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May, 2013:

Soluzioni Africane a Problemi Africani

Tristemente, le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario dell’Unione africana (Ua), all’insegna del “Rinascimento africano”, si sono trasformate in una vetrina del peggio della politica del continente.

L’Organizzazione dell’Unità Africana (Oua) ha la sua origine nella lotta per la decolonizzazione e prese forma definitiva ad Addis Abeba nel 1963. Dal 2002, dopo un forte intervento diplomatico e anche monetario di Gheddafi, è diventata Unione africana (Ua).

Per le celebrazioni, lo scorso fine settimana, erano presenti i leader di 54 paesi. Fra di loro il presidenti del Sudan Omar El-Bashir e del Kenya Uhuru Kenyatta, il primo condannato e il secondo indiziato dalla Corte penale internazionale (Cpi) per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. C’era una serie di altri personaggi poco appetibili, come Robert Mugabe, presidente dello Zimbabwe da oltre tren’anni al potere, e il presidente del Rwanda Paul Kagame, accusato dalle Nazioni Unite di aver sostenuto le attività criminali dei ribelli del M23 nella vicina Repubblica democratica del Congo. Le celebrazioni, con circa 15.000 ospiti, si sono tenute nella nuova grandiosa sede dell’Ua, che domina la capitale etiopica, costruita dal governo cinese al costo di duecento milioni di dollari.

In assemblea generale, il ministro degli esteri ugandese, Sam Kuteesa, ha presentato una mozione perché la Cpi chiuda i casi contro il presidente e il vicepresidente del Kenya, William Ruto, affermando che le accuse sono basate su falsità. Lo stesso presidente ugandese, Yoweri Museveni, ha chiesto garanzie affinché il presidente Kenyatta non sia umiliato quando si recherà all’Aia per l’apertura del suo processo prevista per il 9 luglio, affermando di essere a conoscenza che la Cpi ha programmato di arrestare Kenyatta quando giungerà all’Aia. Mentre Museveni fa queste denunce, in Uganda è in corso una feroce repressione contro l’opposizione che accusa il presidente, al potere ormai da quasi trent’anni, di manovrare per farsi succedere dal figlio, Muhoozi Kainerugaba.

Sull’onda della retorica del rispetto delle sovranità nazionali dei paesi africani, il presidente dello Zambia, Michael Sata, ha chiesto che siano i kenyani a risolvere i loro problemi, dicendo «Dov’era l’Aia, quando l’Africa lottava per la propria indipendenza? Se un presidente del Kenya o dello Zambia è colpevole, devono essere i popoli del Kenya o dello Zambia a giudicarlo, non l’Aia!». Dimenticando che, a suo tempo, fu proprio il popolo kenyano a chiedere che i responsabili della violenza post-elettorale fossero giudicati dalla Cpi, avendo poca fiducia nella giustizia locale.

Infine, il primo ministro etiopico Hailemariam Desalegn ha accusato la Corte penale internazionale di “discriminazione razziale” affermando che al momento della sua creazione lo scopo della Cpi era quello di evitare ogni forma d’impunità, ma che ora quelle buone intenzioni sono degenerate: «Il 99% degli imputati all’Aia sono africani, e questo è sufficiente a dimostrare che qualcosa non va», ha affermato.

Inevitabilmente, i commentatori politici hanno fatto notare che i problemi dell’Africa sono ben più seri dei problemi personali e di potere di alcuni presidenti e che i presidenti africani invece di proteggersi, dovrebbero mantenere l’impegno, assunto nell’ambito di un sistema volontario di “peer review”, di garantire che le rispettive amministrazioni aderiscano a principi democratici e di buona governance.

“Soluzioni africane a problemi africani” è il mantra continuamente ripetuto dai membri della elefantiaca burocrazia dell’Ua, ma i problemi risolti sono proprio pochini. L’Ua appare piuttosto all’opinione pubblica del continente, là dove una società civile esiste, la migliore illustrazione del proverbio che dice:«Non si finisce mai di mangiare la carne di un elefante».

Afro-pessimismo? No, non serve. Come non serve un pregiudiziale afro-ottimismo. C’è bisogno di afro-realismo, bisogna guardare cioè ai tanti, tantissimi africani che non sono stati invitati alle celebrazioni del cinquantesimo e che lavorano duramente ogni giorno per crescere e per far rispettare i propri e altrui diritti.

Cosi Gado, famosissimo vignettista keniano, vede l’Unione Africana.

