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Referendum

Mercoledì 4 agosto i keniani potranno votare in un referendum pro o contro una nuova costituzione. Il processo per la revisione della costituzione è iniziato quasi vent’anni fa, ed è importante che si arrivi ad una migliore distribuzione dei poteri, che nelle presente costituzione sono concentrati nel Presidente.
Già nel 2005 c’è stato un referendum e la costituzione proposta non era molto diversa da quella proposta adesso. Ma allora Mwai Kibaki, il Presidente, e Raila Odinga, attuale Primo Ministro, erano ai ferri corti perché Odinga voleva far pagare a Kibaki il non aver mantenuto la promessa di creare il posto di Primo Ministro, pensato solo per lui, dopo le elezioni del 2002. La proposta del 2005 fu bocciata, e i due andarono alle elezioni del 2008 l’un contro l’altro armati, letteralmente, causando la disastrosa violenza post-elettorale, con oltre mille morti documentati. Poi venne elaborata una proposta che prevedeva la presenza di un primo ministro, ed era estremamente farraginosa nel tentare di attribuire le competenze ad un esecutivo diviso in due. Tale era la proposta fino a pochi mesi fa. Poi i due hanno capito che conveniva ad entrambi accordarsi. A Kibaki per lasciare comunque un’eredità storica positiva, visto che non potrà essere rieletto per la terza volta, e a Odinga perché finalmente il sogno della sua vita di diventare Presidente del Kenya sembra a portata di mano, e quindi non gli interessa più una costituzione che preveda la figura del Primo Ministro.
Una serie di consultazione frenetiche, più o meno manovrate anche dalla “comunità internazionale”, hanno quindi portato a che i due protagonisti di questa vicenda si accordassero per interposti partiti, a cambiamenti sostanziali, come appunto la cancellazione del posto di Primo Ministro, a quella che ci era stato fatto credere fosse una costituzione frutto di una consultazione popolare.
Fra gli elementi nuovi che sono entrati c’è una cauta apertura all’aborto e l’accettazione dei tribunali islamici (Kadhi) da estendere a tutto il territorio del Kenya. Le corti Kadhi nella costituzione vigente erano ammesse solo sulla costa, per una striscia di 30 chilometri, ed erano state pensate al momento dell’indipendenza, come un compromesso, che sarebbe sparito nel tempo, per convincere le popolazione islamiche della costa di far parte del nascente paese.
Per aggravare la cosa, all’ultimo momento, nella notte prima che la nuova versione ufficiale della nuova costituzione venisse stampata, qualcuno ha inserito due paroline nel capitolo sui diritti umani che di fatto li limitano se ci fosse in gico la sicurezza nazionale. Investigazioni sono in corso, ma ancora nessun responsabile è stato trovato. Così questa bozza costituzionale che è stata ritoccata da un ignoto tipografo è quella che sarà sottoposta a referendum.
I leaders cristiani del Kenya l’altro ieri hanno firmato una dichiarazione (la metto integralmente nella versione inglese di questo stesso post) sottolineando che per molti aspetti la nuova proposta è migliore rispetto alla costituzione vigente, ma chiedendo ai cittadini di votare contro perché la nuova proposta non salvaguardia la sacralità della vita umana, l’educazione morale dai giovani e il principio dell’uguaglianza religiosa. Contemporaneamente invitano alla pace e comunque ad accettare il risultato.
Che la posizione dei leader religiosi cristiani, vescovi cattolici inclusi, sia discutibile è fuori di dubbio, ma è pure fuori di dubbio che sarebbe bastato un po di buona volontà da parte di tutti per arrivare ad una proposta costituzionale che avrebbe messo d’accordo almeno il 90 per cento dei keniani. Invece adesso si va al voto col rischio che la nuova costituzione passi, e che passerà mi sembra certo, con un margine di voti poco convincente, intorno al 60 per cento. Che per una nuova carta per cui ci si è battuti per vent’anni non è una gran bella cosa.
Un altro elemento causa di grande tensione è la pessima compagnia in cui si ritrovano i leader religiosi: l’ex-Presidente Daniel Arap Moi e William Ruto. Per ragioni diverse da quelle dei leader cristiani, sostanzialmente per evitare che i latifondi di cui si sono impadroniti in passato vengano rimessi in discussione, entrambi sono contrari alla nuova proposta, ma non hanno proprio nessuna credibilità e autorità morale. Si fanno forti solo del supporto della loro etnia. Il primo ha gestito il paese come un dittatore per 24 anni, arraffando tutto ciò che c’era a disposizione, incluso una bella parte dei migliore terreni del Kenya. Inoltre alimentando la corruzione è arrivato a controllare un buon quarto dell’economia del paese. Il secondo è notoriamente fra i principali indiziati come responsabile delle violenze post-elettorali del 2008.
La tensione fra i Verdi (il colore assegnato dalla commissione elettorale al Si) e i Rossi (il colore del No) è grande. Ci sono stati già alcuni morti fra le vittime di due bombe rudimentali esplose durante una manifestazione per il No, e un vescovo di un piccola chiesa protestante è stato ucciso sembra in connessione con una sua focosa omelia per il No.
Un buon segno per Nairobi è che Kibera, negli ultimi decenni il focolaio di ogni violenza esplosa in città, è tranquilla. Tutti sembrano d’accordo per votare Si. La maggioranza perché Luo sostenitori di Raila, più i Kikuyu sostenitori di Kibaki e i musulmani, i cosiddetti Nuba che hanno fatto delle corti Kadhi una questione di principio. Quindi non ci dovrebbero essere ragioni di conflitto.
Kivuli, a Riruta Satellite, sarà sede elettorale. Anche qui non ci aspettiamo problemi, come non ne abbiamo avuti nel 2008, anche se è vero che sia a Kibera come a Riruta o qualsiasi altro quartiere di Nairobi basta che qualcuno paghi 3 euro al giorno ad un centinaio di giovani disperati per innescare il caos.
La possibilità di violenza per una vittoria del Si invece è molto concreta nella Rift Valley, che è il feudo di Moi e di Ruto.
Chiunque vinca, è inutile illuderci, siamo in un tempo di crisi. La crisi economica internazionale, i cambiamenti sociali; il venir meno della tradizione; le pesanti interferenze degli americani, i quali se sono riusciti a dimostrare qualcosa negli ultimi venti anni è che dell’Africa non capiscono niente, causando, dove sono intervenuti come in Somalia e Congo, solo disastri peggiori di quelli che erano in corso. I keniani sono stanchi e sfiduciati, hanno ascoltato troppe grandi promesse non mantenute, si sentono incapaci di cambiare il loro paese, vittime piuttosto che cittadini partecipi. Sentono dire che sono solo il primo esperimento di un programma americano che intende imporre a tutti i paesi “amici” una costituzione sul modello keniano.
In questa situazione c’è il pericolo di seguire sogni e illusioni senza nessuna consistenza, solo perché un leader che sa parlare bene li fa balenare davanti. Gli uomini politici keniani hanno un’abilità straordinaria, mi vien quasi da dire diabolica, a sfruttare le fragilità della loro gente. I piazzisti di sogni vedono un futuro radioso, sopratutto per se stessi.
Noi cristiani abbiamo fatto dire a Dio tante cose diverse, e anche noi abbiamo seminato illusioni, quindi dobbiamo essere umili e stare coi piedi in terra, favorendo i migliorami possibili, invece di sognare la perfezione.
Io continuo a credere che la desacralizzazione di tutti i poteri, anche quello della chiesa, che ci ha insegnato Gesù e la forza del suo Spirito, ci hanno avviato su una strada di umanizzazione che non possiamo più abbandonare, anche se le tentazioni sono tante. Ci muoviamo verso una creazione nuova, verso una rivoluzione interiore che deve concretizzarsi in lavoro quotidiano per la giustizia a le pace, vita offerta, sangue, storia. Se leggo le dichiarazioni dei politici e dei leader religiosi magari mi cascano le braccia, ma se guardo i ragazzi e le ragazze di Kivuli, Anita’s Home, Tone la Maji, e tutti gli altri allora credo che anche in Kenya sia possibile andare avanti anche dopo il 4 agosto.

