Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

August, 2008:

Zambia in Scozia

Da parecchi anni faccio il pendolare fra Kenya, Zambia, Sudan e Italia. In questi giorni sono uscito dal solito percorso ed ho appena concluso una settimana in una zona della Scozia rurale, piu’ precisamente a Lochgilphead e dintorni. Ci son venuto per essere insieme ai ragazzi di Mthunzi (Lusaka) che erano qui gia’ da tre settimane, offrendo workshops e spettacoli di musica e danze africane in scuole e teatri, e cantando in diverse chiese durante celebrazioni liturgiche.
Sono arrivato senza che se lo aspettassero, ed hanno improvvisato uno show di benvenuto sulla riva del Loch Gilp (foto qui sotto).
Personalmente ho riprovato l’importanza di incontrare nuove persone e nuove culture, mentre ancora una volta i ragazzi hanno dimostrato di essere i migliori promotori di se stessi e delle attivita’ di Koinonia.
Giovedi pomeriggio eravamo ad Oban, una piccola cittadina sul mare. C’erano, nell’aula magna della scuola dove dovevano fare lo spettacolo, un preside evidentemente preoccupato dall’aver dato il permesso di esibirsi a quel gruppo di ragazzi africani con tre vecchi tamburi, e una ventina di studenti dall’aria annoiata sparpagliati sulle 250 sedie… probabilmente obbligati a star li per punizione dopo la fine dell’orario scolastico. Si aspettavano una delle solite esibizioni di routine di gruppi folkloristici. Ma man mano che i ragazzi di Mthunzi hanno incominciato a cantare e ballare le loro composizioni, gli studenti uscivano di corsa a chiamare gli amici. Vedevamo dalle finestre gli studenti che gia’ erano saliti in bicicletta tendere l’ orecchio, fermarsi e appoggiare la bicicletta al muro ed entrare; chi aveva gia’ addentato un panino metterselo in tasca e rientrare precipitosamente. Un’ora dopo non c’era piu’ neanche posto in piedi e lo spettacolo e’ terminato con un’ ovazione e ripetute richieste di bis. E il preside entusiasta che diceva “So bene che i ragazzi son capaci di far tanto rumore, ma di sentirne quindici fare cosi tanto rumore positivo, armonioso ed entusiasmante non mi era mai capitato.”
I quindici sanno di lanciare un messaggio forte, un messaggio di cui sono convinti. E torneranno in Africa con il desiderio di far crescere il loro paese negli aspetti positivi che hanno visto in Europa, ma senza rinunciare ad essere africani.
Gli amici scozzesi dal canto loro, sono stati di un’accoglienza straordinaria. I ragazzi sono stati sempre con famiglie che li hanno ospitati e coccolati. Che in tutta sta storia ci sia lo zampino di David Livingstone, il missionario scozzese che e’ stato il primo europeo, almeno nei tempi moderni, a fare turismo in Zambia?