La Violenza degli Altri

«Non pensi che quanto sta succedendo nel Sahel, dal Mali al Sudan, passando per il Niger, nord della Nigeria, il Ciad e persino fino alla Repubblica Centrafricana, cioè già in piena Africa Nera, sia parte di un grande disegno islamista?» Chi mi pone la domanda è un confratello che segue con interesse e competenza gli sviluppi sociali e religiosi di quest’area, dove ha passato buona parte delle sua vita, tanto che parla discretamente l’arabo. Gli devo però rispondere, sapendo di deluderlo:«No, non lo penso».
Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alle grandi forze che agitano il mondo islamico. Può essere che in questo mondo islamico ci siano persone o organizzazioni che vorrebbero emulare Osama bin Laden. Credo, tuttavia, che se anche questo fosse vero, il focalizzarci su di loro, l’evidenziare il terrorismo più brutale, non ci aiuti a capire cosa sta veramente succedendo.
I disagio è diffuso e le situazioni sono diverse. Generalizzare non serve. Senza dubbio in tutta l’area ci sono delle influenze reciproche, e senza dubbio molta dell’instabilità attuale si è scatenata dopo la caduta di Gheddafi in Libia. Mi sembra però improbabile pensare che qualcuno abbia organizzato e guidato il tutto come un disegno globale. Se c’è un disegno globale, questo si è innestato sul disagio e la rabbia locale, senza la quale non avrebbe avuto agganci. È importante conoscere la situazione locale, i dettagli, la storia. Il Mali non è la Repubblica Centrafricana ed entrambi sono diversissimi dal Ciad. Certo, è più difficile applicarsi a capire i tanti focolai esistenti e le loro possibili connessioni che non identificare un colpevole globale e cercare di colpirlo a morte. Ma così torniamo alla vecchia storia del capro espiatorio. Abbiamo visto con Osama bin Laden che non funziona. Eliminato lui, la “guerra contro il terrorismo” non è stata vinta; è rinata in altre forme, come nella rabbia esplosa in Svezia, come nei recenti terribili, disumani attacchi terroristici di Boston e di Londra. Quando si nega l’umanità degli altri, ci si rifiuta di ascoltare le loro ragioni – anche quelle che sono sbagliate – non c’è da meravigliarsi se chi si sente negato e impotente reagisce con violenza cieca e irragionevole. Così il terrorismo diffuso, senza organizzazioni e senza capi, diventa praticamente impossibile da prevenire.
Commentando un rapporto pubblicato un paio di settimane fa, Kofi Annan, ex segretario generale delle Nazioni Unite, super-moderato diplomatico di carriera, ha affermato che l’evasione fiscale, lo sfruttamento minerario incontrollato e l’esportazione clandestina di capitali stanno privando l’Africa dei benefici che potrebbero derivare dal boom dei prezzi delle materie prime. Queste operazioni costano all’Africa ben 38 miliardi di dollari l’anno. Annan ha aggiunto: «L’Africa, attraverso questi canali, ogni anno perde il doppio dei fondi che riceve dai donatori… È come rubare il cibo dalla tavola dei poveri!”. C’è da meravigliarsi se alcuni pensano che la spogliazione dell’Africa e le guerre nelle nazioni islamiche siano frutto di un grande disegno di predominio cristiano, visto che identificano, purtroppo, e sbagliando, i ricchi con i cristiani?
Nel Sahel i poveri si fanno la guerra fra di loro, sono attirati da ideologie di tutti i tipi (anche di matrice cristiana, a volte) perché non capiscono cosa sta succedendo, si percepiscono come vittime, impoveriti, disorientati, spaventati, dominati dall’esterno da forze troppo potenti. I predicatori di odio, i Boko Haram, i Seleka, i Fratelli Musulmani… hanno gioco facile a proporre soluzioni alle quali probabilmente essi stessi non credono ma che rispondono a un loro immediato interesse di potere.
Nessuno vuole giustificare la azioni contro i cristiani che stanno avvenendo in un’ampia fascia del Sahel. Ma il metodico, cronico furto delle risorse africane eseguito in modo anonimo e globale, come denunciato da Annan, è certamente una della principali cause della rabbia diffusa contro l’Occidente.
Non serve ripetere all’infinito che l’ispirazione del terrorismo non è nell’Islam, come ha fatto il premier inglese David Cameron. Suona troppo ipocrita, specialmente se queste affermazioni non vengono accompagnate da un serio impegno a capire le ragioni degli altri, e il loro senso di impotenza.
A livello personale, a Londra abbiamo visto cosa si potrebbe fare. Quell’uomo pazzo di odio, con le mani sporche di sangue, è stato fermato da una donna. Una donna sola. Una madre, pronta a sacrificarsi per salvare i figli degli altri e che, con istinto materno – come ha detto in un’intervista – ha visto in quel “terrorista” solo un ragazzo confuso, e ha cominciato a parlargli. Restare umani, avvicinarci agli altri come persone umane. Non è arrendersi. È la forza più grande: restare umani anche di fronte a chi umano non è più. È capire le dinamiche dell’odio per superarlo e vincerlo.
Tradurre in politica un simile approccio non è facile, ma bisogna provarci.

