Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

December, 2010:

La Luce e le Tenebre, l’Incontro e la Paura

L’amico Seba per Natale ha fatto circolare fra gli amici questa riflessione che gli è nata dentro durante la sua ultima visita a Nairobi. O meglio passeggiando per “il corso” di Riruta, la favolosa Kabiria Road. Ve la ripropongo, col suo permesso.

Da sempre l’oscurità suggerisce all’immaginazione intrighi, storie di contrabbando, traffici furtivi e silenziosi: e allora si chiama penombra; oppure notti di passione, romantiche carezze che prolungano la cena e possono arrivare fino al mattino seguente: e allora si dice a lume di candela.
A me Riruta di notte ricorda il presepe.
Riruta è un quartiere. In altre parti del mondo poteva aspirare al ruolo di cittadina, forse di capoluogo. Ma con intorno una metropoli come Nairobi, diventa una modesta periferia urbana, un prolungamento informale di cittadinanza, uno sparpagliato esistere di baracche ed edifici in mattoni collegati da sterrato.
Perché nella vita la propria statura si decide anche in relazione a chi ci sta intorno.

La sera le persone tornano a casa. Chi a piedi chi in autobus, al termine di una lunga giornata. E’ così in tutto il mondo. Ma è verso il tramonto che Riruta mi appare in tutto il suo fascino, a metà tra penombra e lume di candela. Sarà per le sgangherate bancarelle di verdura che accendono le loro lampade a cherosene; sarà perché ci sono ancora animali che girano liberi e gruppi di caprette che attraversano caotiche la strada stando attente alle poche motociclette, che sopraggiungono a fari spenti; è perché i piedi che calpestano queste strade impolverate a quest’ora si moltiplicano, e le loro vibrazioni risalgono lungo il mio corpo un attimo prima di comprare un cartone di latte dalla ragazza dell’alimentari; sono i neon quasi scarichi della bottega del barbiere che aspetta anche i più ritardatari, sono le mani di una signora che conta e riconta l’incasso della giornata, sono le chiacchiere dei bambini che hanno finito la scuola, i compiti, e persino i giochi; sono gli equilibristi della bicicletta in questo magma di buche e persone; sono i cani randagi, le marmitte bucate, sono gli ubriachi che hanno perso la verve, le note country che si diffondono dalla radio a pile, è il poliziotto; sono le ricariche del telefono grattate e lasciate cadere a terra, i carboni accesi del braciere su cui viene passata una pannocchia, è il predicatore, lo sfaccendato, il conoscente dal saluto cortese, una donna corpulenta.
E’ il passo di un quartiere impegnato nello sprint finale; seguirà il notiziario della sera, un pasto caldo, forse un breve black out, fino a sfumare verso il freddo dell’altopiano che sale dalla terra e percorre le strade.

E’ notte. Attraverso Riruta da un capo all’altro per andare in città e da lì all’aeroporto. Guido col rispetto che merita un’auto presa in prestito, consapevole delle buche.
E’ allora che mi accorgo che qualcosa è cambiato: che fine ha fatto il presepe?
La Riruta al buio, quella con qualche luce a fare intendere che il quartiere continua anche in quella direzione, ma senza capirne bene limiti e contorni. Con le baracche che emergono nella notte, e lampade ad olio sparse qua e là come piccole lingue di fuoco.

L’arteria principale del quartiere ora è scandita da enormi lampioni, simili a quelli da stadio.
La strada è piuttosto illuminata, i passanti si vedono in faccia, e le cose son lì, a portata di mano, senza bisogno di immaginarsele. Inchiodo di colpo. La modernità ha distrutto la poesia anche da queste parti? mi chiedo.
Come apprezzo quando giro di notte in bicicletta per la mia città. La mia città è abbastanza piccola che se uno non si inventa delle scuse la può girare tranquillamente in bicicletta. Ci sono notti in cui nel mio quartiere si spengono i lampioni, per intere vie. Si tratta di guasti, che colpiscono le centraline collegate tra loro. E il quartiere resta al buio. E io godo, perché mi sento a Riruta. Perché non mi sembra più tutto chiaro e preconfezionato; perché mi conquisto ogni metro dovendo usare la vista ed anche gli altri sensi.
Ma non capita tanto spesso, dalle mie parti.

Così maledico l’amministrazione comunale di Nairobi, che si è ricordata di questa baraccopoli solo per toglierle il fascino del presepe, ed ora mi sembra di guidare in mezzo a un campo da rugby.

