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May, 2015:

Abitare ai Margini

Quando, nel 1999, sono andato a viverci, il posto era chiamato Riruta Satellite, ed era un grande quartiere di circa 80,000 abitanti alla periferia di Nairobi. Oggi, nelle stessa area, gli abitanti sono probabilmente 200,000 e Riruta Satellite si è frazionata in altri quartieri: Ndurarua, Satellite, Railway, Kabiria, Kivuli. Oggi la mia residenza e’ a Kivuli, periferia di Kabiria, periferia di Satellite, periferia di Rituta, periferia di Nairobi, periferia dell’Occidente. Le periferie si espandono e il centro si allontana sempre più. Il centro, dove c’è la vita vera, quella che si vede in televisione, dove ci sono ricchezza e potere.

Gli abitanti delle periferie delle metropoli africane continuano a crescere vertiginosamente, dando forza ad un fenomeno che è mondiale: per la prima volta nella storia da un paio d’anni le persone che vivono nelle città, superano quelle che vivono nelle zone rurali. Nelle grandi metropoli, come a Nairobi, le periferie degradate e le baraccopoli sorte illegalmente su spazi che non appartengono a chi ci vive, sono la residenza di oltre il 50 per cento dei cittadini.

A Riruta, che propriamente non è uno slum o baraccopoli perché i lotti di terreno, pur piccoli, hannoun legittimo proprietario, le strade sono in condizioni disastrose; le fognature, la rete elettrica, quando ci sono, raggiungono solo le strade principali. La rete telefonica è diventata inutile ed obsoleta a cause dell’onnipresenza dei telefoni cellulari. La stazione di polizia è un insieme di baracche in lamiere arrugginite, segno della scarsa considerazione che lo stato da a questo quartiere. Servizi sanitari e scuole pubbliche sono assolutamente inadeguate, come quantità e qualità, come testimonia il proliferare di dispensari e scuole private pure di scarsa qualità, frequentate da chi non ha migliori alternative.

Negli ultimi due anni sono iniziati lavori per il miglioramento almeno della strada principale e della rete fognaria, ma procedono con lentezza esasperante. Si viene a vivere qui perché costa meno che vivere più vicino al centro, ma il vivere qui rafforza quotidianamente, in mille modi sottili, la consapevolezza di essere gli ultimi, di non contare niente, di vivere ai margini della società. La persone importanti vivono altrove, il fatti importanti succedono altrove. Gli unici fatti rilevanti che accadono qui sono gli occasionali crimini, ma spesso non sono neanche giudicati degni di menzione nei mass media.

Eppure, per quanto possa sembrare incredibile, questa Riruta, periferia delle periferie, è per molte persone una meta agognata, il traguardo che promette la fine di tutte le sofferenze, il sogno di un futuro migliore mantenuto vivo attraverso lettere di amici che vi ci si sono stabiliti già da qualche anno. Chi vorrebbe vivere a Riruta? Per esempio chi vive nelle zone rurali dove servizi sanitari e scuole sono pochi a sparsi su vaste aree. I giovani che coltivano il sogno di migliorare il proprio livello di educazione, e di accedere ad opportunità di lavoro diverse dall’agricoltura o pastorizia di sopravvivenza. Le migliaia di disperati che sono arrivati in Kenya da Sudan, Sud Sudan, Somalia, Rwanda e Burundi e sono stati forzati a risiedere nei campi rifugiati, ancora più lontani dal centro, ancora più ai margini, in località aride, campi dove vivere significa dipendere dalle razioni alimentari della carità internazionale. La crescita travolgente di Riruta è soprattutto dovuta all’immigrazione da queste aree ancora più marginali.

