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April, 2013:

Fede e Fatti

Sono in giro per Lusaka per riprendere contatto con qualche vecchio amico, e, naturalmente, per farmi fare qualche preventivo per ristrutturare la scuola di computer a Mthunzi, il centro per bambini di strada. Lavoro e progetti per il futuro non mancano mai.

Vedo sulla Cairo Road un grande cartello che reclamizza Gesu’ come fosse una bevanda gassata. Mi infastidisce, e da quel momento noto con crescente irritazione le solite scritte sui piu’ vari mezzi di trasporto: “Jesus saves” è la più comune, e poi ci sono “Jesus is the way”, “Jesus is the answer” fino al categorico “Repent, the end is near”.

La fede non può essere un fatto puramente privato, non la si deve nascondere, ma non la si può neanche reclamizzare, buttarla in faccia agli altri. Ho sì il diritto e il dovere di manifestare la fede, ma con gesti semplici, educati e rispettosi degli altri. Meglio una fede che si propone con la naturalezza delle cose buone, che una fede aggressivamente ostentata. La fede più è granitica più si fa per gli altri proposta discreta e fraterna. Forse è un discorso difficile da far capire in un paese come la Zambia il cui Presidente, una ventina d’anni fa, si sentì in dovere di proclamare ufficialmente cristiano. Lo stesso Presidente che finì i suoi giorni trascinato di tribunale in tribunale, schiacciato da accuse di corruzione.

Sto pensando come proporre queste riflessioni ai quattro ragazzini che mi fanno scorta, pomposamente auto-definitisi mie “guardi del corpo”, quando improvvisamente ci sorprende un acquazzone. Non e’ normale, la stagione delle piogge sembrava conclusa da un pezzo. Ci rifugiamo, ormai già bagnati, fra la vetrina e la porta d’ingresso di un negozietto. E’ un negozio di dolci, vorrei cambiar posizione per non esporre i ragazzi a tentazione, ma non è possibile, lo scroscio si fa più forte. Dopo pochi secondi si apre la porta e una signora, inconfondibilmente indiana per la fisionomia, l’abbigliamento e il “terzo occhio” nel bel mezzo della fronte, ci invita a ripararci all’interno, parlando senza sosta. “Non ti ricordi di me? Non ero ancora sposata quando trent’anni fa venivi nel negozio di alimentari e granaglie di mio padre, vicino all’ufficio del Vescovo. Quando ti chiese come mai comperavi riso e farina da polenta in sacchi da 90 Kg, e tu gli spiegasti che avevi una “famiglia” un po anomala, ti faceva degli sconti e ti teneva da parte le cose, come il pesce secco , che allora a Lusaka si faceva fatica a trovare. Te lo ricordi? Era pelato, con una gran barba che si tingeva di arancione. Noi siamo di religione indù e mio padre mi ha sempre insegnato a rispettare i poveri. Adesso vedo che hai ancora una famiglia numerosa!” Mentre parla ha preparato una tazza di te per me e un piatto con un dolcetto a testa per i ragazzini, che la guardano increduli: agli occhi degli zambiani poveri gli indiani sono tutti ricchi e arroganti. Quando l’acquazzone è finito, ci accompagna fin fuori dalla porta, per assicurarsi che davvero non piova più, sempre parlando, augurandoci un buon rientro a casa, mentre già ci avviamo verso dove abbiamo parcheggiato l’auto.

Un gesto gratuito di attenzione e servizio che ci ha cambiato la giornata. La fede si comunica così, con gesti semplici che nascono da una convinzione interiore. Adesso ho l’esempio per i ragazzi. Altro che proclami presidenziali e scritte a caratteri cubitali. In tono minore, col sorriso e la chiacchiera debordante, la signora indù ha avuto lo stesso atteggiamento di servizio del samaritano che scendeva da Gerusalemme a Gerico. La fede che ti fa diventare prossimo di tutti.