Perché non dar loro i soldi? – Why not just give them money?

Come aiutare i poveri di tutto il mondo, oltre un miliardo, a superare la loro situazione? E’ una domanda difficile e probabilmente impostata male. Solo per reimpostare adeguatamente la questione bisognerebbe scrivere qualche libro. Ma gli economisti tentano di rispondere, e ci sono recenti libri di successo che affrontano questo argomento, con autori come il Premio Nobel Mohamed Yunus, la zambiana Dambisa Moyo e il canadese Paul Collier.
Un nuovo contributo viene da Joseph Hanlon, Armando Barrientos e David Hulme con un libro che finora è solo in inglese: “Just Give Money to the Poor: The Development Revolution from the South”.
Ne ho trovato la presentazione in AfricaFocus Bulettin, un servizio indipendente, gratuito e straordinariamente utile per chi è interessato a temi africani, che cataloga e ri-pubblica articoli, commenti e analisi che provengono dal mondo anglofono. Sono centinaia alla settimana, purtroppo solo in inglese. Fino a qualche anno fa i Padri Bianchi facevano un lavoro simile anche per il francese. Non credo esista niente del genere in italiano.
Ho fatto una traduzione libera e creativa della nota di presentazione dell’editore di AfricaFocus, William Minter, e dell’introduzione al libro.
Potete trovare la versione originale a http://www.africafocus.org/docs10/pov1006.php
Inoltre una versione quasi integrale del libro è disponibile su Google Books: http://books.google.com/books?id=M2WWHIzQON0C

La nota di William Minter
Parlando di povertà lo scorso mese con un giornalista del Washington Post, gli alunni di quinta elementare di un scuola a Southeast Washington (la percentuale di poveri a Washington è del 32 percento) hanno proposto la soluzione più ovvia: “Perche non dal loro i soldi?” (Washington Post, 11 maggio)). Esperti trovano facile respingere e anche ridicolizzare questa proposta di semplice buon senso, preferendo soluzioni magiche teorie sulla ricchezza da dall’alto lentamente raggiunge i più poveri, o elaborati programmi economici di aggiustamento strutturale. Ma questo nuovo libro propone ci matte davanti all’evidenza che probabilmente gli alunni di quinta hanno ragione.

Titolo del libro: Just give money to the poor – the development revolution from the South

Dall’introduzione

“Cuocio al forno 100 panini ogni giorno e li vendo per un dollaro Namibiano l’uno, con un profitto di circa N$ 400 (40 euro) al mese” dice Frieda Nembayai. Fa questa attività dal 2008, quando ha incominciato a ricevere un supporto regolare di N$ 100 (10 euro) al mese, e per la prima volta in vita ha avuto abbastanza soldi per comperare farina e carbonella. Nel vicino Sud Africa, i giovani adulti che vivono in famiglie dove un anziano riceve una pur piccola pensione, hanno più probabilità degli altri coetanei di trovare o di crearsi un lavoro, perché possono lasciare i figli con la persona più anziana che provvede alla cura dei bambini, e loro si dedicano ad un’attività economica.
Queste storie vere indicano una nuova strada per lo sviluppo, che sta prendendo piede nel Sud del Mondo. Invece di mantenere la gigantesca macchina internazionale che cerca di trovare modi per “aiutare i poveri”, è molto meglio dare i soldi direttamente ai poveri, i quali riescono poi a trovare modi efficaci per liberarsi della povertà. E indicano un realtà del mondo in via di sviluppo che è poco capita: il problema maggiore di coloro che sono al di sotto del livello di povertà è la completa mancanza di soldi in contanti. Molti hanno cosi pochi contanti che non possono permettersi neanche una cifra minima per migliorare la qualità del cibo, o mandari i figli a scuola, o mettersi in giro per cercare un lavoro.
Questo libro attinge ad un crescente numero di studi che sottolineano il potenziale e il limite dei trasferimenti in contanti per trasformare la vita delle persone che vivono in povertà. C’è già un forte consenso che molti programmi di trasferimento di soldi in contanti sono stati un buon successo nei paesi già sviluppati, e questo ha spinto una trentina di paesi in via di sviluppo sperimentare nel dare soldi direttamente alla gente, con programmi di “cash transfer”.
Da questi studi emergono quattro conclusioni: questi programmi sono poco costosi, i beneficiari usano i soldi ben e non li sciupano, le donazioni in contanti sono un modo efficiente per ridurre la povertà, e inoltre possono potenzialmente ridurre la povertà futura perché promuovono la crescita economica e lo sviluppo umano. Due area restano comunque al centro di un intenso dibattito: l’obiettivo (le persone che si vogliono raggiungere) e le condizioni . Si dovrebbero dare piccole somme a tante persone o somme più consistenti a pochi? Si devono mettere delle condizioni precise ai beneficiari, come per esempio mandare i loro figli a scuola o contribuire con il loro lavoro a attività sociali? Restano evidentemente delle aree da chiarire per il finanziamento e la messa in opera di questi programmi, specialmente nei paesi pù poveri. e senza dubbio i programmi di cash transfer sono ancora oggetto di controversie e dibatitti, e alcuni restano scettici sulla loro capacità di ridurre ala povertà a lungo termine. Anche questi temi sono discussi nel libro.
Un nuovo modo di pensare
All’inizio si pensava che i cash transfer o donazioni sociali potessero essere solo un lusso per paesi relativamente ricchi. I paesi poveri “non possono permettersi” di dare soldi alle loro fasce più povere, perché troppi cittadini hanno un reddito troppo basso, e quindi bisognerebbe aspettare che la crescita economica li rendesse più “moderni” prima di poter applicare questo “diritto”. In secondo luogo, questo diritto non distingue fra chi se lo merita e chi non, e i ricchi e potenti sono sempre convinti che i poveri sono sempre almeno parzialmente responsabili della loro povertà e quindi non si meritano un sostegno economico. I poveri devono sempre essere guidati o perfino obbligati ad agire per il miglior interesse dei loro figli.
Negli ultimi dieci anni, entrambe queste opinioni state contestate da parte dei paesi in via di sviluppo. Al contrario, sostengono che “non possono NON permettersi” di non dare soldi ai loro cittadini più poveri. Non solo questa pratica è conveniente, spesso è molto più efficiente dei sistemi tradizionali di promossi dalle agenzie di aiuti internazionali e dalle agenzie finanziarie. Essi sostengono che le persone che vivono in condizioni di povertà sanno come usare i soldi. E con questa pratica la responsabilità per sradicare la povertà, come la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo implica, è diventa veramente responsabilità di tutti.
Questa è una sfida importante ad un’industria dell’aiuto allo sviluppo costruita nello scorso mezzo secolo nella convinzione che lo sviluppo e l’eradicazione della povertà dipendevano esclusivamente da ciò che le agenzie internazionali e i consulenti poteva fare per i poveri, senza mai considerare ciò che i cittadini dei paesi in via di sviluppo, e degli stessi paesi tra di loro, potrebbe fare per se stessi. I ricercatori sono rimasti sorpresi di scoprire che, nel complesso, le famiglie con pochi soldi hanno affinato le loro capacità di sopravvivenza di generazione in generazione e sanno usare un po di soldi extra con saggezza e creatività – senza che sia necessario un esercito di soccorritori che come professione insegnano ai poveri come migliorare se stessi.
La ricerca sui trasferimenti di denaro mostra due importanti differenze tra i relativamente poveri e relativamente ricchi. Le persone più povere spendono di più per prodotti alimentari e le merci prodotte localmente, mentre i più abbienti comprano più merci importate, cosi che qualsiasi trasferimento dal ricco al povero stimola l’economia nazionale e locale. In secondo luogo, le persone più povere sono molto più propense a usare piccole somme di denaro per aumentare il reddito – investendo nella loro azienda agricola, nel piccolo commercio, o per la ricerca di un lavoro. In questo modo il contante distribuito diventa un fattore esplicito di sviluppo.
Il fallimento della campagna Make Poverty History
Il numero di persone che vivono in condizioni di povertà cronica è in aumento. Coloro che hanno fatto la campagna nel 2005 per fare “Poverty History” si chiedono che cosa è andato storto. Due libri famosi, Dead Aid: Perché gli aiuti non funzionano di Dambisa Moyo e L’Ultimo Miliarso di Paul Collier sostengono che gli aiuto hanno fallito e sostanzialmente affermano che tale fallimento è in gran parte colpa paesi poveri per uso improprio del denaro.
Gli aiuti non hanno fallito. Il fallimento è quello di un’industria anti-povertà che vive sulla complessità e mistificazione del problema, con consulenti profumatamente pagati per la fabbricazione di progetti sempre più complicati “per i poveri” e che continua a fissare le condizioni politiche per i paesi “che vengono aiutati”. Questo libro offre l’alternativa del Sud – dare i soldi direttamente a coloro che hanno meno ma che sanno fare il miglior uso di essi. I trasferimenti di denaro non sono beneficenza o filantropia, ma piuttosto investimenti che permettono alle persone povere di prendere il controllo del loro sviluppo e di eliminare la povertà. Così, questo libro è una sfida diretta a Moyo, Collier e gran parte dell’attuale teoria a pratica degli aiuti internazionali.