Da parecchi anni faccio il pendolare fra Kenya, Zambia, Sudan e Italia. In questi giorni sono uscito dal solito percorso ed ho appena concluso una settimana in una zona della Scozia rurale, piu’ precisamente a Lochgilphead e dintorni. Ci son venuto per essere insieme ai ragazzi di Mthunzi (Lusaka) che erano qui gia’ da tre settimane, offrendo workshops e spettacoli di musica e danze africane in scuole e teatri, e cantando in diverse chiese durante celebrazioni liturgiche.
Sono arrivato senza che se lo aspettassero, ed hanno improvvisato uno show di benvenuto sulla riva del Loch Gilp, c’e’ una foto qui sotto.
Personalmente ho riprovato l’importanza di incontrare nuove persone e nuove culture, mentre ancora una volta i ragazzi hanno dimostrato di essere i migliori promotori di se stessi e delle attivita’ di Koinonia.
Giovedi pomeriggio eravamo ad Oban, una piccola cittadina sul mare. C’erano, nell’aula magna della scuola dove dovevano fare lo spettacolo, un preside evidentemente preoccupato dall’aver dato il permesso di esibirsi a quel gruppo di ragazzi africani con tre vecchi tamburi, e una ventina di studenti dall’aria annoiata sparpagliati sulle 250 sedie… probabilmente obbligati a star li per punizione dopo la fine dell’orario scolastico. Si aspettavano una delle solite esibizioni di routine di gruppi folkloristici. Ma man mano che i ragazzi di Mthunzi hanno incominciato a cantare e ballare le loro composizioni, gli studenti uscivano di corsa a chiamare gli amici. Vedevamo dalle finestre gli studenti che gia’ erano saliti in bicicletta tendere l’ orecchio, fermarsi e appoggiare la bicicletta al muro ed entrare; chi aveva gia’ addentato un panino metterselo in tasca e rientrare precipitosamente. Un’ora dopo non c’era piu’ neanche posto in piedi e lo spettacolo e’ terminato con un’ ovazione e ripetute richieste di bis. E il preside entusiasta che diceva “So bene che i ragazzi son capaci di far tanto rumore, ma di sentirne quindici fare cosi tanto rumore positivo, armonioso ed entusiasmante non mi era mai capitato.”
I quindici sanno di lanciare un messaggio forte, un messaggio di cui sono convinti. E torneranno in Africa con il desiderio di far crescere il loro paese negli aspetti positivi che hanno visto in Europa, ma senza rinunciare ad essere africani.
Gli amici scozzesi dal canto loro, sono stati di un’accoglienza straordinaria. I ragazzi sono stati sempre con famiglie che li hanno ospitati e coccolati. Che in tutta sta storia ci sia lo zampino di David Livingstone, il missionario scozzese che e’ stato il primo europeo, almeno nei tempi moderni, a fare turismo in Zambia?