La Cina è qui

La presenza cinese in Zambia, iniziata con l’acquisizione di miniere di rame, è sempre più importante e tocca la vita di tutti.

“Chiselwa, che chiamavamo Ciccio, all’italiana, per la figura rotondeggiante, adesso c’è’ diventato cosi bravo nell’istallazione di videocamere di sorveglianza per la ditta cinese con cui lavora che sta pensando di mettersi in proprio. Matthias, proprio lui che ha fatto tanta fatica a liberarsi dal vizietto di appropriarsi di cose non sue, fa la guardia giurata. Robert ha finito la scuola di turismo e lavora per una importante compagnia di viaggi e gli hanno proposto di studiare il cinese, per fare da guida a turisti provenienti da quel paese. Richard, Mutale e Jackson invece, dopo la scuola per chef, lavorano in tre diversi ristoranti cinesi. Pomulo, Sky, Protasio e Baisikolo hanno incominciato la scuola di saldatori meccanici, ma ciò in cui sono veramente interessati è il gruppo di danze e folklore tradizionale che hanno messo su insieme. Ma la grande notizia è che Brian ha finito la scuola superiore con risultati cosi alti che quasi certamente sarà ammesso all’università con una borsa di studio governativa.” Mentre mi porta dall’aeroporto di Lusaka (Zambia) a Koinonia, Malama, responsabile della comunità per il recupero di bambini di strada, mi fa una lista dei successi di questo ultimo anno. Ci sono anche risultati più modesti, come Station (cosi chiamato perché la sua base era la stazione ferroviaria) o Peter che fanno semplicemente gli assistenti di fruttivendoli al grande mercato in centro città, ma è bello sentire questo elenco e vedersi passare davanti questi volti. Certamente nei pochi giorni che passerò a Lusaka li incontrerò tutti, e li sentirò raccontar di persona le loro storie.

I cinesi stanno assumendo un ruolo dominante nelle storie dei ragazzi che sono passati da Koinonia, cosi come in tutta la Zambia. Da qualche anno hanno acquisito il controllo delle miniere (rame soprattutto, ma anche manganese, titanio, zinco, ecc), sono onnipresenti con i loro prodotti nel commercio, stanno silenziosamente acquisendo anche enormi tratti di terra. Le statistiche disponibili ci dicono che l’economia zambiana è, fra le africane, quella più controllata dalla Cina.

Nulla di nuovo per la Zambia. Se c’è un paese che economicamente dipende quasi totalmente da paesi e vicende esterne, è questo. Dopo la colonizzazione inglese, che ha portato via solo in rame una ricchezza incalcolabile, lasciando la Zambia con niente – all’indipendenza nel 1964 c’erano tanti laureati locali quanti se ne possono contare sulle dita di una mano, c’è stato un breve periodo di prosperità, basata sull’alto prezzo del rame. Il crollo mondiale di questo prezzo, dopo che le compagnie americane si impossessarono del rame cileno a seguito del colpo di stato di Pinochet nel 1973, avviò in Zambia un declino inarrestabile, anche per i maldestri tentativi del primo presidente Kenneth Kaunda di imporre il socialismo scientifico. All’inizio degli anni novanta il paese era ridotto nella miseria più nera.

La Zambia è il doppio dell’Italia come estensione, ma con un sesto degli abitanti, senza sbocco sul mare e circondato da paesi turbolenti (Namibia, Angola, Congo, Mozambico, Zimbabwe). Dopo un tentativo di politica agricola assolutamente fallimentare, una prima ripresa economica avvenne verso la meta’ degli anni 90, con l’arrivo dei capitali e delle compagnie sudafricane, ormai libere di muoversi dopo la fine dell’apartheid. Seguiti, dall’inizio del nuovo millennio, dalla valanga cinese.

