Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

April, 2015:

Lampedusa e Garissa: la stessa Storia

Non è uno scontro di civiltà, è una scelta di civiltà.

La strage di Garissa sta cambiando l’autocoscienza del Kenya come la strage di Westgate non era riuscita a fare. A Garissa sono morti studenti, giovani, figli di famiglie che avevano riposto in quei giovani le speranze di tutti. Giovani, letteralmente, di tutti i popoli, e lingue e religioni del Kenya. Giovani che studiavano inseguendo il sogno di una promozione sociale, ma anche di un Kenya più giusto dove tutti i cittadini possono avere gli stessi diritti. Esattamente l’opposto dei loro assassini, rappresentanti di una società fanaticamente chiusa su sé stessa e incapace di dialogo.

Ne sono state vittime anche musulmani, non solo fra gli studenti uccisi. Ne è stata vittima la mamma musulmana che abbiamo visto piangere disperatamente abbracciata alla salma del figlio ucciso a Garissa. Tutti gli altri musulmani adorano il vero Dio, Misericordioso e Benevolo. La ferocia degli assassini non può più essere travestita da zelo religioso. I massacratori di Garissa erano gli esecutori di piani pensati da persone che in Dio non credono. Perché credono solo nel potere e nella ricchezza.

In questi giorni il governo del Kenya sta reagendo in modo scomposto, ansioso di mostrare che sta prendendo tutte le misure necessarie per accrescere la sicurezza, dopo la fallimentare gestione della crisi. Eccolo quindi a sospendere i conti bancari di molte organizzazioni e ong islamiche, senza peraltro provare che queste organizzazioni abbiano un qualsiasi legame col terrorismo. Si è riproposto di chiudere entro tre mesi il campo dei rifugiati somali di Dadaab, rimpatriandoli tutti, un’impresa titanica oltre che sbagliata, quasi impossibile da realizzare anche da un governo dotato di polizia e amministrazione efficienti e incorruttibili. Ha annunciato solennemente che metterà in sicurezza la frontiera costruendovi un muro – non è stato specificato quanto alto – ignorando forse che dovrebbe essere lungo oltre settecento chilometri, ponendo problemi enormi di costruzione, gestione e sorveglianza. Un ministro ha addirittura proposto che prima di accedere all’università tutti gli studenti facciano un corso obbligatorio di antiterrorismo.

Non possiamo dimenticare che il terrorismo somalo contro il Kenya è stato scatenato dalla decisione nel 2011 dell’allora presidente Mwai Kibaki, di inviare truppe kenyane in Somalia, ufficialmente parte dell’AMISOM (Missione dell’Unione africana in Somalia) per ristabilire il potere del governo che si era installato a Mogadiscio con l’appoggio delle potenze occidentali. Gli Stati Uniti in particolare avevano fatto enormi pressioni su Kibaki, garantendogli il supporto logistico per intervenire là dove l’esercito americano aveva miseramente fallito vent’anni prima. I kenyani vennero a sapere di questo intervento a cose fatte, quando già i loro soldati erano entrati in Somalia. Oggi nessuno può dire con certezza quanti soldati kenyani siano morti in Somalia. Probabilmente molti ma molti di più degli studenti morti a Garissa, ma i veri numeri li conoscono solo al Pentagono. Il Kenya è stato lasciato solo a pagare il conto della violenza.

La società civile kenyana, le ong, le comunità religiose delle diverse fedi hanno assunto atteggiamenti più sfumati e ragionevoli che non il governo. Sia nei mass media che negli ambienti che frequento, e sono i più vari, non ho sentito una voce in favore di risposte violente o meramente punitive. Tutti capiscono che il cancro è interno, il mostro da abbattere è prima di tutto dentro di noi e poi all’interno della società. Il grande mostro in Kenya, da cui nascono tutti gli altri mali, è la corruzione.

Personalmente ritengo che in questa crisi epocale dobbiamo abbandonare la logica della violenza e dimostrare di credere per davvero ai grandi principi che in Europa e America del Nord, più che altrove, sono cresciuti e sono stati codificati: giustizia sociale e diritti umani, democrazia, rispetto della vita di tutti. Questi valori rappresentano una conquista di tutta l’umanità. Non possiamo permetterci di sospenderli neanche mentre resistiamo alla furia di un fanatismo ottuso e retrogrado.

Sappiamo però che nelle stanze dei bottoni delle grandi potenze predominano ancora altre logiche. Succede così che paesi grandi per il loro potere economico-militare si rivelino poveri di anima e di visione. Potenze grandi nelle loro affermazioni e discorsi si rivelano meschinamente dedite alla difesa dei propri venali interessi. Grandi per il livello medio di vita, ma piccole, piccolissime perché succubi dell’economia e della finanza.