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Giustizia e pace, cioè chiesa

Le comunità cristiane e le gerarchie sono impegnate nella costruzione di una società più giusta e riconciliata. E quando sbagliano, com’è accaduto di recente in Kenya, sono pronti a fare ammenda. È giusto, perciò, che il Sinodo sia incentrato su questi temi.

Il tema scelto da Benedetto XVI per il secondo Sinodo africano (ottobre 2009) è certamente azzeccato: “La chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. Mai come oggi questi tre valori appaiono di capitale importanza per l’intero continente. La chiesa sente di avere non solo il diritto di proporli all’attenzione di tutti, ma anche l’autorità morale per dire la sua al riguardo. Poche altre istituzioni africane possono vantare uno “stato di servizio” paragonabile a quello della chiesa in simili questioni. E ciò non è dovuto solo alle sue dichiarazioni ufficiali, ai trattati di teologia, ai seminari e simposi indetti sull’argomento, ma anche – e soprattutto – al sudore e al sangue di migliaia di fedeli e comunità che hanno profuso energie, offerto amore e, in alcuni casi, sacrificato la propria vita per costruire una società più giusta, riconciliata e rappacificata. Anche a livello di gerarchie, notevoli gli sforzi compiuti. Basti pensare alle azioni e alle prese di posizione delle conferenze episcopali di Mozambico, Sudan, Rd Congo e Nord Uganda.
Particolarmente illuminante è il caso Kenya dopo le violenze innescate dalle elezioni presidenziali del 27 dicembre 2007. I vescovi cattolici (ma anche i responsabili delle altre denominazioni cristiane) sono stati colti di sorpresa dallo scoppio delle rivolte e sono apparsi del tutto incapaci di svolgere un ruolo guida. In quelle lunghe settimane di totale confusione e di scontri, invece, folti gruppi di semplici fedeli hanno saputo fare la cosa giusta: hanno invitato alla pace, raccomandato la riconciliazione e offerto ospitalità e assistenza a migliaia di senzatetto e feriti.
Oggi, otto mesi dopo, decine di migliaia di persone vivono ancora in campi per sfollati, condannati all’odiosa condizione di “rifugiati in patria”. Mentre il governo di coalizione occupa il suo tempo a gestire la routine amministrativa e a superare alla bell’e meglio le periodiche mini crisi politiche, questa gente è dimenticata.
In verità, l’intera faccenda dei profughi è stata relegata in fondo alla lista delle preoccupazioni dei politici appena la polvere degli scontri interetnici (1.500 vittime e 350mila sfollati) si diradò. L’assillo dei grandi era di giungere al più presto un accordo per un governo di colazione. Che è nato mastodontico: guidato dal presidente, Mwai Kibaki, e dal leader dell’opposizione, Raila Odinga, il nuovo gabinetto conta 42 ministri e 52 vice ministri. Stampa nazionale e organismi della società civile l’hanno subito definito «malato di elefantiasi» e «costosissimo».
Impazienti di mettere in moto la complicata macchina amministrativa, i due leader si sono affrettati a varare un avventato piano di rimpatrio degli sfollati. A nulla sono valsi gli appelli di alcuni parlamentari perché si esaminassero a fondo i fattori che avevano portato a uno spargimento di sangue senza precedenti. Kibaki e Odinga hanno inviato automezzi militari per riportare gli sfollati alle loro case. E la televisione ha dato loro una mano: per giorni, i telespettatori hanno visto immagini di gente bramosa di saltare sui camion, di mamme e bambini che venivano aiutati a salire sugli autocarri, di distese di tende della Croce Rossa ormai deserte… I volti sorridenti sui teleschermi erano messaggi di speranza e, per un breve momento, si pensò che l’operazione fosse un successo. Subito, però, sono cominciate a circolare lamentele: gli sfollati stavano lasciando i campi di raccolta dietro intimidazioni. Asserzioni pesantissime, rimaste senza conferma fino al momento in cui l’associazione Medici senza frontiere ha fornito prove inconfutabili.
A fine luglio, la Croce Rossa stimava a 70mila le persone rimaste nei campi e asseriva che molte di esse erano fatte oggetto di minacce di morte da parte degli abitanti locali «alquanto etnocentrici».
Mentre un significativo risarcimento agli sfollati rimaneva – e tuttora rimane – di là da venire, il primo ministro Odinga, appoggiato da parlamentari della provincia della Rift Valley, ha dato il via a un’accesa controversia, suggerendo di concedere, «in nome della riconciliazione nazionale», un’amnistia generale a tutti i sospettati di violenze e omicidio, arrestati dopo i disordini post-elettorali. Il presidente Kibaki ha rigettato la proposta. La diversità di vedute in tema di amnistia è data dal fatto che la grande maggioranza degli arrestati proviene dalla Rift Valley, roccaforte del Movimento democratico dell’arancia (Odm), di Odinga, mentre le vittime sono state per lo più originarie della Provincia centrale e appartenenti al gruppo etnico kikuyu, quello del presidente. Così, la disperata situazione dei rifugiati è gradualmente scemata dall’attenzione pubblica, per essere riesumata – di tanto in tanto, e sempre ad arte – per motivi politici.