Qualche sera dopo sono in compagnia di alcune ragazze di Anita’s Home. E’ saltata una lampadina, e sparecchiamo la tavola aiutandoci con torce e qualche candela.
In questi anni le ragazze di Anita mi hanno insegnato così tante cose, che ogni tanto mi concedono un ripasso. Parliamo del buio, di qualche storia a base di fantasmi, cimiteri e spiriti del bosco. Sembra il romanticismo scandinavo. Poi una di loro racconta che la settimana precedente è tornata qualche giorno a fare visita alla nonna, che vive sola in una baraccopoli dall’altra parte della città. Lavora? Sì, lavora. Ma in un quartiere un po’ lontano, come donna delle pulizie. Tornare a casa le prende più di un’ora, e la sera deve fare presto. E’ pericoloso girare col buio. E non per i fantasmi, che sono belle storie da raccontare e far paura ai bambini. Per i ladri; i ladri veri. Quelli sono capaci di prenderti tutto, e di lasciarti con niente. Ci vorrebbero dei bei lampioni, come quelli che hanno messo a Riruta.
Ah..la magia del presepe allora può fare male..?
Prendo attentamente appunti anche questa volta: voler tenere spenti i lampioni a Riruta perché è più affascinante ed evocativo per le poche volte che mi capita di passarci di notte, non si fa. Per chi ci vive, tutti i giorni, sono una grossa risorsa, un aiuto che li fa camminare sicuri anche la notte, in contesti difficili.
Bisogna stare attenti prima di giudicare le cose.

Ma io, penso tra me e me, i lampioni li vorrei levare anche dal mio quartiere. Per far posto a un po’ di mistero. E creare zone dove è pericoloso camminare la notte, come era a Riruta? No.
Bisogna che ne parli con Mary, con Judit, e con le altre ragazze di Anita. Per trovare una soluzione. C’è da coniugare penombra e lume di candela; bisogna che la scoperta ed il fascino innato della natura non vengano schiacciati dall’imposizione della tecnica; al tempo stesso che le persone possano godere delle bellezze incontaminate in tutta tranquillità. Intravedere chi mi viene incontro, e lanciarmi con fiducia nella relazione; cercando di non finire tra le mani di un brigante.
Unire libertà e sicurezza, piacere e garanzia, è una sfida a cui ci richiamano i nostri giorni.
Già, bisogna che ne parli con le ragazze di Anita.
So che loro hanno spesso soluzioni intelligenti.

Miracolo a Natale – Christmas Miracle

G***** è una dei ragazzi che nel giugno dello scorso anno mi aveva accusato di aver abusato di lui. In diretta televisiva, una sceneggiata organizzata da coloro che mi avevano accusato in precedenza, dalla stazione televisiva KTN e da sua mamma. Si, sua mamma si are lasciata accecare dalle promesse di ricchezza, sperava forse di riuscire ad uscire da una vita squallida. G***** non era riuscito a resistere alle pressioni della mamma, che ha sempre amato molto pur conoscendo il tipo di vita che faceva. Dopo tutto è la persona che lo ha messo al mondo e fatto crescere. Il papà non sa chi sia.
Per dopo una settimana, attanagliato dal rimorso, era andato dalla polizia a raccontare tutto: come la mamma lo avesse psicologicamente forzato, come lo avevano istruito fin nei minimi dettagli su quello che avrebbe dovuto dire. Dopo circa sei mesi ha trovato il coraggio di cercarmi e di chiedermi scusa. Ma non ha avuto il coraggio di tornare a Kivuli. Temeva che gli amici di un tempo lo avrebbero insultato e cacciato. La mamma aveva cambiato casa, e lui aveva cambiato scuola, andando in collegio in una scuola a cinquanta chilometri da Nairobi. Durante le vacanze veniva a trovarmi, e mi parlava sempre del suo desiderio di venire a far pace con i vecchi amici di Kivuli, ma poi non trovava mai il coraggio per farlo.
Lo scorso luglio G***** ha compiuto 18 anni, ed ieri sera tardi, pochi minuti prima che iniziasse la Massa della Natività, è arrivato di sorpresa al cancello di Kivuli. Agli inizi era un po timoroso, poi ha trovato solo volti amici e sorridenti, ed ha preso il suo posto in mezzo agli altri. Tutti lo hanno ricevuto con semplicità, come se non lo vedessero dal giorno prima. E’ venuto al cenone natalizio – riso e patate bollite, spezzatino di manzo e le torte più economiche del supermercato tagliate e metà e riempito di marmellata – e poi è andato a dormire nel suo vecchio dormitorio.
Stamattina, quando mi sono messo in azione presto per preparami ad andare a celebrare Messa coi bambini di Kibera, era da solo, seduto sulla panchina di cemento appena fuori dalla porta del dispensario. Mi ha guardato serio e pensieroso, e senza enfasi, con semplicità, ha constato: Kivuli è il posto più bello che abbia mai conosciuto.