Mentre guardo sui giornali di Nairobi le foto degli studenti di Garissa mi pare di sentire da loro un invito a uscire dalle logiche meschine, per guardare il mondo con occhi grandi e aperti. Occhi capaci di sognare, ma anche di leggere la storia. Ecco perché il massacro di Garissa non può essere disgiunto dall’immane tragedia in atto nel Mar Mediterraneo. Ciò che vi sta avvenendo, l’ondata dei richiedenti asilo, dei profughi economici, i drammi delle centinaia di annegati, aggravati, dramma nel dramma, dalla disperazione di poveri cristi musulmani che buttano a mare altri poveri cristi cristiani, i morti per mancato soccorso perché nei corridoi del potere dell’Unione europea c’è ben altro a cui pensare, fa parte della stessa storia degli studenti di Garissa.

Della stessa storia fanno pure parte gli operatori della finanza, dell’economia e della politica che a New York, Washington, Londra, Parigi, Mosca, Milano e Beijing, continuano a dividere il mondo in “noi” e “gli altri”, coloro che manovrano i mercati così che chi in Africa estrae il coltan, coltiva le rose, produce il cacao, il tè e il caffè, continui a vivere nella miseria più disperata. Della stessa storia fanno parte i fabbricanti e mercanti di armi che hanno riempito questa nostra madre Terra di ordigni sempre più sofisticati per uccidere, invece che di energia pulita, agricoltura biologica, informatica per lo studio e di pace. E in questa storia sono anche i politici che seminano divisione e odio, che parlano di ributtare a mare gli immigrati, che hanno deciso di tagliare i fondi italiani ed europei alle operazioni di salvataggio in mare. Le mani, probabilmente ben curate di questi signori grondano del sangue dei loro fratelli come, anzi di più, di quelle dei poveri disperati che scaraventano in mare altri disperati.

I signori della guerra che operano dalla grandi capitali del mondo, e che la guerra la fanno fare agli altri perché loro sono troppo occupati a far soldi, sono per lo meno altrettanto colpevoli delle sofferenze di questo nostro mondo quanto i signori della guerra della Somalia, del Sudan e della Libia.

Continueremo a rispondere alla violenza con una violenza ancora più grande, più pervasiva, meglio camuffata? Questa è ormai una scelta che siamo tutti chiamati a fare, come individui e come società. Saremo capaci di fare tutti insieme un passo in avanti, di superare le divisioni e i confini e, almeno come ideale se pur lontano, muoverci verso una comunità internazionale in cui veramente tutti abbiano gli stessi diritti?

Come reagire alla violenza e al pericolo non è dato sapere finché non ci si trova dentro. Personalmente mi chiedo quale sarebbe la mia reazione se venissi a trovarmi faccia a faccia con un violento che vuole uccidermi. Tenterei una disperata difesa usando violenza? O cercherei di far leva sul residuo di umanità che anche i più incalliti terroristi si spera abbiano nascosto in fondo al cuore? Non lo so. Forse, per salvare altri a cui voglio bene, tenterei anche la difesa violenta…

Ma vorrei sperare di poter reagire come hanno fatto i cristiani su quel barcone che si sono opposti alle violenza di chi voleva gettarli in mare avvinghiandosi l’un l’altro, come hanno fatto quei quaranta giovani, seminaristi burundesi, che nel 1995 in risposta a che voleva separali lungo linee tribali, hanno preferito morire abbracciati, o come i lavoratori egiziani decapitati in Libia pronunciando il nome di Gesù.

Sono comunque contento della compagnia in cui mi ritrovo, o in cui mi ha posto la somma di piccole scelte che ho fatto nella vita. Oggi, domenica, a Kivuli, estrema periferia di Nairobi, ho passato il pomeriggio ad ascoltare giovani che sono stati travolti dalla povertà, dalla droga, si sono invischiati nella piccola criminalità… per riprogettare insieme il loro futuro. Ho trovato persone capaci di sorridere di sé stesse, di piangere, di gridare disperate, di voler bene, di impegnarsi a cambiare. Esseri umani, vivi e veri, che sfidano anche me a essere vivo e vero. Persone, coetanee degli studenti di Garissa, che puzzano di povertà. È insieme a loro che anch’io, con tutte le persone che magari pensano di non essere coinvolte in questa storia, voglio che ci liberiamo dalla “spuzza” di corruzione, di odio e di morte che tutti, tutti, ci portiamo addosso.

Yusuf, Piotr e il Padre

Piotr
Aprirsi all’incontro con gli altri per costruire il futuro.