Social Circus Project

Katharina Gruener e Luca Sartor, della fondazione UCI, durante il mese di aprile hanno tenuto a Tone la Maji tre settimane di workshop di circo sociale, in continuità con l’esperienza iniziata lo scorso dicembre. Erano previsti un massimo di 30 ragazzi e ragazze, divisi in due gruppi, ma Katharina e Luca si sono dovuti far carico di oltre 40 partecipanti…
Aspettando un loro commento, speriamo benevolo, ecco qualchefoto.



Rinascere a dodici anni

Cronaca con video (di Matteo Osanna) di una sera a Ngong, per dare addio alla vita di strada.

Un gruppo di oltre venti ragazzini, vestiti di stracci, puzzolenti, alcuni già intontiti dai fumi della colla, altri invece con l’alito che odora di benzina, come lo scarico di un motore ingolfato. Un gruppo di bambini lanciati verso l’autodistruzione. Ne ho conosciuti tanti cosi, e nessuno è arrivato ai trent’anni. Questi li ho incontrati una sera del mese scorso, a Ngong, la cittadina ai piedi delle omonime famose colline dove Karen Blixen ha vissuto e ambientato il suo romanzo “out of Africa”, alla periferia di Nairobi. Piovigginava e la notte si annunciava fredda, ma di notti in strada quei bambini ne avevano già passate tante.

Quella sera era diversa perché c’era con loro un adulto, buon pastore. Jack, educatore di Koinonia, dopo averli inseguiti e fattiseli amici per mesi, li aveva radunati con una proposta: lasciate la vita di strada, venite con me e John, l’altro educatore, a Ndugu Ndogo. Vi daremo da mangiare ogni giorno, vi manderemo a scuola, potrete ripartire con una vita dignitosa, insieme, continuando ad aiutarvi come avete fatto per sopravvivere in strada. Noi vi accompagneremo, ma sarete voi a camminare.

In sè, la proposta non era poi cosi attraente. Quei bambini amano la libertà della vita di strada, la mancanza di disciplina, la possibilità di decidere ogni giorno cosa fare. Poi magari ogni tanto dopo aver racimolato qualche soldo, si concedono il lusso di ordinare un piatto di githeri (patate, chicchi di mais e fagioli bolliti insieme e insaporiti con erbe aromatiche) ad una delle donne che cucinano all’aperto, e si sdraino su un rato, al sole, immaginando che ci sia vicina la mamma che dice parole buone.

Ecco, questo è il punto, la cosa che manca di più, anche se nessuno lo vuol ammettere: Un adulto che ti vuol bene, che si interessa di te, che ti protegge e ti guida. Che quando c’è una difficoltà se ne fa carico, che ti aiuta a crescere. Ma la cosa davvero importante è che ti voglia bene.

Mister Kariuki è il proprietario del ristorante in cui Jack ha organizzato questo “addio alla strada”. E’ uno stanzone con pareti e tetto fatti di lamiera ondulata, tenuti insieme da una intelaiatura di legno, arredata con panche, e con braciere di carbonella in un angolo. Kariuki, che mi fa pensare ad un pugile a fine carriera e poi mi conferma di esserlo, lo ha messo a disposizione per una cifra modestissima, poi, mentre Jack parla ai ragazzi, è andato nel “negozio” vicino a comperare quattro forme di pane e cinque litri di latte per questi ragazzi affamati. Gli saranno costati quanto i profitti di tre giorni, ma rifiuta i miei ringraziamenti con un gesto della mano bofonchiando “sono figli nostri”.