Marcia per i Diritti dei Bambini – March for Children’s Rights

Negli ultimi mesi a Nairobi Koinonia ha organizzato alcuni eventi importanti, ma io non son riuscito a tenere il passo. Provo a dar uno sguardo a ritroso, cominciando dall’ultimo evento la Marcia per i Diritti dei Bambini, che abbiamo tenuto a Kibera lo scorso sabato 11 dicembre.

La marcia è stata la conclusione di un lungo percorso iniziato lo scorso luglio. I nostri educatori di strada hanno tenuto oltre una ventina di workshops, coinvolgendo 200 educatori anche di altre ONG, e oltre mille bambini. Durante i workshops si sono aiutati i bambini a riflettere sulle loro situazioni e sui loro diritti e doveri, dando loro la possibilità di esprimersi attraverso il disegno, la recitazione e il canto. La Marcia, che ha attraversato Kibera da una capo all’altro e che ha visto la partecipazione di quasi duemila bambini e giovani, è stata quindi solo l’atto conclusivo.

Il finanziamento che abbiamo ricevuto dalla Fondazione Cariplo, con l’intermediazione del Centro Helder Camara di Milano, ci ha permesso anche di aggiornare il sito web che elenca tutte le comunità, parrocchie, organizzazioni che fanno interventi a favere dei bambini di strada a Nairobi, e di produrre un video, che dovrebbe essere disponibile entro fine mese.

Per l’occasione abbiamo creato una nuova entità, KAP (Koinonia Action for Peace), con un bellissimo logo – il logo di Koinonia in negativo sui colori dell’arcobaleno. L’anno prossimo vorremmo fare di questa educazione ai diritti un processo permanente per tanti bambini non solo a Kibera ma a Riruta, Kawangware, Nkaimurunia, incominciando fin da gennaio.

Diciamo che la marcia è per i diritti dei bambini, ma parliamo sempre anche congiuntamente di doveri, come “tu hai il diritto di mangiare, ma hai anche il dovere di non sprecare il cibo e di condividerlo quando ne hai troppo…” I bambini capiscono questo immediatamente e si sentono responsabili. Un esempio sono i due fratellini nella foto qui sotto che hanno fatto tutta la marcia tenendosi per mano, il più piccolo con una mano sul cuore in segno di impegno e responsabilità.

Buon Natale

Un caro augurio di Buon Natale a tutti.

La sera del 25 alle 11.30 circa ci sarà su Rete 4 un programma sul Kenya – credo intitolato “Storie di Confine”. Sono stato intervistato, e, se mi vedrete quella sera, consideratelo un altro modo per augurarvi Buon Natale.

Avrete probabilmente già tutti visto il comunicato stampa di Koinonia – fatto ampiamente circolare da Amani – in cui si dice che l’Attorney General del Kenya ha dato istruzioni alla polizia di chiudere definitivamemte il mio “caso”, visto che in oltre un anno di indagini non è stata trovata una prova, una persona, che sostanziasse le tremende accuse che mi sono state fate lo scorso anno.

Questo per me è stato il più bel regalo di Natale.

Chi non avesse visto il comunicato, lo trova sul sito di NewsFromAfrica, a www.newsfromafrica.org

Felicità – Happiness

Scritto per World Mission, Manila, Filippine

La costituzione americana si apre con un altisonante dichiarazione di diritto alla felicità. Nella vita quotidiana questa ricerca, in America come in tutti i paesi occidentali, si riduce per molte persone all’accumulo di cose – che siano soldi, gadget elettronici, rombanti auto. L’idea che essere felici coincida con avere molte cose è diventata parte della cultura moderna. Se e quando la felicità mantiene la sua qualità immateriale, diventa “fun”, divertimento. “Have fun” si augura in America a chi va a partecipare ad una festa, ma anche a chi va a un concerto, o a una conferenza o a fare acquisti. Sembra che la vita senza divertimento non sia più vita. Ma la felicità è sinonimo di accumulo e di divertimento?