La buona strada
Ma la chiesa ha mantenuto il suo impegno per gli sfollati: ha offerto assistenza alle vittime e rinnovato i suoi sforzi per la riconciliazione e l’educazione alla pace. Le piccole comunità cristiane si sono attivate per promuovere la tolleranza etnica prima, durante e dopo i disordini. Il Consiglio dei Superiori maggiori degli istituti religiosi s’è preso l’impegno di identificare le radici degli scontri etnici e di suggerire via d’uscita dall’empasse. Tra le proposte: impegno del governo a diminuire la povertà, nuova costituzione, decentramento del potere politico, creazione di tribunali speciali incaricati di cercare la verità dei fatti e ristabilire la giustizia, maggiore responsabilità dei mezzi di comunicazione. La diocesi cattolica di Eldoret – al centro degli scontri interetnici – s’è distinta nel provvedere alloggio, cibo, vestiario e medicine a migliaia di senza tetto accampati nell’ampio cortile antistante la cattedrale dedicata al Sacro Cuore. Tutt’oggi, il vescovo, Cornelius Korir, e l’intera comunità diocesana sono impegnati in campagne di pace e riconciliazione per mobilitare la popolazione contro ogni forma di tribalismo.
Il cardinale John Njue, arcivescovo di Nairobi e presidente della Conferenza episcopale kenyana, il 16 giugno ha fortemente criticato l’appello fatto da alcuni politici per un’amnistia generale, spiegando che «l’impunità è da troppo tempo un problema che attende una soluzione».
Alcune istituzioni cattoliche, sotto il coordinamento della Conferenza episcopale e con la partecipazione di numerose personalità nazionali provenienti dai più svariati ambiti sociali, ha varato un’iniziativa che ha lo scopo di promuovere e facilitare il processo di guarigione e riconciliazione tra le diverse comunità etniche. L’attenzione verrà data alle aree e alle città più colpite: Nairobi, Nakuru, Kericho, Kitale, Eldoret, Kisumu e Kisii.
Le chiese cristiane e i loro leader hanno commesso errori, il più grave dei quali è stata l’incapacità di cogliere il livello di odio tribale raggiunto durante la campagna elettorale e di avvertire la popolazione. Sta di fatto che, una volta ritornata la calma, tutte le chiese, cattolica inclusa, hanno pubblicamente riconosciuto le proprie colpe e chiesto perdono alla nazione «per la nostra mancanza di oculatezza e di guida». Cosa che si sono guardati bene dal fare i leader politici che, dopo aver incitato i propri sostenitori alla violenza, siedono oggi in parlamento o occupano posizioni di governo, del tutto dimentichi del destino degli sfollati.
Anche il documento finale della 16a Assemblea plenaria dell’Amecea (riunisce i membri delle Conferenze episcopali dell’Africa orientale), tenutasi a Lusaka (Zambia) dal 27 giugno al 7 luglio, sembra aver fatto tesoro della lezione kenyana. Il testo è chiaro e concreto, con un taglio decisamente “politico” (nel senso migliore del termine). I vescovi, tra le altre cose, hanno deliberato di stabilire regolari contatti (attraverso uffici di collegamento) tra le chiese e i parlamenti nazionali in vista di un costante dialogo su questioni costituzionali e legislative. Forte anche la richiesta di una presenza delle chiese (con la qualifica di osservatori) a livello di Unione africana e di altri organismi regionali.
I vescovi hanno sollecitato tutte le istituzioni cattoliche «a dare priorità alla formazione di leader a tutti i livelli della società» e chiesto ai fedeli laici, forti delle rispettive competenze, non solo «di provvedere dati e analisi scientifiche tali da informare adeguatamente le chiese e di metterle nella posizione d’intervenire tempestivamente», ma anche di «suggerire strategie e sviluppare meccanismi di monitoraggio e di valutazione dell’efficacia dei vari piani pastorali».
Nonostante le non poche debolezze, vanno riconosciute alla chiesa africana (grazie soprattutto al suo vivace laicato) una fondamentale coerenza, una capacità di sguardo prospettico e una prontezza d’impegno tra la gente in termini d’interventi caritativi rivolti a tutti, a prescindere dal tipo di affiliazione, e una decisa volontà di lottare per la creazione di uno stato di diritto e spingere i governi a orientare le proprie politiche verso la protezione dei gruppi più deboli e vulnerabili. Tutto questo fa sì che la chiesa «continui a godere di una grande credibilità presso le popolazioni africane» (Lineamenta 6). Per molti, «essa resta l’unica realtà che funziona ancora bene e permette alle popolazioni di continuare a vivere e sperare in un futuro migliore» (ib.). C’è solo da augurarsi che il secondo Sinodo contribuisca a renderla ancora più acuta nella sua comprensione della realtà e più efficace nei suoi interventi.

L’ ultimo pensiero di Shiru

Il quotidiano AVVENIRE, nel quadro di una iniziativa intitolata “Le capitali del mondo, racconti dell’ estate” mi ha chiesto il mese scorso di scrivere un racconto che aiutasse a capire un aspetto della vita di una citta’ africana. Ho scelto di scrivere su Nairobi, ed il racconto e’ stato pubblicato oggi.