La notte passa in fretta, con canti, danze, storie della vita di strada. Il mattino i bambini improvvisano una partita di pallone, fanno un bagno veloce in un fosso che le piogge della notte hanno trasformato in torrente. “Per presentarci puliti a Ndugu Mdogo”, mi dice serio Paul, 12 anni, il capobanda che la sera prima era ubriaco o era intontito dalla benzina, o entrambe le cose, mentre si immerge nell’acqua fangosa, e poi via verso la nuova casa. Solo tredici hanno avuto il coraggio di fare il salto. Gli altri preferiscono l’opzione offerta da Jack di aspettare qualche settimana, purché poi prendano un decisione definitiva. “Devono lasciare la strada convinti di fare una scelta importante e irreversibile – sottolinea Jack – perché se fallissero e tornassero indietro, diventerebbe psicologicamente impossibile per loro incominciare un altro percorso di recupero.”

Nelle quattro settimane successive li ho visti crescere giorno dopo giorno. Quando li saluto prima di partire per Verona , sono sono normalissimi ragazzini felici. Ancora una volta tre pasti al giorno e l’attenzione, l’ascolto, l’affetto, che Jack e John sono sempre pronti ad offrire stanno compiendo il miracolo della rinascita di tredici bambini.

Leadership senza Frontiere

L’altro ieri in un pezzo di opinione del Nation, il principale quotidiano del Kenya, Charles Omondi, che per questo quotidiano lavora come giornalista da oltre vent’anni scriveva “Ogni volta che mi capita di visitare un altro paese sub-sahariano, penso che il governare un paese sia una cosa troppo complessa per un africano.”

L’articolo continua con un quadro di situazioni che si possono ritrovare a Kinshasa come a Nairobi, a Lagos, a Bujumbura: spazzatura ovunque, venditori ambulanti che vendono illegalmente di tutto anche cibo in condizioni igieniche allucinanti, trasporto pubblico in condizioni vergognose con conseguente inquinamento a livelli tossici, elettricità erratica. Potremmo aggiungere acquedotti senza acqua, servizi scolastici e sanitari ampiamente inadeguati e troppo costosi per la maggioranza dei cittadini, e la lista non sarebbe finita.

Omondi conclude: “In quasi tutti gli stati africani c’è almeno una sembianza di democrazia. E’ tempo che gli elettori si ribellino a questi leader incapaci… Si eleggono persone in posizioni di potere solo perché appartengono alla propria etnia, o perché hanno promesso cose impossibili, e ci si trova condannati ad essere governati per sempre da ciarlatani che proclamano le sovranità nazionale, ma vanno a far shopping a Milano, vacanze a Parigi, mandano i figli a studiare a Londra, e si fanno curare a New York.”

La riflessione sulla qualità della leadership si impone mentre in Kenya incomincia il governo di un presidente e vicepresidente incriminati dalla Corte Penale Internazionale, e le notizie più comuni riportate dai giornali in Kenya riguardano episodi di corruzione.

Omondi, che è nato dopo l’indipendenza del Kenya, non si rifà alle colpe del colonialismo, anche se avrebbe potuto legittimamente farlo perché sono colpe che peseranno ancora per qualche anno su tutte le ex-colonie.

L’Africa post-coloniale ha espresso due grandissimi leader, Julius Nyerere in Tanzania e Nelson Mandela in Sudafrica. Ci sono stati altri leader che non hanno avuto il tempo di esprimere le loro potenzialità perché uccisi da forze coloniali o neo-coloniali, come Amilcar Cabral in Guinea Bissau e Thomas Sankara in Burkina Faso, ma c’è anche una lista troppo lunga di cleptomani o criminali che sono stati al potere per anni ed hanno permesso o favorito la formazione di una classe di politici e amministratori profondamente corrotti. Peggio, la corruzione è diventata accettabile, inevitabile, in ogni rapporto fra il cittadino e lo stato. Devi pagare sottobanco un funzionario per rilasciarti un documento, magari la carta d’identità’, a cui hai diritto.

Wole Soyinka, lo scrittore nigeriano e Premio Nobel, aveva già detto nei primi anni delle indipendenze africane, che il problema fondamentale dei nuovi paesi era la leadership. Sono passati oltre cinquant’anni e il nodo cruciale per lo sviluppo dell’Africa resta lo stesso, secondo Omondi. Gli africani, nella stragrande maggioranza persone buone e pacifiche, negano il detto che i popoli hanno i leader che si meritano.

“Ma forse – mi dice un amico africano che conosce bene l’Italia – alla fin fine è cosi per tutti. Guarda il tuo paese, non avete anche voi i vostri leader tribali? E’ raro che si eleggano i leader migliori, finiamo sempre per eleggere i mediocri, se non gli arrivisti. Abbiamo tutti un lungo cammino da fare.”

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