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July, 2015:

Quelli che aspettano Obama

Barak Obama, presidente degli Stati Uniti, figlio di uno studente keniano che era andato in America con un programma di borse di studio organizzato dal presidente John F. Kennedy, sta per arrivare a Nairobi. La prima volta in Kenya come presidente. I segni dei preparativi sono ovunque. Fra la gente degli slums gira addirittura voce che per tutti i tre giorni della sua presenza in città i network telefonici saranno oscurati, e cosi forse anche internet!
Se questa visita fosse avvenuta agli inizi del suo primo mandato per Obama sarebbe stato un trionfo popolare, i keniani si erano convinti che uno di loro era diventato presidente della prima potenza economica e militare mondiale. All’euforia subentrò l’attesa – non pochi contavano su sostanziosi aiuti per il paese – poi la delusione e perfino l’indifferenza. Oggi, nonostante i mass media giochino bene il loro ruolo di cheer-leaders, la gente comune sembra preoccupata per queste conseguenze ma poco interessata alla visita.

Il giornalista
Un giornalista che lavora per il più importante quotidiano keniano e che è della stessa etnia di Obama senior, mi dice: “Come tutti sanno i servizi di sicurezza americani hanno completamente preso in mano la situazione, estromettendo i servizi keniani, notoriamente incapaci e corrotti. Gli americani riusciranno a tenere tutto sotto controllo, e il loro presidente non correrà pericoli, ma ci potrebbero essere attentati i margini delle zone in cui Obama sarà presente, magari fra la folla. Grazie a Dio io son riuscito a far coincidere le mie ferie con questa visita”.

La profetessa
Achieng Awiti, un’anziana donna anche lei della stessa etnia del padre di Obama, è ancor piu pessismista. Ieri, fuori dal cancello di Kivuli, e forte della sua fama di profetessa diceva a tutti con aria misteriosa: “Obama sa di dover venire a morire qui, dov’è nato suo padre. Porterà dolore per tutti”.

Il ragazzo di strada
Martin invece non si azzarda in pronostici e profezie, guarda la realtà che sta vivendo. E’ un ragazzo di strada di sedici anni molto indipendente, ogni giorno viene a Kivuli Ndogo solo per il pasto di mezzogiorno: “La polizia ci perseguita, vogliono ripulire le strade, secondo loro Obama non deve sapere che noi esistiamo. Dove possiamo andare? Hanno distrutto le nostre basi, ci rincorrono e picchiano appena ci vedono. Ci mettono in prigione. Poi ci lasceranno andare quando Obama sarà partito. Ma siamo noi la minaccia?”. Martin dice il vero. Questi ragazzi-spazzatura, come vengono chiamati, per i governanti sembra siano i colpevoli di tutti i mali de Kenya, mentre invece ne sono le vittime, e il segno più chiaro di un’economia che arricchisce i ricchi e impoverisce i poveri.

L’educatore
Un educatore del centro di prima accoglienza preferisce guardare al futuro con ottimismo e azzarda in un paragone difficile ed una facile profezia: “Spero che questa visita sia il segno che il Kenya è guardato con ottimismo dalla comunità internazionale. Ma la visita a cui guardo con speranza è quella di Papa Francesco. Lui è davvero un leader speciale, non Obama. Son sicuro che quando verrà in Kenya a fine novembre, come ha promesso, non si arroccherà dietro i servizi di sicurezza, andrà a visitare i poveri a Kibera. Neanche il nostro presidente osa andarci, figuriamoci Obama. Ma lui, Francesco, ci andrà”. Non mi ero accorto che a popolarità di papa Francesco fosse arrivata cosi lontano, fra i poveri di Kawangware.