In contrasto all’ “have fun” americano ci sono le mille quotidiane storie di disperazione. Un segno è che nel sempre più ricco mondo occidentale il numero dei suicidi continua a crescere. Sembra che la crescita del benessere materiale vada di pari passo con un aumento dell’ infelicità, delle malattie della mente – ma soprattutto di quelle dell’anima, come la depressione – e del disperato tentativo di comperarsi la felicità con le droghe, i festini, l’abbigliamento firmato, e tutti i segni esterni dell’apparenza delle felicità. Mi diceva recentemente un amico che vive in Francia “ogni tanto vado per curiosità nei luoghi di divertimento frequentati da mio figlio ventenne, magari con la scusa di offrirgli un passaggio per rientrare a casa. Nel ritorno mi sento sempre angosciato, con la sensazione di aver incontrato mille disperati, mille infelici che credono di divertirsi facendo chiasso tutti insieme e imbottendosi di alcool e altre droghe. Vado in crisi e mi domando se mio figlio va in quei posti solo perché sono di moda i se non ci vada perché non ha mai conosciuto la felicità interiore che in una persona adulta nasce dalla coerenza con le proprie scelte, dall’aver rispettato i proprio valori. E’ un immaturo o una persona senza ideali?”.

Qualche tempo fa, una domenica mattina nella chiesetta di Tubalange, alla periferia di Lusaka. Piccole, povere case di contadini, per lo più costruite in fango e lamiere zincate. Terra rossa, campi ormai secchi dopo che le ultime pannocchie di mais sono state raccolte, Un gruppo di visitatori italiani partecipa alla Messa. Prima della benedizione finale il laico responsabile della comunità mi chiede di presentarli. Poi tutti si mettono in fila per dare personalmente il benvenuto e stringere la mano. Poi qualcuno accenna un ritmo col tamburo, altri si uniscono battendo le mani. Incomincia un canto. Poi un altro e un altro ancora, e entro pochi minuti la piccola comunità di un centinaio di persone canta e balla, le donne ululano di gioia, e gli ospiti sono completamente coinvolti ed esilarati. Dopo la benedizione finale uno degli ospiti mi dice: “Questa è stata la festa più spontanea e più sentita cui abbia mai partecipato. Una cosa cosi non la si improvvisa, può essere solo l’espressione di una felicità che questa gente ha nel profondo del cuore!”.

Qual’è dunque il segreto della felicità? Secondo i filosofi la felicità consiste nella piena realizzazione di se stessi, non può stare nelle cose che possediamo e nei riconoscimenti che riceviamo dagli altri, come prestigio, soddisfazioni, potere. Ma per realizzarci non dobbiamo desiderare ciò che è irraggiungibile, non compatibile con la nostra situazione presente. Oppure evadiamo dal mondo aspirando ad una felicità che può esistere solo un in altro mondo, che è irraggiungibile qui ed ora, come ci propone una certa visione cristiana spiritualista ed oltremondana. O, ancora, possiamo essere felici solo quando raggiungiamo la razionale consapevolezza della nostra situazione esistenziale e controlliamo i desideri, non ne formuliamo di irrealizzabili. Allora si è felici anche quando si è poveri e non si possono comperare medicinali per il figlio malato, perché razionalmente si sa che non si può fare di più.

Ma tutti questi sembrano più che altro modi per evitare la delusione e non precipitare nell’infelicità, piuttosto che una strada per essere felici. Sono una rinuncia a priori, e chi si comporta cosi diventa un cinico che rischia di non sperimentare mai la felicità.

Gitau è un ex bambino di strada di forse dieci anni, con alle spalle una desolante storia di abbandono. Eppure basta anche solo guardarlo con affetto perché il volto si apra ad un sorriso che è l’icona dell felicità. Gitau ha già sperimentato tutte le possibile delusioni del mondo, quelle più drammatiche, l’abbandono della mamma, il tradimento degli amici, e conosce tutti i possibili modi per giocare d’anticipo contro la delusione. Ma Gitau sa di essere una storia dentro una storia più grande, in comunione con le tante storie che ha intorno. Forse, e credo che non sia un’esagerazione attribuirgli certi pensieri anche se Gitau ha appena incominciato a studiare il catechismo per diventare cristiano, ha già capito la visione di Gesù nel discorso della montagna “Beati voi, felici voi….” perché in tutto vedete e respirate la presenza di Dio, e non perdete mai la speranza, anzi la certezza, che Dio e il Suo Amore vinceranno.

Credere nella promesse del Regno dei cieli significa vivere in pienezza già qui, in attesa di una dimensione diversa. Non significa illudersi con ciò che è razionalmente impossibile, ma solo negare la disperazione alimentata dai cultori dei deserti dell’anima. Tanto meno significa negare la felicità terrena in attesa delle felicità futura, ma vedere nel buono e nel bello che c’è qui una bagliore dell’eternità. Felicità è vivere il fatto che la nostra piccola vita e storia ha senso solo all’interno della grande storia della salvezza.

Gitau lo sa. Mi si avvicina e mi dice “Padre, hai tempo per giocare con me?”.La felicità è un dono che solo gli altri, o l’Altro, possono farti. Gitau, cercandola, me la dona.

Italiano English
This blog is multi language by p.osting.it's Babel