 

Shiru raccolse le ultime forze che le rimanevano e riprese a camminare. Non conosceva bene quella zona di Kibera, ma sapeva che, da qualche parte, c’era un grande mucchio di spazzatura. Lì avrebbe potuto rifugiarsi per passare la notte tranquilla. Ormai era buio da qualche ora; faceva freddo e scendeva una pioggerellina leggera ma insistente. Il vento si infilava gelido sin dentro le ossa. La stradina, ripida e fangosa, si intrufolava tra due file di baracche di legno e lamiera; era così stretta e sconnessa che a volte, anche lei, per quanto piccola e minuta, faceva fatica a passare. Le porte delle baracche erano chiuse e la gente dormiva da un pezzo. Shiru sapeva che se avesse cercato di rifugiarsi sotto una tettoia, in un angolino riparato, gli abitanti avrebbero subito sospettato che volesse derubarli. E avrebbero scatenato una caccia all’uomo contro di lei. «Neppure i topi vengono trattati così», pensò Shiru. Sentiva che lei valeva meno di un animale.

Era solo una bambina di strada che non valeva niente, che non era nessuno. Una bambina che molto tempo prima era scappata da una mamma, capace solo mendicare e ubriacarsi.

Quella sera, si era beccata una bastonata alla gamba sinistra e ogni passo era una pena. Di tanto in tanto, senza fare rumore, per non farsi scoprire, si appoggiava alla parete di una baracca, aspettando che il dolore passasse. Ma il dolore più forte era alla testa, che sanguinava. L’avevano sorpresa con altre amiche, mentre cercavano di rubare da una bancarella sulla Ngong Road. Erano tutti bambini e bambine di strada come lei, dai dieci ai quattordici anni, spinti dalla fame e dalla disperazione. Speravano di trovare un po’ di pane e salsicce, ma il proprietario, che dormiva sul retro, le aveva scoperte e si era scagliato su di loro come una furia. Con un bastone li aveva picchiate senza pietà. I più veloci erano scappati in tutte le direzioni, ma lei e Shiko’ erano troppo impegnate a riempirsi la bocca col pane secco trovato su uno scaffale, che si erano fatte prendere. Nella fuga, Shiru e Shikò si erano perse di vista.

Dov’era, dunque, quel Dio buono e padre di tutti, di cui ogni tanto parlava suor Elisa, dopo aver distribuito un po’ di pane e latte al loro gruppo di bambine? Suor Elisa era buona e dolce, ma le aveva ingannate. Anche quel Dio doveva essere un padre egoista e cattivo, che si preoccupava di mangiare lui primo, invece di occuparsi dei suoi figli. E poi era lui, quel Dio, che mandava in quei giorni di fine luglio quel tempaccio gelido, che inaspriva la vita in strada e le sofferenze delle bambine. «Altro che Dio!», pensò Shiru. E intanto non vedeva l’ora di trovare quella discarica che aveva notato mentre passava di lì qualche giorno prima. Ormai doveva essere vicina.

È vero, la spazzatura puzzava, ma bastava scavarla un poco e ci si poteva ricavare un “nido” tiepido. Shiru pensava che ci si sarebbe accucciata, coprendosi con un po’ di carta e sacchetti di plastica per proteggersi dalla pioggia. «Domani – pensava – sarò di nuovo forte e capace di trovare qualcosa da mangiare…».

Mangiare, mangiare, mangiare… l’ossessione di sempre! Poi, le venne un pensiero improvviso: «Forse Dio è lì, nella spazzatura che mi proteggerà; è lì, in tutto quello che i ricchi gettano via e che i carretti scaricano vicino alle case dei poveri…Li trovo sempre qualche rifiuto da mangiare e il caldo che mi protegge».