Oggi a Tone la Maji, una casa per bambini di strada alla periferia di Nairobi, è arrivato Piotr. Non è un keniano con un nome polacco – non ci sarebbe da meravigliarsi, in strada ho trovato bambini con i nomi piu improbabili, come Reagan, Clinton, Amsterdam, Limited e perfino Ivanovich – ma un ragazzo di vent’anni autenticamente polacco che appena terminata la scuola superiore ha chiesto di fare un’esperienza di tre mesi in Africa prima di entrare in seminario. L’ho riconosciuto subito all’aeroporto, un viso aperto ed un accenno di barba bionda. Siamo arrivati a casa poco prima di cena. I bambini lo hanno assaltato eccitati, tutti volevano fare qualcosa per lui, portagli il bagaglio, indicargli la stanza, fargli assaggiare i meloni del nostro orto. Piotr all’inizio si scherniva, poi si è lasciato andare all’autentico affettuoso calore dei nuovi amici e quando è arrivata la cena – polenta, cavolo e lenticchie – era già parte del mondo di Tone la Maji ed ha mangiato di gusto, solo un po impedito da Yusuf, il piccolo musulmano che è con noi dagli inizi di febbraio, che era sempre aggrappato al suo braccio.

I giovani non hanno paura degli altri. Capiscono istintivamente che si cresce e si diventa umani solo incontrando gli altri. L’appartenenza sociale, le differenze religiose, il colore della pelle, le difficoltà della lingua sono superate di slancio appena si guardano negli occhi. Solo le esperienze negative, il rifiuto, l’abbandono e il tradimento, possono incrinare o addirittura negare questo bisogno di socialità, o di comunione con gli altri, come direbbe la spiritualità cristiana.

Mentre Piotr mi mostra il selfie che ha fatto con i nuovi amici, sempre con Yusuf aggrappato al braccio, e mi dice “E’ straordinario, ci siamo già riconosciuti fratelli”, penso che quest’immagine potrebbe illuderci che la fraternità sia a portata di mano, che la prossima generazione la realizzerà. No. Purtroppo è difficile credere che quel seminarista polacco abbracciato dal bimbo musulmano keniano possa essere un’icona credibile del nostro immediato futuro. C’è ancora molto da fare.

Una convivenza che non sia solo reciproca sopportazione ma sia intimamente e sinceramente rispettosa degli altri nasce da un lavoro faticoso a livello personale e sociale. Incontrare gli altri, invece di scontrarsi con loro, tenere sotto controllo i mostri che abbiamo dentro, costruire fratellanza e solidarietà non è facile e spontaneo. Per me cristiano significa tornare alla semplicità del Vangelo, al Gesù che si presenta ai discepoli con le braccia aperte e pronte all’accoglienza, pur sapendo che le stesse braccia aperte sono già state inchiodate alla croce, e che potrebbe succedere ancora. Significa restare davvero giovani dentro, la giovinezza dell’essere pronti ogni giorno al rischio di incontri nuovi, non l’ipocrita giovinezza dei capelli tinti, del volto rifatto, del sorriso senza anima. Significa coscientemente, metodicamente giocarmi la vita con una disciplina interiore che mi aiuta a tenere lo sguardo verso Colui che è l’incontro per eccellenza, giorno dopo giorno, fino all’ultimo.

Da adulti che hanno già sperimentato la durezza della realtà e magari sono diventati un po cinici per la continua assunzione dei veleni della discriminazione e del razzismo che sono diventati parte della nostra cultura,in Kenya come in Europa, sappiamo che l’incontro con gli altri solo raramente nasce dalla improvvisazione e dalla spontaneità. Incontrare chi puzza di povertà e di alcol, chi straparla sotto l’effetto della droga, chi ti guarda con odio perché non rientri nei suoi chiusi schemi mentali, o, peggio ancora, l’ipocrita e il perbenista che si crede al centro del mondo, il politico che per mestiere e per voti è semina rancore e odio, è un esercizio che si non si può fare senza allenamento e forza interiore. Insomma, il “Padre Nostro” recitato il mattino deve essere veramente un programma di vita.

Il Venerdì Santo del Kenya

“Il male che fanno ai cristiani è terribile, ma anche il male che fanno a noi musulmani non si può misurare”. E’ il mattino del Venerdì Santo, ed Alamin, gli occhi bassi, addolorato e mortificato, commenta così il titolo del giornale di Nairobi sulla strage di Garissa: “147 morti, 79 feriti nell’attacco al campus”. Sono tre i musulmani in gruppo di una ventina di studenti che avevo programmato di incontrare già da qualche giorno.

