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December, 2009:

La Luce – The Light

The Light that heaven could not contain has become weak and fragile like one of us. He has come to teach us that love is everything, and true love gives live, overcoming fear of hatred and death. But today is the moment of tenderness.
The children who up to a short time ago were in the streets of Kibera, and that this night are with us at Kivuli, are for us, wounded healers, the most luminous sign that God loves us, is with us, offers us his tenderness, his love, looks in our eyes and tells us “I love you”.
That all may have their hearts warmed by his voice.

Foto Natale 016

Una Strada per il Natale

Qualche giorno fa a Lusaka ho incontrato un bambino che si chiama Njira, che in chinyanja vuol dire strada. Un nome che evidentemente la madre – e non è difficile immaginare che “mestiere” facesse – gli ha dato come fosse un programma di vita. Eravamo nel grande mercato all’aperto, e lui era con una banda subito riconoscibile come bambini di strada, vestiti di stracci e con in spalla un sacco dove mettere il cibo scartato dalle bancarelle, o rubacchiato. Mi ha visto da lontano, e si è diretto subito verso di me, mentre io fingevo di ignorarlo, Mi ha toccato leggermente il braccio e quando è stato sicuro di avere la mia attenzione mi ha detto con voce sicura: “Mi chiamo Njira, vorrei venire a stare a Mthunzi, la tua casa, come loro”, indicando i due ragazzini che mi accompagnavano.
Ho pensato: “Ma chi lo ha imbeccato, chi gli ha detto di Mthunzi, magari la mamma o un parente che si vuole disfare di lui e lo vuole affibbiare a noi? E perchè lui solo di tutta la banda?”. Ma poi Njira ha alzato gli occhi e mi ha guardato in modo diretto e disarmante, un sorriso timoroso che diventava sempre più serio negli attimi in cui è durata la mia esitazione. Qualunque sia la ragione che lo ha spinto ad avvicinarmi in quel modo, è chiaro che lui ha bisogno di una soluzione alternativa alla tremenda vita di strada.
Faccio un calcolo veloce: si, è vero, con gli educatori di Mthunzi ci eravamo prefissi di non accettare altri ospiti se non all’inizio del prossimo anno scolastico, in gennaio, ma vuoi che non possiamo aggiungere un posto a tavola per questo bimbo di forse dieci anni che mi guarda con tanta fiducia e che mangerà come un uccellino? Stasera ci sarà tempo per ascoltare la sua storia, e domani gli operatori sociali potranno cercare di raggiungere la sua famiglia, se esiste, e di verificare la veridicità della sua auto presentazione ed eventualmente ne chiederanno l’affido legale alla nostra casa. Ma adesso non c’è tempo di fare tutto questo.
E poi domani, o il prossimo mese, chi ritroverà più Njira nella confusione del mercato di Lusaka?. Lui è il mio prossimo, quello che Dio mi fa incontrare qui e adesso, così prossimo che sento l’odore del corpicino che non si lava da parecchi giorni. Non posso nascondermi dietro il fatto che senza dubbio ai primi di gennaio di bambini di strada purtroppo ne troveremo a decine, senza difficoltà. Lui è qui, adesso, ed ha una richiesta precisa. Njira mi guarda preoccupato, ha percepito l’esitazione che mi è passata dentro. Ma poi gli basta un cenno per capire di essere stato accettato e corre a sistemarsi insieme agli altri nel furgoncino, tra il variopinto e odoroso carico di banane, cavoli, carote, “carne di soia”, pesciolini secchi e mezza tonnellata di farina da polenta: E via tutti insieme sulla strada accidentata che ci porta a Mthunzi.
Quale storia si porta nel cuore questo piccolo? Riuscirà a socializzare con gli altri, a piegarsi alla disciplina richiesta dalla scuola, a guardare al futuro come ad un’opportunità e non con paura? È solo uno dei milioni di bimbi africani che vivono in strada. Ma anche una persona umana unica. Anche in lui, come in ogni persona umana, si focalizza tutto il piano di Dio, tutta la Storia Sacra, tutto l’amore che Dio ha per noi, tutto lo slancio verso la trascendenza di tutta l’umanità, con una limpidezza e con una freschezza uniche ed irripetibili. Lo guardo nello specchietto retrovisore, se ne accorge e mi offre un timido sorriso. Mi sta leggendo i pensieri ed ha capito tutto, molto meglio di me.
Arriviamo nel cortile di Mthunzi e appena annucio ai pochi ragazzi che non sono a scuola perché hanno già finito gli esami che è arrivato un nuovo amico gli offrono una festosa accoglienza, se lo contendono perché stia nel loro dormitorio. Vincono quelli del dormitorio di Crispino perché il furbo Crispino gli mette in mano uno dei primi manghi maturi di questa stagione.
Come cercheremo di educare Njira? E’ la tremenda responsabilità che si ripropone ogni volta che ci troviamo di fronte ad un nuovo bambino che Dio in qualche modo ci manda. L’ Africa vive in bilico fra tradizione e modernità e noi educatori siamo abbiamo il difficile compito di guidare questi ragazzi in un cammino che li aiuti a superare i limiti della tradizione africana senza che cadano negli eccessi della modernità. Eppure essi sono attratti dalla modernità e da tutte le cose facili che essa offre. Ma l’ultima cosa che vorrei, sarebbe di fare di questi bambini dei piccoli europei, dei figli che imitano senza senso critico gli aspetti più deteriori della modernità, l’arricchirsi senza limiti, il carrierismo, il desiderio sfrenato di apparire, l’arroganza, l’individualismo ignorante e volgare. Devo riuscire a far crescere in loro i semi della solidarietà, il gusto dei legami comunitari che già hanno nel cuore e che fanno parte della loro tradizione più genuina.
Idealmente vorrei che questi bambini crescessero come persone mature e capaci di fare le loro libere scelte. Ma dare contenuti educativi a queste parole non è facile. Che tipo di educazione scolastica è più adeguata per ciascuno di loro? Quali valori coltivare? Ci vuole vicinanza quotidiana, rispetto, attenzione, sofferenza condivisa, per poter avere il privilegio di crescere insieme a questi ragazzi.
Guardo Njira che è appena tornato da un giro di ispezione della casa e dell’orto, e mi risponde ancora con un sorriso fiducioso. Vorrei che il nome di Njira non indicasse più un destino inevitabile di povertà, di accattonaggio, di piccola delinquenza sulla strada, ma indicasse un punto di partenza verso il futuro, una strada dove non ci sono limiti all’avventura della vita che lo aspetta. Come la strada del ritorno dall’esilio in Egitto, quella dalla Galilea a Gerusalemme, quella che va verso Emmaus e quella per Damasco. Quella da Lusaka a Mthunzi. La strada di una vita non priva di sofferenze e di drammi, ma piena e dignitosa.
Nei mesi trascorsi sono stato oggetto di accuse infami, che mi hanno ferito profondamente perchè hanno toccato la mia ricchezza più grande, la relazione franca e aperta coi giovani e coi bambini di Nairobi, di Lusaka, dei Monti Nuba. La stada è diventata difficile, lo è ancora, pur se le accuse si sono dimostrate infondate. Njira è un segno che si può ricominciare a camminare.
Continuiamo l’Avvento, avviamoci verso Bethlemme. Riprendiamo a camminare insieme a questi bambini feriti, fermandoci ogni tanto a prendere quelli che si sono troppo stanchi e si sono seduti ai margini della strada.

