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May, 2011:

San Daniele Comboni

1) Qual è stata, secondo lei, la grande novità che Comboni ha introdotto nel modo di fare missione e di guardare agli altri?

Personalmente non vedo San Daniele Comboni come un grande innovatore delle metodologie missionarie. Le idee che ha proposto e che ha cercato di mettere in pratica sono sostanzialmente quelle degli altri grandi missionari dello stesso periodo storico. E lui leggeva molto e mutuava di quanto si scriveva soprattutto nel mondo missionario francese. Ha messo l’accento su alcuni aspetti, come il salvare l’Africa con l’Africa, l’importanza della donna, delle suore, come protagoniste della missione, ma mi pare che in questo fosse nel solco dei grandi missionari suoi contemporanei, come il fondatore della Società delle Missioni Africane di Lione, Melchior de Marion Bresillac, il quale già diceva ai suoi missionari di procedere immediatamente alla preparazione di un clero locale, cosi che dopo pochi anni non sarebbe più stato necessario mandare missionari… Per non parlare di San Justino de Jacobis, che diversi anni prima del Comboni aveva una visione modernissima della missione. Spesso, nel Comboni come negli altri missionari del tempo, più che di metodologie, si trattava di visoni necessarie a tener viva la speranza di fronte alle orrende difficoltà fisiche che la missione in Africa comportava a quei tempi. Basta visitare il cimitero dei missionari Spiritani a Point Noire, oggi Congo Brazzaville, dove sono sepolti decine di missionari, padri e suore, che morirono neanche o poco più che trentenni, dopo pochi mesi o pochissimi anni dal loro arrivo in Africa, per rendersi conto di quanto fosse difficile, eroica, la missione di allora. C’era bisogno di grandi visioni per poter andare avanti, credendo fermamente che il fallimento e la croce sono solo un passaggio per arrivare alla risurrezione. In questo contesto Comboni sogna la salvezza dell’Africa con L’Africa, vede “la perla nera”, la chiesa africana come una splendida realtà. Ma non si può parlare di metodologia. Anche il suo Piano per la rigenerazione dell’Africa del 1864 è una visione, una grande visione.
Ma questo non inficia minimamente la grandezza e la santità di Daniele Comboni, perché non stanno nei nuovi metodi missionari che avrebbe introdotto, ma, evangelicamente, nel sua smisurato amore per le persone Africane. Un amore che lo ha portato a spendere la vita completamente al loro servizio, fino alla morte. L’ultimo anno della sua vita è stato tutto un confronto con la morte. Sapeva di essere alla fine, ma non si è mai fermato, non ha mai smesso di dedicare tutto il suo tempo al servizio della gente che amava. Nessuno degli altri grandi fondatori degli istituti missionari dell’ottocento è morto in Africa. Lui ci è morto perché di fronte al fallimento dei suoi “metodi”, all’incomprensione e difficoltà, alle malattie che decimavano i missionari e anche le sue forze, non si è mai arreso. Il suo amore per le persone africane non si è mai fermato di fronte a niente, neanche alla morte. Questa per me è il motivo della sua santità. Insisto ad usare “le persone africane”, e non l'”Africa”, Il grande missionario protestante Davide Livingstone, per esempio, è morto in Africa, ma Livingstone amava l’Africa anche per i suoi aspetti geografici e la maestosa bellezza che si incontra ad ogni passo in questo continente. Cosi è morto in una palude vicino al lago Bangwelo, in quella che oggi è la Zambia, mentre cercava le sorgenti del Nilo, e voleva coronare la sua attività di esploratore. Questo per il Comboni sarebbe stato inconcepibile. Per lui lo scopo delle sua vita, l’amore che lo muoveva, era la gente, perché la gente potesse conoscere Gesù e il Vangelo. Anche se la sua visione della gente e delle cultura e delle religioni dall’Africa era quella sostanzialmente negativa che tutti avevano in quel tempo. Ma l’amore, e nel caso del Comboni, un amore testardo a invincibile, superava anche questi aspetti limitati dalla cultura del tempo. In sintesi per me il Comboni è un grandissimo santo perché ha dedicato la sua vita a Dio e al suo prossimo, in particolare le genti d’Africa, donandosi a loro fino alla morte. Non c’è amore più grande che dare la vita.