Gli studenti sono accomunati dal dolore per la brutale mattanza, che diventa subito il tema centrale del nostro incontro. Sanno che gli assassini hanno selezionato i cristiani per essere uccisi, anche se fra le vittime non sono pochi i musulmani, addirittura alcuni che stavano pregando nella moschea. Sanno anche una cosa ignorata da molti commentatori occidentali: gli studenti di Garissa sono tra coloro che, seppure hanno ottenuto l’acceso all’università, appartengono alle famiglie più povere. In Kenya, infatti, vige la regola che gli studenti di livello terziario che accedono all’educazione pubblica vengano mandati a studiare in una università al di fuori della loro regione. Possono indicare le loro preferenze, ma Garissa, una cittadina fuori dalle strade di grande comunicazione, e perduta nella zona semi-arida e inospitale verso il confine con la Somalia, è fra i campus meno gettonati. Cosi ci finiscono gli studenti poveri e privi di raccomandazioni, di estrazione sociale ben diversa da quelli delle prestigiose università private di Nairobi.

Le foto sui giornali locali mostrano solo studenti feriti e in fuga, misericordiosamente risparmiandoci le foto degli uccisi, ma la precise descrizioni dei giornalisti fanno facilmente immaginare i corpi dilaniati delle pallottole, ed evocano la carne del Cristo morente sulla croce, con immediata fisicità e crudezza.
Gli studenti non risparmiano critiche all’élite politica e sociale del Kenya, che vive nelle super-protette aree residenziali di Nairobi come fossero il satellite di un altro pianeta, preoccupata solo di accumulare potere e ricchezza. Fanno battute amare sul presidente che solo pochi prima aveva criticato il governo inglese che aveva sconsigliato ai propri cittadini di visitare il Kenya e alcune specifiche aree, la costa e Garissa incluse. Altre battute amarissime sulla corruzione, che permette agli agenti di Al Shabaab di muoversi senza controlli effettivi su tutto il territorio e addirittura di infiltrare le strutture governative.

Eppure il sentimento che prevale è quello di partecipazione al dolore dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime. Parole durissime per gli assassini – ben lontane, bisogna dirlo, dalle parole di Cristo sulla croce – ma non una parola di accusa e neanche di presa di distanza verso i musulmani presenti e l’Islam in quanto tale. C’è la preoccupazione che il ripetersi di atti terroristici finisca per scavare una divisione profonda e che questa possa trasformarsi in odio fra gli appartenenti alle diverse religioni.

Il rapporto cristiani e musulmani è un nodo cruciale per le prossime generazioni in questa parte d’Africa e dovrebbe essere al centro delle preoccupazioni anche di tutti gli agenti pastorali. Eppure non c’è ancora stata una grande riflessione comune, che abbia cercato di raggiungere tutti. E così convivono molte visioni diverse e contrastanti. Una parte di cristiani crede che la soluzione sia nell’imposizione della proprio fede, senza escludere la sopraffazione.

Qualche mese fa avevo visto lo stesso Alamin uscire dall’aula della scuola superiore dove frequentava l’ultimo anno con gli occhi pieni di lacrime di rabbia e umiliazione perché un missionario italiano, che aveva fatto una conferenza agli studenti su come affrontare responsabilmente la vita, aveva insultato pesantemente e indistintamente tutti i musulmani e la loro religione.

Visto da Nairobi il fondamentalismo islamico può vincere solo se riesce a scavare un solco di odio fra gli appartenenti alla diverse religioni. Per questo, la nostra risposta al terrorismo non può seguire la stessa logica, ma deve tornare ai valori del Vangelo: l’amore, il dialogo, la croce e il perdono. Deve sconfessare, come fa papa Francesco, chi usa Dio al servizio della violenza e della morte, e aprirsi al dialogo con tutte le persone di buona volontà.

In una prospettiva di fede, il sangue dei martiri è seme di cristiani, e dopo il venerdì di passione viene la Pasqua. Ma neppure una fede salda e la certezza della vittoria del bene sul male ci esimono dallo studiare e dal cercare di capire la storia che si sta evolvendo intorno a noi. Da questa prospettiva, è preoccupante la mancanza di una matura riflessione su quanto sta succedendo nella grande area africana, area in rapida espansione, in cui musulmanesimo e cristianesimo si incontrano e purtroppo spesso si scontrano.

Non basta, come fanno i vescovi di tutte le chiese cristiane keniane dopo ogni episodio di terrorismo, lanciare generici appelli di indignata condanna e rinnovare le richieste al governo di aumentare le forze di sicurezza e di dimostrare una maggiore determinazione nella lotta contro la corruzione. Bisognerebbe favorire un’analisi delle forze che si scontrano in questo momento storico, l’elaborazione di una comune riflessione su come porsi di fronte all’Islam e in genere alle altre religioni. Senza escludere la Religione tradizionale africana, come sempre il grande assente dal dibattito pubblico, ma pur sempre viva – eccome! – nella profondità dell’anima di tutti gli africani.

Italiano English
This blog is multi language by p.osting.it's Babel