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September, 2013:

Westgate: I bestemmiatori e gli altri – The blasphemers and the others.

Non credo che l’azione del commando terroristico che ha agito al Westgate Mall di Nairobi sveli “il vero volto dell’Islam” come mi è capitato di leggere. Continuo a credere, semplificando un po, che la maggioranza dei musulmani siano buone persone, che vogliono vivere la loro vita in armonia con gli altri, ma sono in ostaggio di una minoranza criminale, che usa la religione per fini politici e di controllo economico. Una minoranza di bestemmiatori violenti che si sono autoproclamati autentici interpreti del Corano.

I musulmani sono in una fase della loro storia simile a quella in cui noi ci trovavamo fino a un tempo non troppo lontano, quando anche noi credevamo ai nostri leader che ci dicevano che gli indiani d’America e i neri d’Africa non erano umani e li potevamo uccidere impunemente. O come, in tempi ancor più vicini, quando i soldati italiani obbedivano senza batter ciglio all’ordine di “passare per le armi”, cioè uccidere a sangue freddo, in pochi giorni, migliaia e migliaia di etiopici innocenti, e nessuno, neanche fra i pastori della comunità cristiana, levava una voce di protesta. I musulmani che oggi vivono in società dominate da leader politici o religiosi che propugnano ideologie discriminatorie, disumane, sono vittime quanto lo eravamo noi. E se noi non lo riconosciamo, rischiamo di ricadere nella stessa trappola: affermare che gli altri, in massa, “sono tutti così” è il primo passo per giustificare il male che stiamo progettando in cuor nostro.

Preferisco pensare che il loro dichiararsi musulmani, il loro discriminare chi uccide chiedendo il nome della mamma del profeta, sia assolutamente irrilevante. Cosi com’è irrilevante che gli affiliati a Cosa Nostra si dicano devoti della Madonna. Sono semplicemente criminali, qualsiasi cosa credano e professino, e il loro credo è usato al servizio della loro criminalità e del loro odio contro il prossimo, che ha altre radici ben diverse dalla fede in Dio. Questo l’ha capito Samuel, un ventenne cresciuto a Kivuli, il cui unico familiare, un lontano zio, è stato ucciso dai terroristi nei primi scontri al Westgate. Era addetto ad aiutare i clienti del supermercato a mettere la spesa nella busta di plastica – il lavoro in Kenya costa poco, sarà stato pagato 80 euro al mese. Samuel mi ha scritto: «Prega per mio zio, era una brava persona. Dio non può essere con quelli che lo hanno ucciso. Loro nominano il Suo nome invano. Io ho capito ancora meglio che dobbiamo costruire la pace».

Preferisco, leggendo e guardando cosa è successo al Westgate Mall, vedere le decine di persone che hanno istantaneamente reagito proteggendo i loro figli, ma anche quelli di altri, senza distinzione di colore, che hanno messo in salvo altre persone, che hanno donato sangue, che hanno spontaneamente portato panini e bevande alle squadre delle ambulanze, ai soldati. Certamente fra quei volontari c’erano anche dei miei confratelli, di quelli che non hanno paura di essere contaminati dall’odore delle pecore, anche quando le pecore odorano di paura e di morte. Fra vittime e soccorritori – le testimonianze sono unanimi – nessuno ha fatto distinzione di razza o di religione. Queste sono le persone che ci fanno sentire umani.

Fra di loro c’è Edwin, del gruppo acrobatico nato a Kivuli, i Nafsi Africa. Io quel giorno ero a Verona, e stavo uscendo di casa per partecipare a un incontro. Un confratello mi disse che a Nairobi stava succedendo qualcosa di grave. Ho aperto Facebook e la prima cosa che ho visto è stato un messaggio di Edwin: «In fretta, tutti al Westgate a donar sangue».