Internamente la Zambia fu uno dei primi paesi africani a muoversi verso la democrazia, senza scosse, secondo l’indole tranquilla degli abitanti. Lusaka non ha conosciuto un vero e proprio colpo di stato. L’unico tentativo, 1982, organizzato da una trentina di militari, finì quando i golpisti, ormai certi di aver vinto dopo essersi impossessati senza colpo ferire, nella notte delle caserme principali e della radio, erano stati arrestati, tutti sbronzi, in un night club della capitale nelle prime ore del mattino successivo.

Adesso la presenza cinese, e il conseguente maggior interesse da parte delle comunità internazionale, ha fatto rifiore i centri commerciali, in genere ridato fiato ad un’economia che era chiusa su se stessa.

Negli anni, i progetti di Koinonia, iniziati nel 1982, hanno seguito questi alti e bassi, con una forte iniezione di fiducia quando è incominciato il sostegno di Amani, una decina di anni fa. Oggi c’è meno povertà visibile, più povertà nascosta, ma comunque i ragazzi che escono dalla comunità hanno maggiori opportunità di lavoro. “Beh, vuol dire che con tanti figli zambiani primo o poi mi ritroverò una nuora cinese!” scherzo con Malama. “No way! Impossibile, i cinesi non si mischiano mai con noi, socializzano solo fra di loro. Vogliono solo le materie prime e la terra”.

Pomulo, quando non studia da meccanico, fa lo stregone/mangiafuoco.

Sudan: Ancora restrizioni contro i cristiani

Molti segnali fanno pensare che in Sudan siamo solo agli inizi di un piano di repressione contro tutte le chiese cristiane.

Il ministro sudanese Al-Fatih Taj Al Sir ha annunciato a Khartoum il 19 aprile, durante un discorso al parlamento, che non saranno più dati permessi per la costruzione di chiese, affermando che le chiese esistenti sono più che sufficienti per i fedeli, anzi, che molte chiese risultano essere abbandonate. Ha comunque garantito che la libertà di religione sarà rispettata.

Già agli inizi del 2012 agenti di sicurezza avevano perquisito la biblioteca della Chiesa Evangelica Presbiteriana del Sudan, che era stata fondata nel centro della capitale sudanese oltre cento anni fa, per “controllare il contenuto dei libri”. Poi in aprile dello stesso anno una folla violenta era entrata nei locali di una chiesa presbiteriana a Khartoum, bruciando le Bibbie e saccheggiando tutto. In giugno, sempre a Khartoum, due bulldozer mandati dal ministero delle pianificazione avevano distrutto due costruzioni appartenenti alla chiesa episcopale, dicendo che i fedeli non avevano nessun diritto di occupare quel terreno.

Il Consiglio Mondiale delle Chiese di Ginevra ha denunciato che molti orfanotrofi e alcune scuole affiliate alle chiese cristiane sono stati chiusi nel 2012.

Dallo scorso dicembre che segnali di repressione contro le chiese cristiane si sono intensificati, dopo che HUDO (Human Rights and Development Organization) aveva denunciato che i cristiani nuba erano sistematicamente fatti oggetto di discriminazioni da parte delle autorità locali in South Kordofan (l’area conosciuta anche come Monti Nuba) e delle autorità governative di Khartoum, e pochi giorni prima di Natale una chiesa in un sobborgo di Khartoum era stata demolita.

Il 20 dicembre due preti della chiesa Copta Ortodossa erano stati arrestati per aver preparato la conversione al cristianesimo di una donna musulmana.

Il 12 aprile il segretario generale della conferenza episcopale, padre Santino Morokomomo Maurino, di nazionalità sud-sudanese, è stato espulso, quasi contemporaneamente alla chiusura di un istituto cattolico, il Catholic Language Institute of Khartoum (CLIK) che operava dal 1986 per l’insegnamento dell’arabo ai missionari, ma che negli ultimi anni era frequentato soprattutto da studenti laici. Immediatamente dopo sono stati espulsi anche i due missionari che gestivano il CLICK, il francese padre Michel Fleury e l’egiziano Fratel Hossam, entrambi della congregazione dei Fratelli de la Salle, la cui attività, si dice, era da tempo monitorata dai servizi segreti. In questo caso erano state fonti vicine alla chiesa cattolica a rassicurare la stampa che “l’espulsione di padre Maurino e dei due missionari lassaliani che gestivano il centro linguistico per conto della conferenza episcopale è il risultato di errori amministrativi (cioè la conferenza episcopale non aveva richiesto l’autorizzazione per la frequenza di laici) e non intende cambiare le relazioni esistenti fra la Chiesa Cattolica e il governo”.