Il piccolo commerciante
La scorsa settimana i mass media hanno messo per giorni e giorni in grande evidenza a riapertura del Westgate, il lussuoso centro commerciale in cui avvenne un feroce attentato terroristico nel settemebre del 2013. L’evento e’ stato presentato come il segno della capacita del Kenya di superare le difficoltà. Personaggi dell’alta borghesia sono stati intervistati con sullo sfondo vetrine di lusso, bambini felici che guardano a bocca aperta avveniristici intrecci di scale mobili.
Sfogliavo il giornale al Baraza Cafe, e un conoscente si avvicina e commenta: “Io avevo un piccolo negozio di cartoleria a Kibera. Qualche mese dopo i fatti di Westgate il mio negozio è bruciato in uno dei periodici incendi che devastano Kibera. Ho perso tutto, e nessuno era colpevole. La banca che conosceva il mio piccolo business si è rifiutata di farmi un prestito, mi hanno detto che non c’erano i soldi. Ho sudato e faticato, con l’aiuto di mia moglie che si è rimessa a vendere frittelle ai margini della strada, come faceva da ragazza, e finalmente siamo riusciti a ripartire. Mi domando dove quelli del Westgate abbiano trovato tutti i soldi per ricostruire il loro gigantesco e sfarzoso palazzo in meno di due anni”.

Mai come in questi giorni in Kenya si percepisce quanto sia necessario passare dall’economia dello spreco, l’economia che uccide, ad un’economia del bene comune. Non sono profeta come Awiti, ma è facile pronosticare che se papa Francesco verrà a Nairobi, questo sarà una parte centrale del suo messaggio evangelico.

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Disuguali, sempre

Un altro attentato terrorista in Kenya perpetrato da Al Shabaab, stamattina a Mandera, sul confine con la Somalia. Mons. Joseph Alessadro, vescovo coadiutore della non lontana Garissa, dove ai primi di aprile avvenne la strage di studenti universitari, intervistato dall’agenzia Fides afferma, con buoni motivi, che “L’obiettivo degli Shabaab è di ‘liberare’ il nord-est della Somalia, abitato da keniani di origine somala, dai non musulmani e dai non somali. Come negli attacchi avvenuti in precedenza, sono stati presi di mira dei lavoratori provenienti da altre aree del Kenya, quindi non somali e non musulmani. Purtroppo sembra che questa strategia stia avendo successo. A risentirne maggiormente sono i settori della sanità e dell’istruzione. In tutto il nord-est l’educazione è in gravi difficoltà per la mancanza di insegnanti, provenienti da altre aree del Paese, che si rifiutano di tornare a lavorare lì”.

Non trovo la notizia sui siti italiani, dve pure l’altro ieri era stata riportata l’uccisione di un operatore turistico italiano a Watamu. Anche il sito della BBC da poca rilevanza al fatto

In margine ai non mai abbastanza condannati atti di terrorismo bisogna notare che sono sempre riportati con occhio razzista. E’ razzista chi vede in ogni bianco un crociato cristiano, chi vede in una fisiognomia medio-orientale segni di terrorismo, chi vede in ogni persona di pelle scura un clandestino. Ma è innegabile che sia razzista anche il modo, il contesto e l’importanza con cui si riportano gli episodi di terrorismo.

Razzismo è una parola che non si vorrebbe mai pronunciare, un concetto che vorremmo eliminare dal nostro pensiero, ma l’evidenza dei fatti quotidiani, locali ed internazionali, ci deve far prendere coscienza che il razzismo non solo esiste, ma pervade in profondità la “modernità” . E’ importante quindi essere consapevoli di vivere in una società seriamente malata di razzismo e identificare quegli agenti che ne provocano una recrudescenza e una crescita. La nostra cultura e società, per ragioni storiche, sono predisposte al razzismo, e certi movimenti sociali e politici, come in Europa i vari movimenti autonomisti e partiti che vedono nell’Europa una fortezza da difendere, hanno gioco facile a far leva sul razzismo più o meno latente, a scopi elettorali.

Non esistono “razze umane”, e quindi sarebbe addirittura improprio parlare di razzismo, ma continuiamo ad usare questa parola per parlare di una visone dell’umanità profondamente anti-umana e anti-cristiana, quel razzismo grossolano che distingue brutalmente le persone in base alle gradazioni di colore delle pelle, mettendo i più scuri al livello più basso. Il razzismo di Dyllan Roof, l’assassino ventunenne bianco e biondo che lo scorso 18 giugno ha ucciso a Charleston, negli Stati Uniti, nove persone in preghiera, colpevoli solo di avere la pelle di colore diverso dalla sua.

