argue that the amnesty debate is informed by the fact that most of the detained suspects were from the Rift Valley, while most of the victims and IDPs were from Kibaki’s Kikuyu community. This implies that each side of the debate is tied by an obligation to “agitate†for “their peopleâ€
On the whole, the plight of the IDPs has slowly faded away from public consciousness and it is now used for political purposes..
The Church has however remained consistent in its pursuit of the issue, offering concrete assistance to the victims and reviving efforts for reconciliation and peace education.
In fact, the church has been active in promoting ethnic tolerance on a grassroots level long before, during and after the post-election violence. The Catholic Religious Superior’s Council has for instance worked to identify the roots of Kenya’s historical ethnic clashes, and has suggested measures to rescue the country from this circle. Its key proposals include poverty alleviation, the writing of a new constitution, the decentralization of political power, the formation of a truth and justice tribunal and the nurturing of responsible media practice.
Moreover, Parishes, Small Christian Communities and Religious Communities, were among the few institutions that took active action in the course of the post-election violence, providing shelter and all manner of support to the victims. The Catholic diocese of Eldoret especially made a great effort to provide accommodation, food and clothing to thousands of IDPs camping at its Sacred Heart Cathedral, and currently, Bishop Cornelius Korir and the Diocese are engaged in serious peace and reconciliation campaigns to mobilize the public against “tribalism†as a wrong perception of ethnicity.
Cardinal John Njue, as chairman of the Kenya Episcopal Conference, on June 16 rejected the call by some politicians for the extension of a general amnesty to all perpetrators of the killings and internal displacement that followed the 2007 election dispute, and rightly so, since impunity is a longstanding problem from the past that must be overcome.
A national faith-based peace building initiative to promote healing and reconciliation was also inaugurated on April 18 – a collaboration among a number of Catholic institutions coordinated by the Kenya Episcopal Conference. The initiative seeks to work with national leaders towards peace, healing and reconciliation amongst Kenya’s diverse ethnic communities, with particular emphasis being placed in the worst-hit areas of Nairobi, Nakuru, Kericho, Kitale, Eldoret, Kisumu and Kisii.
For certain, the Church and its leader have made some mistakes, the greatest being a failure to perceive how ethnically charged last year’s election campaign had become. Yet all the Christian churches, including the Catholic Church, have – since calm resumed in the country – asked the Kenyan people to forgive them for their lack of discernment and leadership, unlike the politicians who incited their supporters to violence yet now sit in Parliament and hold ministerial positions after consigning the IDP issue to gather dust on the shelves.
The statement issued at the end of the AMECEA Bishops’ Plenary Assembly also seems to have benefited from the Kenyan lesson. It is remarkably clear and concrete, with a serious political – in the best sense of the word – slant. It asks for the establishment of parliamentary liaisons offices and for observer status at the African Union and regional bodies. The statement further commits catholic institutions to get involved in the formation of leaders, and goes as far as asking Catholic lay professionals “to provide competent analytical data in order to help the church make informed and timely interventions.†It also calls on Catholic institutions, “to develop workable strategies and mechanisms for monitoring and evaluating the effectiveness of our pastoral programsâ€.
Because of this fundamental consistency, long term focus, grassroots commitment and strong charitable activities that do not discriminate between ethnic and religious affiliations, Christian churches, – and it is important to underline churches, that is to say the major historical christian churches, with their lay memebrs – in spite of shortcomings, have kept a high reputation in most African countries. They remain the best placed institutions to compel African governments to redraw policies for the protection of the poorest and most vulnerable groups, and it hope that the Synod will help to sharpen their understanding and to increase their effetiveness.
L’ ultimo pensiero di Shiru
Il quotidiano AVVENIRE, nel quadro di una iniziativa intitolata “Le capitali del mondo, racconti dell’ estate” mi ha chiesto il mese scorso di scrivere un racconto che aiutasse a capire un aspetto della vita di una citta’ africana. Ho scelto di scrivere su Nairobi, ed il racconto e’ stato pubblicato oggi.
Shiru raccolse le ultime forze che le rimanevano e riprese a camminare. Non conosceva bene quella zona di Kibera, ma sapeva che, da qualche parte, c’era un grande mucchio di spazzatura. Lì avrebbe potuto rifugiarsi per passare la notte tranquilla. Ormai era buio da qualche ora; faceva freddo e scendeva una pioggerellina leggera ma insistente. Il vento si infilava gelido sin dentro le ossa. La stradina, ripida e fangosa, si intrufolava tra due file di baracche di legno e lamiera; era così stretta e sconnessa che a volte, anche lei, per quanto piccola e minuta, faceva fatica a passare. Le porte delle baracche erano chiuse e la gente dormiva da un pezzo. Shiru sapeva che se avesse cercato di rifugiarsi sotto una tettoia, in un angolino riparato, gli abitanti avrebbero subito sospettato che volesse derubarli. E avrebbero scatenato una caccia all’uomo contro di lei. «Neppure i topi vengono trattati così», pensò Shiru. Sentiva che lei valeva meno di un animale.
Era solo una bambina di strada che non valeva niente, che non era nessuno. Una bambina che molto tempo prima era scappata da una mamma, capace solo mendicare e ubriacarsi.