Aiuto, gli Aiuti!

Anni fa, Nigrizia pubblicò un dossier intitolato “Aiuto, gli aiuti”. In poche parole vi si sosteneva la tesi che gli aiuti internazionali fanno più male che bene all’Africa, perché le modalità con cui vengono distribuiti non sono corrette.
Lo scorso anno, ai primi di giugno, mentre ero a Riccione per partecipare ad un seminario organizzato ai margini del Premio Ilaria Alpi, venni intervistato brevemente da un amico giornalista, Della’intervista, pubblicata da Il Redattore Sociale, il quotidiano La Repubblica riprese solo una frase, che pubblicò virgolettata e in grande evidenza per rinforzare il messaggio di un articolo. Era qualcosa del tipo “Molte ONG usano gli aiuti all’ Africa per aiutare se stesse. Padre Kizito”. Lo penso ancora.
Dopo quella citazione ricevetti tre email da amici che lavorano in diverse ONG dicendomi che trovavano quella citazione infelice. Risposi che, conoscendoli, so che loro e le loro ONG lavorano con serietà, ma che bisogna pur dire che per una buona maggioranza le cose non sono cosi. La mia non era una condanna indiscriminata, avevo detto “molte”, avrei anche potuto dire “una buona maggioranza”, ma non ho detto “tutte”. Avevo anche detto al giornalista che il mio personale parere ed esperienza e’ che quando si tratta di aiuti allo sviluppo “piccolo e’ bello”, perché le ONG piccole lavorano spesso con tanti volontari veri, non pagati, hanno motivazioni più genuine, lavorano in vero contatto con le persone locali e raggiungono risultati migliori. Io ho contribuito a creare almeno una ONG e due ONLUS in Italia, e almeno quattro ONG in paesi africani, e quindi ben so che possono essere ottimi strumenti per intervenire efficacemente in favore di chi ha bisogno, sia con aiuti di emergenza che per la promozione umana e educazione ai diritti.
A conferma del lato negativo del lavoro delle ONG ricevetti anche cinque email. Le rappresentava tutte una lunga e dettagliata lettera di una persona che dopo aver lavorato per un totale di 12 anni in due diverse grosse ONG aveva deciso di cambiar completamente lavoro proprio pochi mesi prima perché disgustato dalla lotta senza esclusione di colpi per assicurarsi i finanziamenti del nostro Ministero degli Esteri o della Comunita’ Europea, dall’inefficienza, dalla corruzione, dal fatto che trovare i finanziamenti e rendicontare i progetti diventa più importante che farli bene e far crescere la gente locale. E’ comprensibile come sia quasi inevitabile, se non c’e’ un’altissimo livello di motivazione, che ad un certo punto dell’ evoluzione di una ONG la presenza di professionisti ben retribuiti faccia si che il motivo dell’esistenza della stessa non sia più’ quello che fare progetti al servizio dei poveri, ma di ottenere finanziamenti per garantire la continuità dell’impiego.
Mentre invece funzionano gli aiuti che passano attraverso piccoli canali, dove la gente si incontra aldi la’ di tutti i tipi di divisioni, e dove la dignità’ delle persone e’ rispettata. . Penso alle iniziative di tante piccole ONG che hanno cosi di gestione quasi zero, ai gemellaggi fra scuole e associazioni e parrocchie e diocesi e magari anche squadre sportive, alla cooperazione decentrata fatta da comuni, provincie e regioni. Situazioni dove i volontari si pagano il biglietto aereo di tasca loro e, magari facendo errori, comunque meno gravi e meno costosi di quelli fatti dalle grandi ONG, si coivolgono in prima persona. Fortunatamente queste piccole iniziative sono molte e anche se non cambieranno la faccia dell’Africa, almeno ognuna di loro rida’ forza e speranza a qualche centinaio di persone. E non e’ cosa da poco, se confrontata col quadro fallimentare degli aiuti istituzionali.
Ho ritrovato tutto questo in un’intervista a Dambisa Moyo pubblicata lo scorso lunedì su La Repubblica. Il titolo e’ “Dambisa Moyo denuncia: gli aiuti salvano i dittatori e condannano l’Africa” La Moyo, zambiana quarantenne, economista che ha lavorato alla Banca Mondiale, e che lo scorso 11 maggio il Time ha inserito fra le cento persone più’ influenti del mondo, ha pubblicato un libro intitolato Dead Aid – che potremmo tradurre con Aiuti Mortali – in cui espone come le modalità’ degli aiuti siano sbagliate, ma mi pare, almeno dall’ intervista perché’ il libro non credo sia disponibile in Italia, che salvi proprio gli aiuti piccoli e mirati, che non passano attraverso i grandi canali istituzionali. Mentre gli aiuti diretti da governo a governo, dice, sono “diventati un immenso business dove ci guadagnano tutti tranne l’Africa: le ‘benemerite’ fondazioni americane, le multinazionali alimentari, le organizzazioni non governative”.
Allego qui sotto l’intervista scansionata.

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Quando non si vuol capire – When one does not want to understand

Scrive Famiglia Cristiana:  “L’investimento solo sul preservativo condanna a morte 22 milioni a mezzo di Africani che l’Aids ce l’hanno gia’. E’ una soluzione minimale, che nasconde l’ interesse di industrie, Governi e grandi Ong. Distribuire preservativi – dicono medici e associazioni africane – blocca nella gente una riflessione seria sulla sessualita’, la violenza sessuale, la dignita’ della donna. Evidentemente, a chi ha dimezzato gli aiuti allo sviluppo e alla cooperazione, e nega dignita’ ai popoli dell’ Africa, va bene cosi”
Parole che sottoscrivo una per una, come sottoscrivo il documento che viene dall’ Uganda e che trovate cliccando sul link indicato qui sotto.
Ma non ci si puo’ non domandare: l’ignoranza abissale su cause e conseguenze dell’ Aids in Africa cha hanno dimostrato i politici e commentatori europei quando hanno “bocciato” le parole di Papa Benedetto XVI in visita in Africa dieci giorni fa, e’ solo pura  ignoranza o anche malafede?