2) Comboni nel suo stile di vita e nei suoi Scritti è stato una profeta della vita missionaria. Che incidenza ha avuto questo fatto nella sua vita personale?

Ho pensato spesso al Comboni nei momenti delle scelte più difficili della mia vita. E l’ho preso come modello di amore per la gente. Comboni amava l’istituto di cui faceva parte, quello di don Nicola Mazza, ma quando si è trattato di scegliere fra l’Istituto e le genti d’Africa dalle quali si sentiva chiamato, ha scelto quest’ultime. Non si è mai scoraggiato, se non per momenti, di fronte alle difficoltà fisiche e morali, ai tradimenti delle persone alla quali aveva dato fiducia e sostegno. Quando si sentiva sicuro di aver fatto una scelta motivata dal desiderio di servizio, andava avanti fino alla fine. Io non ho avuto difficoltà neanche lontanamente paragonabili alle sue, ma certamente quando mi son trovato di fronte alla mie relativamente piccole difficoltà anche la sua testimonianza e la sue presenza, mi hanno aiutato a seguire a continuare il cammino portando le mie piccole croci.

3) Comboni è sempre stato al fianco dei più deboli, povero tra i poveri. Come pensa di aver vissuto questa caratteristica nel suo essere missionario?

Non dobbiamo esagerare con la retorica del povero tra i poveri. Comboni prendeva tutte le precauzioni necessarie per evitare le malattie. e voleva che lo stile di vita dei missionari – cibo a cure mediche – non ne minasse il lavoro. Soprattutto a qui tempi, l’Africa obbligava fin troppo spesso a vivere in situazioni difficili, che non era necessario andare a cercarsele! Basti pensare che i primi suoi missionari, subito dopo la sua morte, sono passati attraverso l’esperienza della schiavitù. Ma non se la sono certo cercata, l’hanno accettata come inevitabile conseguenza di essere rimasti con la gente.
Non riusciremo mai a condividere radicalmente la povertà della gente, alle fin dei conti restiamo sempre dei ricchi. Se ci ammaliamo seriamente magari alcuni di noi vorrebbero anche andare a farci curare nel dispensario o nell’ospedale locale, ma i superiori, giustamente, lo obbligherebbero a rientra in Europa. E questo ci pone nell’impossibilità di essere radicalmente poveri come lo è la maggioranza della nostra gente. La nostra povertà è quella del cuore, di restare in comunione di destino con la gente anche nei momenti più difficile. In questo abbiamo avuto anche dopo il Comboni una serie di missionari, per lo più dimenticati, che ci hanno dato esempi chiarissimi. Quando penso alla povertà io penso alla tomba di un fratello comboniano, Remigio Zappella, che ho visto a Tonga, sul Nilo, un posto che ancora oggi è invivibile per le mosche di giorno, le zanzare di notte, il caldo, l’umidità. Questo comboniano ci h vissuto all’inizio del secolo scorso per quasi trent’anni, interrotti solo da un viaggio in Italia di un anno. E ci è morto, e di lui non sappiamo quasi niente, non ha fatto scelte clamorose. E’ semplicemente restato a servire un popolo, gli Shilluk che non ha cominciato ad accettare il cristianesimo se non dopo due decenni dalla sua morte.

4) Cosa significa oggi “Salvare l’Africa con l’Africa”?

Significa sempre credere nelle potenzialità dell’Africa. Significa essere presenti in spirito di attenzione e servizio per lasciare che gli altri crescano, significa annunciare il Vangelo e lasciare che gli africani lo vivano integralmente ma anche in modo genuinamente africano, senza voler sempre inscatolare tutto e tutti nei nostri schemi.

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