Kenyatta

Kenyatta potrebbe avere circa dieci anni. Nessuno sa come la mamma lo abbia chiamato, è lui che si fa chiamare con questo nome cosi solenne e presidenziale, almeno in Kenya. Jack l’ha trovato in strada lo scorso novembre e attraverso di lui è arrivato ad un gruppo di una quindicina di bambini che vivevano per le strade di Ngong. Kenyatta era il leader del gruppo. Tracagnotto e crapone, come dicono dalle mie parti, sia in senso figurato che di fatto. Dopo un percorso di conoscenza e crescita insieme di qualche mese, lo scorso aprile Jack aveva pensato che il gruppo fosse pronto per entrare a Ndugo Mdogo, una tappa di transizione verso una sistemazione ancora più stabile. Ma all’ultimo momento Kenyatta si era tirato indietro. “Perché – disse a Jack – io posso cavarmela da solo.” E se n’era andato, tornando in strada. Sarebbe stato controproducente chiedere l’aiuto dell’ufficio governativo che si dovrebbe occupare dei bambini di strada, e Jack ha preferito aspettare, però verificando di tanto in tanto che Kenyatta fosse sempre operativo in quel tratto di strada, vicino al grande mercato all’aperto di Ngong, che era il suo regno.

Ai primi di agosto, Kenyatta si è presentato a Ndugu Mdogo, ha salutato i suoi amici ed è rimasto. Senza una spiegazione. Jack ha scelto ancora di non reagire, semplicemente osservandone il comportamento. Una settimana dopo alla grande festa del Koinonia Children’s Day, durante la Messa, l’ho presentato a tutta la comunità come l’ultimo arrivato. Quando l’ho chiamato si è messo di fianco a me, dritto dritto, guardando tutti senza imbarazzo, sorridendo felice.

Dopo un paio di settimane ero a Ndugu Ndogo mentre George faceva una lezione di canto, e durante un intervallo mi si è seduto vicino, e senza che io gli avessi chiesto niente, ha cominciato a parlare, come se stesse riprendendo un discorso interrotto qualche minuto prima. “Non mangiavo da due giorni e son tornato a casa. Ho trovato mio papà ubriaco e mia mamma non c’era più. C’era un’altra donna. Lei mi ha cacciato come se fossi un bestia, lui mi guardava senza dire niente. Forse non mi ha riconosciuto. Poi la donna mentre uscivo mi ha urlato che mia mamma è morta di quella malattia di cui muoiono tutti, e che anche mio papà morirà presto, e poi anche lei. Che non mi faccia più vedere”. Si è fermato, poi ha aggiunto “Adesso sono qui e da qui non mi manda via nessuno”. Non l’ha detto in tono di sfida, come mi sarei aspettato da lui, ma semplicemente come un fatto assodato, definitivo, su cui non si discute. Jack era poco lontano, ha sentito tutto e prima che io potessi parlare ha chiesto “C’è forse qualcuno che ti vuol mandar via?”. Kenyatta si è guardato intorno lentamente, poi, sempre lentamente, ha fatto cenno di no con la testa. Poi, finalmente, le guance si sono coperte di lacrime silenziose.

I Martiri della Fratellanza – The Martyrs of Brotherhood

La testimonianza dei quaranta Seminaristi del Burundi, uccisi proprio perché rifiutavano di odiarsi l’un l’altro, dovrebbe essere meglio conosciuta e diventare modello ed esempio alle aspirazioni della gioventù Africana.
Guardando le loro bianche tombe non dobbiamo essere sopraffatti dalla disperazione. Dovremmo piuttosto dire, come disse Papa Francesco di Don Pino (il prete che fu ucciso per opporsi alla Mafia) “Essi hanno vinto come il Cristo Risorto”

Quaranta fotografie, i visi di quaranta giovani ragazzi che guardano dritto, ma timidamente, nella macchina fotografica. Fotografie prese dalle loro schede scolastiche, ragazzi come milioni di altri in Africa.
Ma questi quaranta giovani sono molto diversi, per le ragioni e le modalità della loro morte.
Le fotografie furono scattate nel 1997 all’inizio dell’anno scolastico in Burundi, quando il paese stava soffrendo una delle più crudele violenze etniche in Africa, una conseguenza del genocidio avvenuto nel vicino Ruanda. Poche settimane dopo, alle 5,30 del mattino del 30 Aprile 1997, alcuni membri del gruppo ribelle Hutu, il Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia (CNDD), attaccarono il Seminario di Buta ed uccisero quaranta giovani seminaristi di età compresa tra quindici e venti anni.