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Kibera: The Correct Numbers

Kibera: Finalmente Qualcuno Da’ i Numeri

Quanta gente vive a Kibera? Quando mi si pone questa domanda, la mia risposta negli ultimi due o tre anni e’ sempre stata “molti dicono un milione, ma mi sembra un’ esagerazione, io direi settecentomila, forse ottocentomila”. Naturalmente la mia stima non era basata su una mappatura scientifica.  D’altra parte e’ difficile andare controcorrente: se andate su Google e cercate “Kibera” i primi dieci siti che vi appaiono stimano tutti gli abitanti di Kibera intorno al milione. Da qualche tempo suggerivo, quando se ne presentava l’ occasione, che sarebbe stato interessante fare una mappatura scientifica dello “slum piu’ grande dell’Africa a sud dell’ equatore”.

Ebbene, il dottor Stefano Marras finalmente a meta’ dello scorso anno questo lavoro scientifico l’ha fatto. Marras e’specializzato in questi studi ed ha formato del personale locale, sempre poi seguendolo e verificando i dati raccolti, diventando, coi sui taccuini e le sue domande, parte della vita di Kibera. Una prima breve descrizione del lavoro che ha fatto e’ riportata qui sotto. Richiamo solo la valutazione finale, dove Marras dice che estrapolando i dati riguardanti una sezione di Kibera la stima del totale delle popolazione dello slum e’ fra le 220,000 e i 250,000 abitanti.

Sorprendente? Non piu’ di tanto. Certamente uomini politici, ONG, gli stessi abitanti hanno interesse a gonfiare i numeri, non solo per una sorta di prestigio derivante dal vivere o operare in uno slum da record, ma perche’ i numeri alti attraggono l’ attenzione e, si spera, anche i benefici. E i mass media, che pure amano i primati,  sono spesso pigri nel verificare seriamente le informazioni, cosi quando un giornalista comincia a dire una cosa tutti la ripetono, e l’informazione falsa acquista una sua vita indipendente dai fatti.

Sorgono subito altre domande. E’ Kibera l’ unico caso di stima esagerata fra gli slums di Nairobi? Certamente no, e le stime degli abitanti di tutti gli altri slums di Nairobi dovrebbero essere proporzionalmente ridotte. E l’operazione e’ abbastanza semplice: basta aprire Google Earth, misurare la superficie che copre Kibera a la superficie coperta dagli altri slums e fare le proporzioni. Infatti la densita’ di popolazione per ettaro non puo’ presentare variazioni significative, visto che gli slums hanno gli stessi modelli abitativi. E se si fa questa operazione si vede subito che a Kibera resta comunque il triste primato di essere di gran lunga lo slum piu’ grande di Nairobi. Un’altra verifica viene dal fatto citato in nota da Marras, della grande discrepanza fra le stime e le verifiche fatte un po’ piu’ seriamente.

Vuol dire quindi che cio’ che abbiamo pappagallescamente ripetuto negli ultimi anni, come il fatto che almeno i due terzi della popolazione di Nairobi vive negli slums, e’ falso? Probabilmente questa stima e’ vicina alla realta’, perche’ ci sono aree grigie che non sono considerate slums ma che hanno un’alta percentuale di persone che vivono in baracche, come per esempio Kawangware, Umoja, Dandora, Riruta eccetera, eccetera. Ma a questo punto sarebbe interessante verificare.

Ci sono ancora altre domande che meriterebbero una ricerca approfondita: quante persone hanno votato nei seggi elettorali di Kibera durante le ultime elezioni? Non sarei sorpreso se risultassero piu’ votanti che non i residenti stimati da Marras…. e questa e’ una delle ragioni per cui si gonfiano i numeri. Un’altra domanda interessante: chi intasca gli affitti? Marras stima che il 96% degli abitanti paga l’ affitto a qualcun altro, e che nella sola Kianda il totale degli affitti mensili si aggirino intorno ai 53,000 euro. Che in Kenya, ma anche in Europa, sono un sacco di soldi.
Insomma c’e’ da sperare che la ricerca di Marras possa essere completata e arricchita di altri dati, come, per esempio, la presenza di ONG, di servizi sanitari ed educativi, di gruppi della societa’ civile, ecc.

Purtroppo pero’ bisogna chiudere con una nota importante. Il dottor Marras ha fatto questo lavoro con i fondi di una borsa di studio, una cifra che in un qualsiasi progetto di cooperazione finanziato da un paese europeo andrebbe nella voce “varie” o “cancelleria”. Ha comunque fatto un lavoro di grande rilevanza e scientificamente ineccepibile e nessun intervento governativo, nessuna ONG che voglia fare anche un piccolo progetto a Kibera, d’ora in poi potra’ ignorare questo lavoro.

Eppure non ha trovato nessuno disposto a finanziare un approfondimento delle ricerca, o la sua estensione ad altre parti di Kibera. Possibile che non ci sia una fondazione, un istituto di ricerca serio, che sia interessato a completarla? Naturalmente non mi riferisco alla cooperazione italiana, perche’ gia’ sappiamo che con questo governo i fondi per la cooperazione sono stati ulteriormente ridotti e siamo in termini di percentuale del PIL, fra gli ultimi al mondo.


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Stanno Chiudendo la Porta di Lampedusa

La Motonave Faina, a cui mi riferivo nel post intitolato “chi sono i pirati”, e’ stata rilasciata dopo che il proprietario ha pagato un riscatto, si dice, di oltre 3 milioni di euro. E’ stracarica di armi e munizioni. Ora stiamo a vedere dove andra’ a depositare questo carico mortale. Speriamo che ci siano girnalisti responsabili che tendano altra l’ attenzione, e non solo ci dicano quale guerra africana queste armi alimentaranno, ma anche chi le ha pagate e chi si e’ prestato a questo commercio contro tutti i trattati internazionali..

 

Nigrizia, di cui sono direttore responsabile, e i Missionari Comboniani sono membri dei due consorzi che hanno pubblicato il comunicato stampa riportato qui sotto. La rozzezza, incompetenza, ignoraza del nostro governo meritavano forse paroli piu’ forti, ma il messaggio e’ chiaro. La Parta di Lampedusa, di cui ho parlato ne post del 28 giugno scorso, si sta chiudendo.

 

 

«Prima malati che clandestini»

I missionari bocciano la norma del governo

 

 

Una ferita ai diritti delle persone immigrate e un pericolo per la salute degli stessi immigrati e dei cittadini tutti. Così giudichiamo la revoca della legge che impediva ai medici di denunciare gli immigrati clandestini che si rivolgono per cure alle strutture sanitarie e perciò esprimiamo la nostra indignazione.

La decisione adottata dal governo (che va ad aggiungersi a quella di rendere la clandestinità un “crimine”) costituisce un fatto grave, per di più in un momento delicato come l’attuale in cui al legislatore sono chiesti saggezza, equilibrio e lungimiranza. L’esigenza legittima di garantire l’ordine pubblico e la sicurezza non può mai far sì che siano calpestati i diritti delle persone. Una scelta di questo tipo non fa che aggravare un clima già pesante, che vede gli immigrati più vulnerabili che mai e tende a esasperare le contrapposizioni, invece di favorire l’integrazione.

Il provvedimento in questione, inoltre, si rivela miope in quanto a tutela della salute pubblica, dal momento che scoraggia di fatto gli immigrati che necessitano di cure e non hanno i documenti in regola, allontanandoli da ospedali e ambulatori. Il rischio che si diffondano malattie e che, contemporaneamente, si alimenti un mercato della salute parallelo è tutt’altro che teorico.