Ma c’è anche un razzismo che cerca di essere politicamente corretto, che si nasconde dietro altre maschere. La disuguaglianza basata su presupposti razzisti persiste sia in Sudafrica – dove l’apartheid è finito nel 1994 – che negli Stati Uniti – che hanno abolito il segregazionismo trent’anni prima – e pervade il pensiero occidentale. Nei mass media, nelle analisi politiche, nelle statistiche sociali, non è normalmente nominato, per una ipocrisia tipica del politically correct, ma esiste, eccome. C’è un “apartheid globale”, un sistema internazionale di governo della minoranza globale costruito sul tacito presupposto che le persone e la loro vita abbiano un valore diverso, in base al luogo di nascita, alla ricchezza ma anche al colore della pelle. Semplificando, ma non troppo, possiamo affermare che nel nostro mondo i poveri, coloro che non hanno potere, sono neri. Anzi, i poveri sono Africani. E, siccome sono poveri, sono un po meno persone umane degli altri.

Molti in questi ultimi mesi si sono domandati perché venti vittime del terrorismo a Parigi creano molte più reazioni che non duecento cinquanta vittime in Nigeria, o centoquarantotto vittime in Kenya? Perché ebola viene affrontata con determinazione solo quando alcuni bianchi muoiono e si scatena la paura che possa arrivare in Europa e negli Stati Uniti? Perché i riflettori restano puntati per giorni sulle trentotto vittime europee in Tunisia e poche ore sulle decine di vittime a Mogadiscio e Kuwait City? Forse le risposta è che la vicinanza della Tunisia ci ci fa sentire più vulnerabili? Sarebbe un errore vedere nell’accettazione tacita del valore differenziale della vita umana solo superficialità o indifferenza a ciò che avviene in paesi lontani. Il fatto fondamentale è che nel modo che gli occidentali hanno di porsi nel mondo il razzismo non è meno importante delle strutture militari, economiche, finanziarie e politiche che gli stessi occidentali hanno creato nel corso specialmente degli ultimi secoli per mantenere il privilegio, la supremazia, il dominio dei pochi sui molti. Il loro dominio.

Nel nostro tempo parte dell’inganno è consentire che i fatti della disuguaglianza razziale siano nascosti dietro altisonanti dichiarazioni di principio che negano il razzismo. Si dice “noi non siamo razzisti, da noi tutti hanno pari opportunità” per negare il passato, la storia, l’origine delle singole persone. “La nostra società non giudica dal colore della pelle” è un altro mantra tanto importante e falso quanto “il mercato è neutro”. Ma entrambe le affermazioni non sono vere. Nel sogno americano tutte le persone possono avere successo a prescindere dalla loro origine. La povertà, il fallimento sono attribuiti all’incapacità dei singoli, senza riferimento alla discriminazione passata o presente. Sei povero, sei in prigione, sei un fallito nelle vita per colpa tua, non perché sei nero, e non importa se l’80 per cento dei poveri, dei carcerati, dei falliti siano neri. Lo si dimentica, come un dettaglio statistico trascurabile. La prova del contrario invece sono proprio i casi di successo, che rimangono l’eccezione. Chi pensava che l’elezione di Barak Obama alla presidenza degli Stati Uniti fosse il segno che l’America avesse definitivamente superato il razzismo, adesso si accorge che cosi non è.

Quando si analizza l’ordine, o il disordine, mondiale, non si evidenzia mai l’importanza che in esso ha il colore della pelle. Anche la critica drastica che papa Francesco in “Laudato Sì” fa del sistema economico mondiale non nomina mai l’esistenza della discriminazione razziale o del razzismo. Invece, proprio come dovrebbe essere inconcepibile parlare del passato, presente e futuro della società americana nominare la storia degli afroamericani, così non si può parlare delle disuguaglianze globali del 21° secolo senza nominare l’”apartheid globale”. Ciò deve essere detto non per fomentare divisioni o rivendicazioni, ma semplicemente per riconoscere la verità, e ripartire dalla verità per costruire un mondo abitato da persone di uguale dignità.

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