Le autorità ecclesiastiche non vogliono esacerbare gli animi, ma ormai è chiaro con l’ultima dichiarazione ministeriale che è in corso un vero e proprio un cambiamento della politica del governo sudanese nei confronti dei cristiani.

Sin da quando si era capito, nel 2011, che il Sud Sudan avrebbe scelto per l’indipendenza, il governo di Khartoum aveva minacciato l’introduzione della legge islamica, la sharia, nel nord, che in conseguenza della divisione del paese sarebbe diventato a netta prevalenza islamica.

Le azioni di questi ultimi mesi potrebbero essere la preparazione al mancato rinnovo dei permessi di residenza a missionari, per arrivare di fatto ad una espulsione “dolce” di tutto il personale straniero. Se i cristiani diminuiscono, se le chiese sono vuote, logica vuole che i missionari siano inutili, e che quindi il governo sia giustificato nel non rinnovare i permessi .

La realtà è un po diversa. Dall’ovest (Darfur) all’est (Southern Blue Nile) passando per i Monti Nuba e perfino per la periferia di Khartoum, la simpatia e il supporto per le chiese cristiane è in netta crescita. In alcuni casi, come sui Monti Nuba, le conversioni al cristianesimo sono in considerevole aumento, e il governo di Khartoum vede con enorme preoccupazione questo fenomeno: le aree più ostili alle sue politiche diventano progressivamente più cristiane. La decisione di intensificare la repressione e di muoversi verso leggi di tipo saudita rischia solo di far crescere le tensioni.

Ritorno al Villaggio

“Da Majimoto sono partita nel 1985, avevo 18 anni, e sono andata a vivere a Nairobi, nel quartiere di Kawangware. La vita non è stata quella che ho sognato. Ho avuto tre figli, poi il mio uomo è morto. Già eravamo poveri e vivere è diventato ancor più difficile. Son tornata qui nel 2000, credendo di potermi re-inserire. Ma non c’era speranza, e son tornata a Nairobi. I miei figli hanno imparato a vivere fuori casa… Li vedevo sempre più raramente. Ora sono felice di essere qui, due dei miei figli hanno imparato la strada per tornare a casa, forse loro riusciranno a fare quel ritorno che per me non è stato possibile.”

Majimoto è un villaggio nel nord della Tanzania, vicino al parco del Serengeti. Da Nairobi ci vogliono oltre una decina d’ore d’auto. Sette per arrivare al confine, attraversando successivamente il fondo della Rift Valley, i campi di grano di Narok, le piantagioni di te di Sotik e Kisii, e poi le piantagioni di canna da zucchero di Migori. Un paesaggio verdissimo, di grandi colline, che si apre su ampi orizzonti. Poi, dopo il confine a Isebania, due ore di paesaggio sempre più aperto, fin quasi a Musoma, sul lago Vittoria, e infine due ore di imprevedibile strada sterrata.

In questo ritorno al villaggio, con Boche (“miele” in lingua locale), la salute minata da una vita difficile, sono venuti anche due dei suoi figli, P., 20 anni, all’ultimo anno di scuola superiore, e W., 18 anni, secondo anno di scuola superiore. C’erano anche John, operatore sociale di Koinonia, e un amico italiano. Sono stati P. e W. a volere questo viaggio, per riconnettersi alle loro origini. Il ricordo del padre si è perso nelle nebbie della prima infanzia, e non hanno mai conosciuto la sua famiglia. Se per tutti è importante avere delle radici, lo è ancora di più in Africa, dove essere parte di un villaggio, di un clan, di un popolo è indispensabile per poter dire di esistere.