Per queste ragioni, condanniamo con forza l’operato del governo su questo punto e auspichiamo che la norma in questione sia ritirata al più presto. Chiediamo soprattutto che cambi l’approccio culturale a una questione come l’immigrazione. Noi, che in Africa, Asia e America Latina siamo stati immigrati, abbiamo ricevuto calore e accoglienza e abbiamo sperimentato la possibilità concreta di reciproco rispetto e condivisione di valori, tradizioni e ricchezze spirituali al di là di differenze etniche, culturali e religiose. Un popolo e uno Stato che si riconoscono nei valori della Costituzione non possono rinunciare ad avvicinare l’immigrato – regolare e clandestino – innanzitutto come una persona, con diritti e doveri. In caso contrario, stiamo scivolando a grandi passi verso la barbarie.

 

Federazione Stampa Missionaria Italiana

Commissione Giustizia e Pace della Conferenza degli Istituti Missionari Italiani

Milano, 6.2.2009

Migranti

Sabato prossimo, 28 giugno, sara’ inaugurato a Lampedusa un monumento alla memoria dei migranti caduti in mare nel tentativo di raggiungere le sponde dell’ Europa. Alcuni miei amici e due realta’ che ho contribuito a far nascere, Amani e Koinonia, hanno promosso questa iniziativa a cui vi chiedo caldamente di aderire. 

Amani, Arnoldo Mosca Mondadori, Alternativa Giovani e Koinonia Community lanciano una proposta alla società civile italiana e alle istituzioni europee: un monumento alla memoria dei migranti caduti in mare, che sara’ inaugurato il prossimo 28 giugno.

Il monumento che intendiamo realizzare, grazie alla disponibilità di Mimmo Paladino, è in memoria di quanti, uomini donne e bambini, hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il mare mediterraneo per giungere sino a noi in cerca di un futuro migliore.

E’ quindi un monumento alla memoria, in ricordo di coloro che non sono mai approdati. Una porta da attraversare in silenzio udendo solo il rumore del mare come se, per un istante, solo per un attimo potessimo ricongiungerci con coloro che non sono arrivati, per bussare alla loro porta come loro volevano bussare alla nostra e poi stare lì ed aspettare perché questo tempo non torni più.

Il testo che segue è il nostro APPELLO che vorremmo continuasse ad accompagnarci in futuro.

Ogni giorno decine di migranti cercano di raggiungere il nostro Paese e, attraverso di esso, l’Europa. Ogni anno centinaia di loro muoiono nel corso di questo tentativo. Negli anni, essi sono diventati migliaia e migliaia: 10.376 dal 1988 al settembre 2007 lungo le frontiere europee, secondo l’Osservatorio sulle vittime dell’immigrazione di Fortress Europe. È una strage senza testimoni, senza denunce e molto spesso senza sepoltura, perché la maggior parte delle vittime perisce in mare e i corpi non vengono recuperati. Persino nel caso del maggior naufragio di migranti, quello avvenuto la notte di Natale del 1996 al largo delle acque di Porto Palo in Sicilia, nel quale morirono 283 persone, sebbene il relitto sia stato localizzato, nessuno ha voluto assumersi l’onere delle operazioni di recupero. E’ dunque anche una strage senza pietà.

 

I migranti vengono dal Sud e dall’Est del mondo verso l’Italia. Vengono ad accudire i nostri anziani, a sorvegliare i nostri figli, a pulire le nostre case, a servire alle nostre mense, a lavare i nostri piatti, a raccogliere le nostre immondizie, a mandare avanti le nostre imprese artigianali, le colture e le stalle, gli impianti industriali e i servizi. Portano lavoro, umiltà, energia, un enorme desiderio di riscatto: vengono da noi per migliorarsi. Portano anche giovinezza e forza vitale alla nostra società senescente, disponibilità alle mansioni che da noi si rifiutano, speranza d’avvenire che a noi si comunica: vengono da noi per salvarci.

 

La strage di migranti ai nostri confini è il prezzo pagato alla nostra impreparazione, incomprensione, indifferenza di fronte a un fenomeno umano di proporzioni epocali. Per questo pensiamo che un calendario e un monumento ai migranti caduti possano essere non un risarcimento, ma un riconoscimento dovuto alle sofferenze patite anche per noi.

 

Per aderire invia una mail a: monumentolampedusa@email.it inserendo il tuo Nome, Cognome e Città, scrivendo nell’oggetto ADERISCO ALL’APPELLO.

 

All’APPELLO hanno già aderito rappresentanti della cultura, dell’arte, delle istituzioni e dell’impresa, tra cui:

Ennio Morricone, Antonio Tabucchi, Arnaldo Pomodoro, Alessandro Passadore, Andrea Aiello, Eva Cantarella, Guido Martinotti, Giulio Giorello, Lella Costa, Khaled Fouad Allam, Lucio Dalla, Don Gino Rigoldi, Don Virginio Colmegna, Ottavia Piccolo, Ada Gigli Marchetti, Roberto Vecchioni, Luca Pignatelli, Maurizio Cucchi, Laura Boldrini, Salvatore Veca, Margherita Hack, Alda Merini, Pietro Veronese, Bruno Arpaia, Nicoletta Mondadori, Alfredo Rapetti, Fabrizio Ferri, Bianca Beccalli, Anna Cataldi, Mimmo Paladino.

Info:

www.amaniforafrica.org – tel. 02.48951149

www.arnoldomoscamondadori.itwww.alternativagiovani.it

Vent’ Anni

Ho appena finito un incontro di due giorni organizzato dal nostro gruppo comboniano del Kenya, al quale hanno potuto partecipare una ventina di confratelli. L’ obiettivo era di analizzare la situazione politica e sociale in cui ci troviamo, identificare le principali cause dell’ esplosione di violenza e incominciare ad abbozzare una risposta cristiana a quanto sta succedendo. E’ stato uno sforzo comune con grande partecipazione e qualche nuova iniziativa dovrebbe partire presto. Come ho sempre pensato noi come chiesa, comunita’ di comunita’ cristiane, siamo molto lenti a reagire alle situazione, ma siamo piu’ capaci e determinati quando si tratta di fare formazione umana e cristiana sui tempi lunghi. E qui i stempi saranno lunghi.

Ieri Kofi Annan ha incontrato il Parlamento ed ha aperto delle prospettive molto positive, di un governo di transizione per arrivare a nuove elezioni entro due anni. Ma e’ stato subito accusato dal gruppo di negoziatori di Kibaki di non aver rappresentato cio’ che invece era stato detto negli incontri. Oggi tutti i negoziatori si sono trasferiti in una localita’ segreta per essere lontani dalla pressione dei mass media. Intanto la calma sta ritornando quasi dappertutto. E la gente incomincia a riflettere incredula sulla gravita’ degli avvenimenti di questo mese e mezzo, e sui drammi umani che stanno venendo alla luce.

Domani, San “Valentino, saranno esattamente  20 anni dal mio arrivo in Kenya. Sara’ una buona scusa per fare una modesta festa coi bambini di Kivuli. Modesta non solo perche’ siamo in quaresima, ma anche perche’ e’ il nostro stile. Dopo la solita cena di githeri – un bel minestrone di chicchi di granoturco, fagioli e patate – biscotti e succo di frutta a volonta’.

La Misna (www.misna.org) ha intanto pubblicato un’ ottima traduzione dell’ articolo che vi avevo proposto qualche giorno fa in inglese. Ringrazio gli amici della Misna e lo riproduco qui sotto come da loro traduzione per chi non conoscesse la Misna.