Il dolore per la ferita alla testa era ormai insopportabile e usciva ancora un po’ di sangue. Finalmente, dietro l’ultima fila di baracche e un rigagnolo puzzolente, trovò la discarica illegale. Era un posto orribile, ma era pur sempre un rifugio perfetto per una bambina come lei. Così pensava Shiru, mentre si preparava una “tana” in mezzo all’immondizia, e ci si intrufolava, coprendosi con un gran mucchio di sacchetti di plastica.

«Ehi, tu, che fai? Non rubare la nostra plastica!», le urlò un bambinetto molto più piccolo di lei, sbucando da un altro buco, dove si erano rifugiati altri bambini. «Quella plastica è nostra, domani dobbiamo andare a venderla». «Beh, lasciamela usare almeno stanotte per proteggermi dalla pioggia», disse Shiru. Nessuna reazione…

«Finalmente in pace!», si disse tra sé e sé la bambina. Ma il dolore non la lasciava dormire. E poi pensava a Kavaya, che lo scorso marzo era morto, buttato giù da un autobus. Era salito su un matatu e mentre si frugava in tasca per cercare qualche spicciolo, era stato spinto fuori dalla porta dal controllore. Che gli aveva gridato: «Fuori di qui chokora!». Chokora, ovvero “spazzatura”; è così che chiamano i bambini di strada a Nairobi… Kavaya aveva battuto la testa sulla strada. I suoi amici avevano capito che era grave e, prendendolo per le braccia e i piedi, lo avevano portato all’ospedale. Ma non ce l’aveva fatta; era arrivato già morto, un pupazzo disarticolato e sporco. Shiru aveva pianto, perché Kavaya a volte era buono e la proteggeva.

Davvero, ma dov’è questo Dio buono?

Anche il fratello maggiore di Shiru era morto, poche settimane prima, durante gli “scontri tribali”. Era grande e forte, ed era stato assoldato per gridare slogan e tirare sassi contro la polizia. Trecento scellini al giorno. Una piccola fortuna per lui che, lavorando da muratore alla giornata, ne prendeva al massimo centoventi. La prima sera aveva comprato quattro birre, di quelle vere, nelle bottiglie di vetro, e si era ubriacato come fanno i ricchi, non con quella porcheria del khumi-khumi. Poi, nei giorni successivi, comprava da mangiare: pane, latte, uova, carne, e li condivideva con il piccolo gruppo di disperati con cui stava in strada.  Ma gli scontri non erano durati a lungo e, prima che finissero, per Njaro era finita per sempre. La polizia aveva sparato e una pallottola gli aveva bucato la pancia, ed erano uscite tutte quelle cose che ci sono dentro, come quando si ammazza un capretto.

Al funerale, poche ore dopo, nell’immenso cimitero, fra cumuli di terra smossa, c’erano solo loro, i bambini di strada, a seguire la sgangherata bara di Njaro. All’ultimo momento era venuto anche un “padri” a dire una preghiera e dare una benedizione. Ma che gliene poteva importare a Dio di quel povero corpo? Il “padri” era un muzungu, un bianco; era giovane e sembrava quasi impaurito di trovarsi in loro compagnia.  Aveva detto delle cose giuste: che Dio non poteva benedire questa città, che condanna i suoi figli a vivere nella miseria; che non dà loro alcuna educazione; che insegna la violenza e poi li scaglia l’uno contro l’ altro. Una citta’ – aveva detto – che nutre i suoi figli con l’ immondizia e poi li lascia morire come immondizia. Dio non avrebbe lasciato che le cose continuassero ad andare così per sempre; sarebbe intervenuto a sostenere quelli che lavoravano per il bene e la giustizia. Belle parole…. Ma erano solo parole.

Shiru, invece, non aveva bisogno di parole; aveva bisogno di protezione e di affetto. Njaro la proteggeva quando i ragazzi più grandi volevano “giocare” con lei, e le dava sempre le cose più buone da mangiare.

Pensando ai gesti gentili di Njaro, in una “tana” scavata nella discarica di Kibera, Shiru si addormentò sorridendo, nonostante la testa le facesse ancora molto male.

Pensò che davvero Dio doveva essere lì e la coccolava nel tepore di quell’immondezzaio….


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