P. e W. sono stati recuperati della strada nel 2006, dagli operatori sociali di Koinonia. Sono entrambi timidi, riservati, di poche parole. Portano sempre il peso del loro passato. Al villaggio della mamma erano già tornati una volta, quattro anni fa, usando mezzi pubblici. Adesso al villaggio hanno ritrovato quattordici zii e un numero incalcolabile di cugini, dato che alcuni zii hanno diverse mogli. La loro guida per cercare di capire i complicati legami familiari è stato lo zio più giovane, diciannovenne, sposato da pochi mesi. La nonna, una donna coi capelli bianchi ma ancora forte, li ha abbracciati quasi piangendo “Temevo non vi avrei più visto”.

Il salto culturale fra Nairobi e Majimoto, dove non ci sono acqua potabile e corrente elettrica e dove nei giorni di pioggia, come in questa stagione, non si può’ far altro che restare nelle capanne a chiacchierare, è stato grande. I due fratelli sono sentiti accolti, amati. Gli zii hanno entusiasticamente assicurato che quando torneranno per stabilirsi definitivamente al villaggio, verrà’ loro assegnato un grande appezzamento dove potranno stabilirsi con mogli – nella nostra tradizione, hanno precisato, se ne possono avere fino a otto – e figli. P. ha notato come ci sia un grande rispetto delle persone. Un mattino, andando insieme ad uno zio a visitare i suoi campi, hanno trovato dei ragazzi di un villaggio vicino che stavano mangiando dei frutti. “A Nairobi li avrebbero ammazzati di botte” dice P., qui invece lo zio ha solo rimproverato i ragazzi, e poi ha spiegato ai due fratelli che se una persona ha fame ha diritto di mangiare tutto quello che trova, a patto che non porti via niente. Mangiare sul posto non è rubare.

Tuttavia alcuni aspetti che si ricordavano vagamente dalla visita precedente e che magari hanno studiato sui libri di scuola, nella vita reale si dono dimostrati difficile da interiorizzare. Il giorno dell’arrivo, W., mentre parlava con alcuni dei cugini della sua eta, è svenuto, cadendo a terra, rigido come un tronco, lui che è un bravissimo acrobata.

Non credo che P. e W. torneranno mai a vivere stabilmente a Majimoto. Eppure sono sinceri quando dicono che adesso che conoscono bene la strada ci torneranno più spesso, e quando si saranno sistemati a Nairobi, con una moglie e due o tre figli, precisano, cercheranno di introdurre dei miglioramenti nella vita del villaggio della loro mamma.

Nel viaggio di ritorno ho ricordato ai due fratelli ciò che mi ha insegnato un missionario che ha evangelizzato un’intera provincia del Sud Sudan nella prima meta del secolo scorso: quando sei di fronte a situazioni nuove e difficili, parla poco, non giudicare neanche in cuor tuo, ascolta molto, cerca di capire perché ci sono sempre delle ragioni anche per i comportamenti apparentemente più strani. Ringrazia Dio quando la gente accetta di condividere con te la sua vita. Accontentati di essere presente, e di amare.

Immaginare la pace a Nairobi

Da oggi i miei post di interesse generale sono pubblicati anche nel sito di The Post Internazionale, a http://www.thepostinternazionale.it/. Se vai a visitarlo fai crescere le mie azioni!

La sera a Kivuli, la prima casa per ex-bambini di strada che abbiamo aperto a Riruta, estrema periferia di Nairobi, quando è possibile ceno con alcuni dei ragazzini. La mia cucina è piccola e stasera ne ho invitati solo sette degli oltre cinquanta che formano la grande famiglia di Kivuli. Sono tutti fra gli otto e i dodici anni, a parte Niko, ed hanno vissuto insieme in strada a Kibera, il più grande slum di Nairobi. Da qualche mese hanno formato un coro che domani si esibirà in una parrocchia, presentando un loro DVD di canzoni che ha come tema la pace.