 

Non cerchiamo rivoluzionari dove non esistono

 
Non è possibile capire davvero quel che sta accadendo in Kenya e in Africa senza riflettere sulla cangiante natura dei movimenti di opposizione e le differenze tra un movimento spinto dal potere del popolo, ovvero una rivoluzione democratica, e una pletora di movimenti che consolidano le istituzioni democratiche per gli scopi del capitale internazionale volando sotto il radar della democrazia. Parlerò qui avanti soprattutto di Raila Odinga e dell’Orange democratic movement(Odm) ma potrei in realtà star parlando di Mwai Kibaki e del Partito per l’unità nazionale (Pnu). E’ solo perché l’Odm ha attivamente corteggiato l’immagine di ‘movimento di potere del popolo’, impegnato in una rivoluzione democratica, che richiamo la vostra attenzione su questo partito. Amilcar Cabral (padre dell’indipendenza della Guinea Bissau, ndr) una volta disse: “non dire bugie e non rivendicare vittorie piccole”. È con questo spirito che scrivo questo articolo.

COMINCIAMO DALLA QUESTIONE ETNICA. Così come non stupisce incontrare un americano che nega l’esistenza del razzismo nella politica americana, allo steso modo non ci si dovrebbe stupire se un africano nega che la politica africana è profondamente radicata nell’etnocentrismo. Il razzismo è un prodotto storico che ha una sua funzione, è così il ‘tribalismo’. Come gli esponenti politici dell’Occidente strumentalizzano la razza e la paura per scopi politici, così fanno anche quelli africani. L’etnocentrismo può essere una forza benigna o estremamente pericolosa, secondo il direttore d’orchestra. L’etnocrazia, proprio come qualsiasi struttura di potere razzista, esiste nella misura in cui è in grado di nascondere agli occhi delle vittime e degli attivisti le cause profonde dello sfruttamento economico, politico e sociale. È un meccanismo per attirare l’attenzione altrove. Non dimentichiamo anche l’avvertimento di Kwame Ture (al secolo Stokely Carmichael, uno dei capi del movimento per il black power negli Stati Uniti e poi panafricano, ndr) di non confondere successi individuali con vittorie collettive. La maggioranza dei kenyani – che siano di etnia Luo, Kikuyu, Luhya o altre – sono poveri. Il 60% dei kenyani vive con meno di due dollari al giorno, e ciò riguarda tutte le etnie. L’elite kykuyu prospera a spese dei poveri kykuyu; e lo stesso avviene per gli altri. I poveri di tutti i gruppi etnici hanno molto più in comune di quanto non abbiamo in comune i poveri e i ricchi della stessa etnia. Razzismo, nazionalismo ed etnocrazia tutte esigono che i poveri muoiano per difendere le strutture sociali che li mantengono nella povertà. Non sorprende che sia i morti sia chi ha ucciso in Kenya nelle scorse settimane fossero, da entrambe le parti, poveri. E tuttavia si uccidono seguendo criteri etnici, non di classe. I partiti politici occidentali hanno espresso posizioni diverse e contraddittorie lungo la loro storia, così pure è accaduto per i partiti africani. Nelle dittature degli Anni ’60, ’70 e ’80 del secolo scorso, le opposizioni politiche erano “i buoni”. Ma gli analisti politici internazionali progressisti ancora usano quel modello di lettura, che oggi ci impedisce di vedere le palesi contraddizioni davanti noi. Un esperto ben informato sulla complessa trasformazione della politica africana negli ultimi due decenni non può partire più dall’assunto che l’opposizione politica sia automaticamente rappresentativa di una forza popolare. Prendiamo ad esempio il caso dello Zimbabwe. Il Movimento per il cambiamento democratico, all’opposizione, è un partito neoliberista. Definirlo rivoluzionario o antimperialista sarebbe un errore. In Kenya, sia il governo al potere sia l’opposizione vedono spostarsi dall’uno all’altra i reciproci parlamentari con il cambiare delle rispettive posizioni politiche, con lo scopo di spartirsi le poltrone. William Ruto, uno dei capi del Odm è stato in passato il tesoriere dell’ala giovanile del partito Kanu, un organizzazione di teppisti utili alla politica creata dall’ex dittatore Moi, il quale ora è dalla parte di Kibaki. E faccio notare che il recente attacco alla chiesa in cui sono state uccise 50 persone è avvenuto a Eldoret, bacino elettorale di William Ruto, di cui è stato per molti anni il deputato eletto in parlamento.

Non tutti i partiti d’opposizione sono quindi antimperialisti o contrari all’intenzione del capitale globale di compattare il mondo. IN tempi in cui le nazioni ricche e le loro elite diventano sempre più ricche e le nazioni povere e i loro poveri diventano sempre più miseri, alcuni partiti d’opposizione scelgono di stare dalla parte del capitalismo globale. L’Odm include alcune delle persone più ricche del paese. Ad esempio la famiglia Odinga è proprietaria della fabbrica di melassa Spectre International e ha legami con una multinazionale petrolifera e mineraria per l’estrazione dei diamanti. Sulla stampa internazionale Raila è definito come un “brillante milionario”, il che non è del tutto falso. Ciò detto, è cruciale capire cosa significhi essere un movimento del popolo. Affinché una politica per il popolo sia davvero efficace, la solidarietà deve attraversare tutte le etnie. In altre parole, un movimento che tragga il suo potere dal popolo deve essere fondato sulla coscienza degli oppressi. Poiché non ha una base sviluppata in anni di lavoro con e per il popolo, l’Odm può solo sollevare il malcontento puntando sull’etnicità piuttosto che organizzare l’intero paese contro lo sfruttamento da parte delle elites. Come tutti i movimenti populisti, fa leva sulle peggiori paure della gente (quella di una dominazione kikuyu, per esempio) e le proietta sulla scena politica nazionale. Al contrario, un movimento che sia davvero per il potere popolare scarterebbe queste paure per mettere in evidenza come il potere e il benessere vengono iniquamente distribuiti. Poiché l’Odm non lo ha fatto, i suoi sostenitori hanno identificato i poveri kikuyu come nemici. Un movimento per il potere popolare avrebbe diretto le sue energie e la sua rabbia contro lo stato, non contro un’altra etnia. Un movimento per il popolo dichiarerebbe la sua solidarietà con gli emarginati di tutto il mondo. È terzomondista nella sua visione. Un movimento per il popolo, poiché la sua visione nasce organicamente dalla sua lotta e dal suo impegno al fianco del popolo, presenta una posizione contro un sistema economico internazionale di sfruttamento poiché i suoi membri sono resi più poveri da quei meccanismi. L’Odm non può essere definito come panafricano e terzomondista, piuttosto ha una coscienza populista. Inoltre, il guscio – la facciata – di movimento del popolo può essere usata dall’elite nazionale per conquistare il potere ma al servizio del capitale internazionale. Piuttosto che usare un termine come populista o popolare per riferirsi all’ Odm, sembra utile prendere in prestito una definizione dell’International Republican Institute (Iri, organizzazione fondata dall’ex-presidente Ronald Regan per promuovere “programmi di democratizzazione” nel mondo, ndr): “consolidamento democratico” con riferimento a una tecnica utilizzata dall’Iri nella Rivoluzione arancione in Ucraina e nella rivolta haitiana che portò alla deposizione del presidente Aristide. Il “consolidamento democratico” si traduce nel mettere insieme le organizzazioni della società civile (religiose, universitarie, ong locali, associazioni di donne, etc) e unire le diverse fazioni dell’opposizione in unica forza elettorale. Se i missionari aprirono la strada al colonialismo, i gruppi evangelici delle democrazie occidentali come l’Iri aprono oggi la strada alla politica estera degli Stati Uniti. L’unico vero scopo del “consolidamento democratico” è rimuovere i governi al potere. Non c’è nessuna sottostante e coerente ideologia collegabile al popolo, nessun interesse a dare potere al popolo o a restituire l’economia e le istituzioni alla sovranità popolare. Anzichè sviluppare vere radici con il popolo, in modo da diventare una sua estensione una volta al potere, l’Odm ha scelto il facile percorso del “consolidamento democratico” indicato dal modello Iri. Dobbiamo urgentemente distinguere tra movimenti per il potere popolare (come quelli che vediamo in America latina), movimenti populisti e movimenti d’opposizione neoliberali the consolidano le istituzioni democratiche a beneficio del capitale internazionale. I movimenti per il potere popolare sono una quinta forza solitamente in opposizione alle quattro esistenti: i poteri legislativo, esecutivo, giudiziario e militare.