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Cosi chi vive qui è doppiamente ai margini. Alla periferia della città ma anche alla periferia delle cultura tradizionale di provenienza. Caso emblematico è Harrison, che fa il catechista volontario in una delle tante chiese locali. Viene dalla riva del lago Vittoria, 400 chilometri da Riruta, da una famiglia di pescatori. Terminata con difficoltà la scuola superiore ha deciso di venire in città per lavorare e frequentare un college la sera. Ma son passati dieci anni, ha fatto pochi esami al college e fa solo lavori occasionali di manovalanza. Ogni volta che che riesce ad accumulare un piccolo gruzzolo per pagare le tasse universitarie succede qualcosa al villaggio e gli viene chiesto di contribuire: il funerale di un parente, i testi scolastici per un nipote, il costo di un ricovero ospedaliero della sorella minore. La tradizione comunitaria vuole che ogni familiare contribuisca a questi costi, tanto piu uno che vive lontano nella ricca città e Harrison non può rifiutarsi. La tradizione vuole anche che Harrison, in quanto primogenito, sia il primo a sposarsi e costruisca la sua casa vicina a quella del padre. Se non lo fa, i fratelli non possono sposarsi a loro volta. Cosi Harrison finisce per esaurire le sue minime risorse economiche per continuare a sentirsi parte di una posto in cui non vive, e nello stesso tempo è emarginato nella grande Nairobi, sul posto degli occasionali lavori, dove i valori importanti non sono comunità e condivisione, ma efficienza, potere economico. Harrison vive in una terra di mezzo, se non avesse il sostegno della comunità cristiana potrebbe, come tanti, soccombere alla depressione, all’alcool o alla droga. Lui non ha perso il senso dell’ironia.“Riruta – mi dice – è una metafora della vita. Qui se chiedi a chiunque la sua origine ti dice che proviene da qualche altra parte del Kenya. Chi potrebbe essere orgoglioso d’essere nato qui? Siamo tutti di passaggio, in attesa che si apra la possibilità di una vita vera e dignitosa. Per qualcuno di noi questa vita vera incomincerà soltanto nell’altra.”

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A Riruta non ci sono solo storie drammatiche. Le periferie sono, per chi è capace di vedere, anche i laboratori della società del futuro. Qui la società muta, inventa nuove forme di sopravvivenza. Nei quartieri della Nairobi ricca si rinforzano le siepi divisorie con filo spinato, ci si chiude dietro alti muri, si aumentano i fari per illuminare a giorno i dintorni delle ville e si moltiplicano le guardie notturne – tutti poveracci che di giorno vivono in quartieri come Riruta e di notte proteggono i ricchi – cosi che nessuno turbi il mondo dorato in cui si vive. Invece nelle nelle periferie nascono e crescono tutti i fermenti di questa società. Alcuni sono fermenti di violenza e di odio, ma altri sono fermenti di solidarietà e dignità.

Qui c’è Lionel che a meno di trent’anni sta preparandosi la morte per alcoolismo, ma che dipinge dei quadri in cui la vita esplode con le più straordinarie forme e colori. C’è Adhiambo, che vive in una baracca, lavora da commessa, e la sera con un computer da museo scrive racconti per bambini. C’é Juma, il tecnico di computer che dopo una giornata di lavoro, mentre la moglie prepara la cena su un fornello a carbonella e i figli fanno i compti, lavora su un portatile per sviluppare un nuovo software. E c’ é Anjela, che vuole avviare un gruppo di sostegno per le coetanee sieropositive. La periferia, per chi crede e vuole lasciarsi rinnovare, è l’ incontro col Dio che non tiene niente per sé, che viene dal basso, che ti guarda con gli occhi dei piccoli, ti comunica sapienza con la voce delle prostitute, ti benedice con la voce del vecchio che sta per morire.

Nelle periferie c’è chi non ha niente da perdere, e si gioca tutta la vita su un numero solo, puntandoci con tutta la perseveranza e creatività che possiede. Le periferie sono terreno recettivo e fertile per il Vangelo. Le beatitudini sono ascoltate da occhi e cuori aperti. Qui siamo ai margini della città, certamente non ai margini della vita.

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