Gli altri hanno già finito, si sono lavati le mani e adesso stanno sparecchiando e lavando le stoviglie. Simon, invece, sta ancora gustando gli ultimi bocconi di ugali, la polenta keniana, con uno spezzatino di carne e verdure. Qualche anno fa la fame lo spinse a rubare qualcosa da una bancarella e fu quasi ammazzato di botte. Se la cavò con l’avambraccio destro rotto, i suoi amici glielo fasciarono con bende e stecche di legno, cosi l’osso si è saldato male, e anche la mano è parzialmente anchilosata. Ecco perché Simon ha un po di difficoltà a mangiare usando la mano destra, come la buona educazione vorrebbe.

«Domani canterete anche Amka Kenya, la vostra canzone più bella, in cui esortate la gente a rinascere nella pace. Siete capaci di spiegarmi cos’è la pace?», li provoco. Restano un po perplessi, a parte Andrew che sta per parlare, ma lo fermo e suggerisco che ci pensino bene aspettando che Simon finisca. Ci penso anch’io. Non è facile definire la pace. Da quando papa Paolo VI ha istituito la Giornata mondiale della pace, oltre quarant’anni fa, ogni anno il papa fa una riflessione sul tema. Ma una definizione di pace resta irraggiungibile, tante sono le componenti che entrano in gioco. Effettivamente, come questi bambini hanno intuito, solo la musica e la poesia sono adatte a farci assaporare la pace.

Quando siamo pronti, il tavolo della cucina sgombro e pulito, tutti seduti e pronti ad ascoltarci reciprocamente, ripeto la domanda. Il primo a lanciarsi è di nuovo Andrew, con l’audacia dei suoi 9 anni: «La pace è quando ci vogliamo tutti bene». Certo, concordano tutti; ma c’è anche qualche critica: la spiegazione è troppo vaga, cosa vuol dire che “ci vogliamo tutti bene”? Dopo altre risposte evasive, Twaha propone: «La pace è come quando ci sediamo insieme a mangiare e condividiamo il cibo. Tutti mangiano a sufficienza, senza litigare». Poi, guardando Simon, aggiunge: «Anche se qualcuno è più lento, bisogna rispettarlo».

Intervengo e sottolineo che hanno raggiunto un punto importante: la pace c’è solo se c’è giustizia, e una giustizia vera, che tenga conto delle necessità e dei limiti di tutti. Il cibo condiviso e sufficiente per tutti è poi un grande segno di giustizia, e di amore. Gesù non ha forse sfamato le folle? Ci mettono un po’ a elaborare il passaggio dal loro linguaggio concreto all’idea astratta di giustizia, ma si vede nei loro occhi che lo stanno facendo. Poi Niko, l’unico che arriva ai quindici anni, aggiunge: «Quando diciamo amore dobbiamo fare qualcosa per dimostralo, altrimenti è solo una parola». Riprendo io, evidenziando ancora la verità di quanto hanno detto: «La pace e la giustizia non possono essere solo un sentimento: devono diventare visibili nei gesti e nelle cose». Approvano. Hanno capito. Dovranno fare ancora il passaggio dal loro piccolo mondo alla grande società, ma sono certo che non dimenticheranno il nostro dialogo; i loro occhi, infatti, erano troppo attenti. Qualche altro breve commento, mentre si alzano per raggiungere gli altri che stanno già giocando in cortile, lo prova.

Mentre scendono la scala uno poi due poi tre intonano Amka Kenya. Dal cortile si uniscono prima quelli che stanno facendo esercitazioni di giocoleria, quindi anche quelli che giocano a pallone e gli spettatori. Canto e pace nel cuore della violenza di Nairobi.

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