Quando prendono il potere con mezzi democratici, i movimenti per il popolo cercano di trasformare le altre quattro forze in strumenti della rivoluzione. Vengono varate leggi per la nazionalizzazione delle risorse o per la redistribuzione delle risorse e della terra. L’esercito viene trasformato da strumento di intimidazione a una forza di soccorso in caso di calamità naturali. In poche parole, un governo per il potere popolare mette il popolo al centro dello stato. Quando un movimento che ha agito per il “consolidamento democratico” prende il potere fa esattamente l’opposto e le strutture democratiche diventano uno strumento del capitale globale e della politica estera degli Stati Uniti. La Liberia, per esempio, dopo avere lavorato con l’Iri, è uno dei pochi paesi ad aver aperto le sue porte allo Us African command centre. E dobbiamo almeno riflettere sul fatto che nelle passate settimane l’Odm non si è impegnato nella fase finale di una rivoluzione popolare ma piuttosto nell’ultimo passaggio del consolidamento democratico neoliberale, usando le persone come una testa d’ariete contro lo stato. È quello che accade quando un partito neoliberale chiama milioni di persone a scendere in piazza con la speranza di paralizzare lo stato. Poiché il “consolidamento democratico” ha bisogno del flusso e riflusso dato dalla violenza dello stato e della protesta del popolo, Raila, interrogato dalla Bbc se avrebbe fatto appello alla calma, ha potuto cinicamente dichiarare: “Mi rifiuto di dare un anestetico ai kenyani così che possano essere stuprati”.

Nel caso ve lo chiedeste, lasciatemi in ogni caso dire che per i progressisti non è Kibaki la risposta. Prima delle elezioni, la Commissione kenyana per i diritti umani ha reso pubblico un rapporto in cui si accusa la polizia di quasi 500 uccisioni di giovani uomini, tutti da quartieri come Kibera e Mattare, baraccopoli in fermento. È il segnale che la crescita economica del 6% non arriva alla gente più in basso, neanche le briciole. Il che significa anche che la compravendita del voto (su entrambi i fronti politici) è quasi una certezza. Sufficienti dubbi sono stati espressi dalla commissione elettorale per un riconteggio delle preferenze, una ripetizione del voto, un governo di unità nazionale o altra idonea soluzione all’interno delle regole democratiche. Se vogliamo riconciliare il paese e avere giustizia, le voci progressiste dovrebbero chiedere un’inchiesta delle Nazioni Unite sulla pulizia etnica successiva alle elezioni avvenuta a dicembre e a gennaio a Eldoret e in altre aree. Dovrebbe esserci un’inchiesta dell’Onu anche su quel che accadde nel 1994 nella Rift valley dove centinaia di kikuyu vennero assassinati e migliaia furono costretti alla fuga durante il regime di Moi, come anche nel massacro di Wagalla nel 1984 (sempre durante il regime di Moi), in cui centinaia di keniani di etnia somala furono uccisi. Infine dovrebbe essere aperta un’inchiesta anche sulle morti, non collegate alle elezioni, dei 500 ragazzi, lo scorso anno. I progressisti dovrebbero chiedere che la crisi sia risolta all’interno delle strutture democratiche. Quando Bush vinse un’elezione che noi non abbiamo chiesto ad Al Gore di provare a rovesciare il governo con una rivoluzione arancione, non gli abbiamo chiesto di dividere il paese secondo direttrici razziali: neri contro bianchi, bianchi contro latinos; gli abbiamo chiesto di rimediare usando procedure pacifiche e democratiche. E per questa ragione gli Stati Uniti sono ancora in piedi, nonostante Bush. Sia Raila che Kibaki possono creare un governo d’unità; chiedere un riconteggio dei voti e anche nuove elezioni. Qualunque sia il modo con cui ci si arrivi deve essere uno che lasci il Kenya in piedi per le generazioni a venire.

Il mio appello è questo: “Non cerchiamo rivoluzionari dove non ne esistono”. La solidarietà internazionale dovrebbe essere con il popolo keniano e non con i singoli capi. Un’intera nazione è in gioco. La cosa migliore per il Kenya è che ora torni su una via pacifica governata da strutture democratiche tali da sopravvivere a Raila e a Kibaki. Questo renderà possibile un governo con il potere del popolo attraverso una rivoluzione democratica.

[Mukoma Wa Ngugi, autore dell’articolo tradotto dalla MISNA, è poeta, scrittore ed editorialista keniano e Coordinatore delle conferenze dell’organizzazione panafricana “Toward an Africa without Borders”; per le due parti precedenti dell’articolo vedi notiziario di stamani e di ieri sera.]

Rivoluzionari? Si, ma con la Pelle degli Altri

Ho trovato sul New Internationalist di quasi un mese fa un articolo di analisi sulla situazione sociale del Kenya che trovo molto chiaro e acuto, e estremamente preciso nei fatti che cita. L’ autore e’ keniano, il che e’ indubbiamente un valore aggiunto, in questi tempi in cui si leggono e si sentono molte cose sul Kenya scritta da persone che col Kenya non hanno molta familiarita’.

Qualcuno potrebbe essere infastidito dall’ uso di categorie “marxiste”, ma queste categorie sono ormai parte della sociologia e fintanto che aiutano a capire siano benvenute. A me e’ sembrato fuori luogo l’ inutile parallelo fra missionari di un tempo e l’ IRI di adesso, che non aggiunge niente al discorso, e’ solo un luogo comune tutto da provare.

Ho trovato invece illuminante il pur brevissimo parallelo fra i fatti del Kenya e la rivoluzione ucraina. Come ho gia’ scritto, anche un giornalista ottimo conoscitore dell’ Ucraina si era accorto di notevoli sominglianze fra il modo con cui l’ ODM ha condotto la sua campagna elettorale e quanto era stato fatto in Ucraina. Che ci sia davvero una matrice comune?

Riporto l’ articolo in questione qui sotto. Purtroppo non ho il tempo di tradurlo dall’ inglese, se qualcuno si prestasse a questo servizio sarei poi ben contento di metterolo sul blog in italiano.

L’ originale lo trovate a http://www.newint.org/features/special/2008/01/11/kenya/index.php

From New Internationalist, January 11 2008

Let us not find revolutionaries where there are none

Mukoma Wa Ngugi, urges us to be wary of the democratic revolutionary claims made by various parties in Kenya.

One cannot fully grasp what is happening in Kenya and Africa without considering the changing nature of opposition movements and the differences between a people powered movement, or a democratic revolution, and a plethora of movements that consolidate democratic institutions for international capital while flying under the radar of democracy.

Even though here below I am mainly speaking about Raila Odinga and the Orange Democratic Movement (ODM), I could just as easily be speaking about Mwai Kibaki and the Party of National Unity (PNU). It is only because ODM has actively courted the image of being a people powered movement engaged in a democratic revolution that I draw your attention to it. Amilcar Cabral once said ‘tell no lies, claim no small victories.’ It is in that spirit that I write.