Quella sera, si era beccata una bastonata alla gamba sinistra e ogni passo era una pena. Di tanto in tanto, senza fare rumore, per non farsi scoprire, si appoggiava alla parete di una baracca, aspettando che il dolore passasse. Ma il dolore più forte era alla testa, che sanguinava. L’avevano sorpresa con altre amiche, mentre cercavano di rubare da una bancarella
Dov’era, dunque, quel Dio buono e padre di tutti, di cui ogni tanto parlava suor Elisa, dopo aver distribuito un po’ di pane e latte al loro gruppo di bambine? Suor Elisa era buona e dolce, ma le aveva ingannate. Anche quel Dio doveva essere un padre egoista e cattivo, che si preoccupava di mangiare lui primo, invece di occuparsi dei suoi figli. E poi era lui, quel Dio, che mandava in quei giorni di fine luglio quel tempaccio gelido, che inaspriva la vita in strada e le sofferenze delle bambine. «Altro che Dio!», pensò Shiru. E intanto non vedeva l’ora di trovare quella discarica che aveva notato mentre passava di lì qualche giorno prima. Ormai doveva essere vicina.
È vero, la spazzatura puzzava, ma bastava scavarla un poco e ci si poteva ricavare un “nido†tiepido. Shiru pensava che ci si sarebbe accucciata, coprendosi con un po’ di carta e sacchetti di plastica per proteggersi dalla pioggia. «Domani – pensava – sarò di nuovo forte e capace di trovare qualcosa da mangiare…».
Mangiare, mangiare, mangiare… l’ossessione di sempre! Poi, le venne un pensiero improvviso: «Forse Dio è lì, nella spazzatura che mi proteggerà ; è lì, in tutto quello che i ricchi gettano via e che i carretti scaricano vicino alle case dei poveri…Li trovo sempre qualche rifiuto da mangiare e il caldo che mi protegge».
Il dolore per la ferita alla testa era ormai insopportabile e usciva ancora un po’ di sangue. Finalmente, dietro l’ultima fila di baracche e un rigagnolo puzzolente, trovò la discarica illegale. Era un posto orribile, ma era pur sempre un rifugio perfetto per una bambina come lei. Così pensava Shiru, mentre si preparava una “tana†in mezzo all’immondizia, e ci si intrufolava, coprendosi con un gran mucchio di sacchetti di plastica.
«Ehi, tu, che fai? Non rubare la nostra plastica!», le urlò un bambinetto molto più piccolo di lei, sbucando da un altro buco, dove si erano rifugiati altri bambini. «Quella plastica è nostra, domani dobbiamo andare a venderla». «Beh, lasciamela usare almeno stanotte per proteggermi dalla pioggia», disse Shiru. Nessuna reazione…
«Finalmente in pace!», si disse tra sé e sé la bambina. Ma il dolore non la lasciava dormire. E poi pensava a Kavaya, che lo scorso marzo era morto, buttato giù da un autobus. Era salito su un matatu e mentre si frugava in tasca per cercare qualche spicciolo, era stato spinto fuori dalla porta dal controllore. Che gli aveva gridato: «Fuori di qui chokora!». Chokora, ovvero “spazzaturaâ€; è così che chiamano i bambini di strada a
Davvero, ma dov’è questo Dio buono?
Anche il fratello maggiore di Shiru era morto, poche settimane prima, durante gli “scontri tribaliâ€. Era grande e forte, ed era stato assoldato per gridare slogan e tirare sassi contro la polizia. Trecento scellini al giorno. Una piccola fortuna per lui che, lavorando da muratore alla giornata, ne prendeva al massimo centoventi. La prima sera aveva comprato quattro birre, di quelle vere, nelle bottiglie di vetro, e si era ubriacato come fanno i ricchi, non con quella porcheria
Al funerale, poche ore dopo, nell’immenso cimitero, fra cumuli di terra smossa, c’erano solo loro, i bambini di strada, a seguire la sgangherata bara di Njaro. All’ultimo momento era venuto anche un “padri†a dire una preghiera e dare una benedizione. Ma che gliene poteva importare a Dio di quel povero corpo? Il “padri†era un muzungu, un bianco; era giovane e sembrava quasi impaurito di trovarsi in loro compagnia.  Aveva detto delle cose giuste: che Dio non poteva benedire questa città , che condanna i suoi figli a vivere nella miseria; che non dà loro alcuna educazione; che insegna la violenza e poi li scaglia l’uno contro l’ altro. Una citta’ – aveva detto – che nutre i suoi figli con l’ immondizia e poi li lascia morire come immondizia. Dio non avrebbe lasciato che le cose continuassero ad andare così per sempre; sarebbe intervenuto a sostenere quelli che lavoravano per il bene e la giustizia. Belle parole…. Ma erano solo parole.
Shiru, invece, non aveva bisogno di parole; aveva bisogno di protezione e di affetto. Njaro la proteggeva quando i ragazzi più grandi volevano “giocare†con lei, e le dava sempre le cose più buone da mangiare.
Pensando ai gesti gentili di Njaro, in una “tana†scavata nella discarica di Kibera, Shiru si addormentò sorridendo, nonostante la testa le facesse ancora molto male.
Pensò che davvero Dio doveva essere lì e la coccolava nel tepore di quell’immondezzaio….