Fin dall’Ottobre del 1997, inizio della guerra civile nel paese, il Seminario di Buta era stato un tranquillo rifugio per appartenenti ai due gurppi etnici in guerra, gli Hutu, dediti alla pastorizia stanziale ed i nomadi Tutsi. Hutu e Tutsi erano stati coinvolti e bloccati in una mortale guerra civile, un vero e proprio genocidio fin dal 1972. Anche il Seminario era stato inquinato da divisioni etniche, ma negli ultimi anni, sotto la guida del loro rettore, i ragazzi si erano impegnati, in modo speciale, a vivere come fratelli, dando testimonianza della chiamata di Gesù rivolta a tutti, contro ogni divisione ed odio etnici.

Essi avevano appena concluso il loro ritiro Pasquale, quando gli attaccanti li sorpresero in piena notte nel dormitorio de ordinarono loro di separarsi in due gruppi, gli Hutu da una parte e I Tutsi dall’altra. Gli attaccanti volevano uccidere una parte di loro, ma i Seminaristi si rifiutarono di dividersi, preferendo morire insieme.
Visto fallito il loro diabolico piano, gli assassini si avventarono sui ragazzi e li massacrarono con colpi di armi da fuoco e granate.
Le prime vittime caddero abbracciati come fratelli.
Alcuni Seminaristi furono sentiti cantare salmi di lode ed altri pregare ad alta voce “Perdona loro, Signore perché essi non sanno quello che fanno”.
Altri, invece di difendersi o cercare di scappare, preferirono aiutare i loro fratelli sofferenti, sapendo chiaramente cosa stava per succedere a loro stessi. Alcuni dei Seminaristi e degli insegnanti, che non erano in quell’edificio, sopravvissero e poterono riferire i fatti.
Ora quelle quaranta fotografie sono sulle quaranta bianche tombe nel cortile davanti ai loro dormitori.

I quaranta ragazzi furono chiamati “Martiri della Fratellanza” e la loro causa di beatificazione – per proclamarli un esempio di vita Cristiana – cominciò poco dopo la loro morte. La causa è avanzata lentamente, molto lentamente come normale in questi casi. Ma la recente beatificazione di Don Pino potrebbe dare un’accelerazione al suo iter.

In difesa della virtù e della verità

Padre Giuseppe Pugliesi, conosciuto dai suoi parrocchiani come Don Pino, fu ucciso a Palermo da sicari della Mafia il 15 settembre 1993 e fu proclamato beato e “martire della Mafia” il 25 maggio 2013. Don Pino fu ucciso perché parlava, agiva e insegnava ai suoi parrocchiani, in particolare i giovani, a reagire contro la Mafia, profondamente radicata nella società locale. Egli sapeva che li capi della Mafia avevano ordinato la sua uccisione, ma non si fermò. Il suo scopo era di fare dei suoi giovani parrocchiani dei cittadini onesti, guide nel campo della giustizia e pace. Per la prima volta una vittima della Mafia diviene un Martire della Chiesa Cattolica.