Let me begin by pointing to the question of ethnicity and say this: In the same way you ought to be surprised to meet a white American denying the existence of racism in American politics, so should you be when you meet an African denying that ethnocentrism is deeply entrenched in African politics. Racism is a historical creation that serves a function – so is ‘tribalism’. In the same way that leaders in the West manipulate race and fear for political goals, so do African leaders. Ethnocentrism can be benign or extremely vicious depending on its conductor. Ethnocracy, like a racist power structure, exists to the extent it is able to obscure for the victim and the activist the root causes of economic, political and social exploitation. It misdirects.

Let us also consider Kwame Ture’s (Stokely Carmichael) reminder that we should not mistake individual success for collective success. The majority of Kenyans – Luos, Kikuyus, Luhyas etc – are poor. The 60 per cent of Kenyans living under two dollars a day cut across all ethnicities. The Kikuyu élite live at the expense of the Kikuyu poor; it is the same for other ethnicities. There is much more in common between the poor across ethnicities, than between the élite and the poor of each ethnicity. Racism, nationalism, and ethnocracy all ask that the poor die in the defense of economic and social structures that keep them poor. It is no surprise that those who have been both dying and doing the killing in Kenya in the past week are the poor. Yet they are killing along ethnic, not class, lines.

And in the same way that over time Western political parties come to represent different and contradictory positions, so have African political parties. In the dictatorships of the 1960s, 70s and 80s, the opposition parties were the good guys. Progressive international political analysts are still working with that framework, which has blinded us to glaring present-day contradictions. The assumption that opposition immediately means people-power cannot be sustained by an analysis informed by the complex shifts in African politics in the last two decades. Take Zimbabwe, for example. The opposition Movement for Democratic Change is a neoliberal party. Calling it revolutionary or anti-imperialist would be wrong. In Kenya, both the sitting Government and the opposition exchange members fluidly as they position and reposition themselves, eyes on the national cake. William Ruto, a top leader in the ODM was previously a treasurer for the KANU Youth Wing – a political thug organization created by former dictator Moi, who is now in Kibaki’s camp. And the recent church killings that claimed over 50 lives took place in Eldoret, which William Ruto has represented in parliament for many years.

People power

Therefore not all opposition parties are anti-imperialist or opposed to the move by global capital to consolidate the world. At a time when the rich nations and their élite are getting richer, and the poorer nations and the poor within them are getting poorer, some opposition parties will choose the side of global capital. ODM is composed of some of the wealthiest people in the country. For example, the Odinga family owns Spectre International, a molasses company in conjunction with a multinational petroleum and diamond mining company. The international press, which refers to Raila as a ‘flamboyant millionaire’, is not entirely wrong.

With the above said, analysis of what it means to be a people powered movement is crucial. For people-power politics to be effective, solidarity has to be across ethnicity not along it. In other words, a people power movement has to, at its basis, be informed by the consciousness of a collective oppressed. Because it has no real grassroots developed over years of working with and for the people, ODM can only rile up discontentment by pointing to one ethnicity rather than organizing the whole country against élite exploitation. Like any populist movement it takes the worst fears of a people (fear of Kikuyu domination for example) and plays them out in the national stage. A people power movement on the other hand peels away these fears to reveal how power and wealth are being distributed. Because ODM has not done this, its supporters have identified the fellow poor Kikuyu as the enemy. A people power movement would have directed its energies and anger at the state not at another ethnicity.

A people power movement declares its solidarity with other marginalized peoples across the world. It is Third-Worldist in vision. A people power movement, because its vision grows organically from its struggle and engagement with the people, exhibits a stand against exploitative international economic arrangements because its constituents are impoverished through them. ODM cannot be termed as radical pan-Africanist or Third-Worldist, rather it has a populist consciousness.

Also, the shell – the façade – of a people power movement can be used by a national élite to seize power for international capital. Rather than use the term populist/people power to refer to ODM, it is appropriate to borrow a term from the International Republican Institute. The term the IRI uses is ‘consolidating democracy’, referring to a technique it used in the Ukrainian Orange Revolution and in Haiti against Aristide. Consolidating democracy translates into bringing together civil organizations (religious, universities, local NGO’s, women’s organizations, etc.), and uniting various opposition factions into one large electoral force. If missionaries paved the way for colonialism, evangelists of Western democracy like IRI pave the way for US foreign policy.

The sole purpose of consolidating democracy is to remove the sitting government. There is no coherent underlying people-centered ideology in this goal – no interest in empowering the people, or returning economic and political institutions to them. Rather than develop real roots with the people so that when in power the ODM becomes an extension of them, the ODM has taken the easy route of consolidating democracy following the IRI model.

We urgently need to distinguish between people power movements (such as those we have seen in Latin America), populist movements, and neoliberal opposition movements that consolidate democratic institutions for global capitalism. People power movements are a fifth force usually in opposition to the legislature, executive, judiciary and military. When they seize power through democratic means, they immediately attempt to transform the other four forces into revolutionary instruments. Laws nationalizing resources or redistributing land and resources are passed. The army is transformed from an instrument of intimidation into one that helps in times of disasters – in short a people power government places the people at the center of the state. When a movement that has been consolidating democracy gets into power it does the opposite, and the democratic structures become instruments of global capital and US foreign policy. Liberia, for example, after working with IRI is one of the few countries to open its national door to the US African Command Center.

We should at least consider that the ODM has in the last few weeks not been engaged in the last phase of a people power revolution but rather in the last stage of consolidating neoliberal democracy – using the people as the battling ram against the state. This is where the neoliberal party calls for millions to take to the streets with the hope of immobilizing the state. Because consolidating democracy requires the ebb and flow of violence from the state and protest from the people, Raila could cynically tell a BBC reporter when asked whether he will appeal for calm that ‘I refuse to be asked to give the Kenyan people an anesthetic so that they can be raped.’

Wounds need healing

In case you are wondering, let me say this: for progressives, Kibaki is not the answer. Before the elections, the Kenyan Human Rights Commission released a report implicating the Kenya police in extra-judicial killings of close to 500 young men, all from poverty stricken areas such as Kibera and Mathare, slums currently up in flames. This is a stark reminder that the 6 per cent economic growth was not trickling down to the people. Also that vote-rigging took place (on both sides as it turns out) is almost certain. Enough doubt has been cast by the electoral commissioners to make a recount of the votes, a re-election, a united government or another suitable solution a matter of democratic principle.

If the country is to heal, reconcile and find justice, progressive voices should call for a UN probe into the December – January post-election ethnic cleansing in Eldoret and other areas. There should be calls and support for a United Nations probe into the 1994 Rift Valley killings in which a reported hundreds of Kikuyus were killed and thousands displaced during Moi’s regime, and The Wagalla Massacre of 1984 (again during Moi’s regime) in which hundreds of Somali Kenyans were shot to death. Finally the non-electoral extra judicial killings of the 500 young men last year should also be investigated.

Progressives should also call for the crisis to be resolved within democratic structures. When Bush won an election that the rest of the world understood as rigged, we did not ask Al Gore to try and overthrow the government through an Orange revolution, we did not ask him to divide the country across racial lines, blacks pitted against whites, whites pitted against Latinos; we asked him to find redress through peaceful and democratic processes. And for that, the United States remains standing, in spite of Bush. Al Gore did not ask for a recount of all the votes, or for a re-election. But both Raila and Kibaki can form a united government; ask for a recount, and even a re-election. Whatever process or option is used to adjudicate this must be one that leaves Kenya standing for generations to come.

My plea to you is this: Let us not find revolutionaries where there are none. International solidarity should be with the Kenyan people and not with individual leaders. A whole nation is at stake. The best thing for Kenya right now is a return to a non-violent path governed by principled democratic structures that will outlive both Raila and Kibaki. It is this that will make possible a people-powered government through a democratic revolution.

Mukoma Wa Ngugi is co-editor of Pambazuka News, author of Hurling Words at Consciousness and a political columnist for the BBC Focus on Africa Magazine.

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