Il cammino che portò alla beatificazione di Don Pino fu complicat ed una volta fu fermato perché egli non era stato assassinato “in odium fidei” ( in odio della fede) che era di solito il criterio essenziale della Chiesa per proclamare qualcuno un Martire Cristiano. Il processo di beatificazione di un martire è di solito molto più veloce che altri processi simili. La ragione di questa rapidità è che il martire è chiaramente morto per la sus fede in Gesù, mentre per persone che morirono in altre circostanze, la loro santità di vita e la solidità dei loro insegnamenti e preghiere deve essere provata oltre ogni dubbio e questo richiede un lungo processo di analisi della vita e degli scritti della persona in questione. Ma gli assassini di Don Pino erano Cattolici – spesso i capi della Mafia amano sedere nel primo banco della chiesa durante importanti celebrazioni, per sottolineare il loro stato sociale ed essi si proclamano strenui Cattolici – per questa ragione le loro motivazioni per ordinare l’uccisione di Don Pino non erano “in odium fidei” ma “in odio delle azioni e degli insegnamenti” di Don Pino. Qualcuno pensava che senza “odium fidei” nelle intenzione degli assasini, non poteva esserci martirio.

Il nuovo modo di definire il martirio, che emerse durante il processo di beatificazione di Don Pino, è riflesso nelle parole di Papa Franceso che disse: “Ieri, a Palermo, Padre Giuseppe Pugliesi, un prete ed un martire ucciso dalla mafia nel 1993, fu beatificato. Don Pugliesi era un prete esemplare, impegnato specialmente nell’insegnamento alla gioventù. Egli insegnava il vangelo ai giovani, portandoli in questo modo fuori dal controllo dei gruppi criminali e per questo essi cercarono di sconfiggerlo, uccidendolo. In realtà, invece, è lui quello che ha vinto con il Cristo Risorto! Preghiamo il Signore di convertire i cuori di quella gente. Essi non possono fare questo! Essi non possono cambiare noi, che siamo fratelli, in schiavi!”

Infatti gli assassini di Don Pino non agirono “in odium fidei”, ma “in odium virtutis et veritatis” (per odio della virtù e della verità). Essi non volevano distruggere la Cristianità – anzi, probabilmente essi si consideravano buoni Cattolici! – Don Pino si oppose alle azioni ispirate dal diavolo che essi e la loro organizzazione criminale perseguivano: fu questo che spinse loro ad ucciderlo.

Molti commentatori sottolinearono che al beatificazione di Don Pino potrebbe essere la prima di una serie di beatificazioni fatte perché il martire si oppose al diavolo e fu ucciso in odio alla virtù ed alla verità. Il più evidente e conosciuto esempio di questa possibile serie di beatificazioni è l’Arcivescovo Oscar Arnulfo Romero del Salvador, ucciso il 24 marzo 1980, mentre celebrava Messa, perché si ergeva come un difensore dei poveri nel suo paese diviso.

Mitezza e pace

Recentemente, Papa Francesco, nel rivolgersi ai membri di varie organizzazioni laiche convenuti in Piazza San Pietro, ha parlato dei cristiani che sono ancora vittime di persecuzioni: “Ci sono più martiri oggi che nei secoli passati. Il martirio non è mai una sconfitta, è il più alto grado di testimonianza. Un cristiano deve sempre avere un atteggiamento di unità e di mitezza, confidando in Gesù. Dobbiamo essere vicini a coloro che sono perseguitati; essi passano il confine tra la vita e la morte “.

I seminaristi di Buta sono stati uccisi a causa della loro posizione in difesa della giustizia e della fratellanza cristiana. Anche loro avevano deciso di fare della loro comunità un esempio di vita fraterna e di pace, nonostante la società divisa che li circondava. Anche loro sono stati uccisi probabilmente da altri cattolici – il Burundi è un paese in gran parte cattolico – non tanto per odio alla fede, ma per odio alla pace ed alla giustizia, spinti dal più brutale tribalismo.

I quaranta innocenti ragazzi del Burundi e la loro testimonianza dovrebbero essere meglio conosciuti e diventare un modello e un esempio delle aspirazioni dei giovani africani. Guardando le loro tombe bianche, non dobbiamo essere sopraffatti dalla disperazione. Dovremmo piuttosto dire, come ha detto Papa Francesco di Don Pino: “Hanno vinto, come il Cristo risorto”.
traduzione dall’inglese di Toni Portioli

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