The African Synod: A Task for the Future

The following is the transript of an interview I gave to a English-speaking mass media.

As it has been underlined by many commentators, the theme chosen by Pope Benedict XVI for the Second African Synod,  The Church in Africa in Service to Reconciliation, Justice and Peace,” is extremely relevant. It focuses on the main issues of the African public life today, issues on which the Catholic Church has the moral authority and the competence to speak and act, especially when considering the dramatic failure of the modern African states and governments, born out of the colonial time, to address them.

Before the Synod started, I heard African Catholic friends express some concerns. First concern was the total lack of interest by the “international” media. This lack of interest has persisted during and after the Synod but, personally, I do not believe we should be worried by it. We know the agenda of this mass media: Press people are not interested in the real independence of Africa, or in any serious religious event. They can write a long article on the possibility of an African being a pope, because it is a “curiosity,” but they do not care about the myriad of African Christians who live their faith with humble conviction, and would never publish an article on the fact that the Church alone takes care of almost half of the African HIV/AIDS sufferers. On the other side, Church synods are not held to attract or please the media; they are, first and foremost, meetings to deepen communion and self-awareness, and also a service to Church governance.

Second important concern, at least from some observers, was the fact that, in the Church, there appeared to be a number of “lobbies” who wanted, at all cost, to put forward their concerns. This is somehow normal, since in the African Church, as everywhere else, people have their own agenda and their own very legitimate and positive issues and, often, they spend their lives for them. They could be concerned with public health, HIV/AIDS, education, development, organic farming, environment conservation, mass media…, you name it. It is not surprising, therefore, that they see a synod as a chance to put a particular agenda in the limelight. It is an expression of the richness of Christian commitment. It could become a problem only if pushed too far, and fragmentation and confusion is created.

The need of new structures

If one reads all the interventions available and the final proposition presented to the Holy Father, it appears that the Synod fathers were able to avoid the trap of diluting their interest over many issues. The final propositions are well and strongly focused on the themes of reconciliation, justice and peace.

In fact, the propositions are much more elaborated than the proposition presented at the end of the first African Synod, to Pope John Paul II in 1994. The 2009 African Synod propositions present a serious analysis and a beginning of theological reflection on the main social and political situations of the continent. Moreover, they even go down to give practical pastoral and administrative guidelines, suggesting the creation of new structures so the African Church could carry on its service in a more effective manner. One could even think that the practical proposals are so numerous that they go far beyond the possibilities, in terms of personnel and finance, of the African Church. For those who know the reality of missions, parishes, dioceses in Africa, often struggling to provide the most basic pastoral and administrative services to the faithful, the realization of these proposals seems a dream too big.

It has already been observed that the follow up to the first African Synod has not been so strong. How will the African Church be able to implement the enormous task set down in the 2009 propositions? Are they destined to remain just words? If they are to be implemented, it will require a serious effort to spread them over several years. A fellow missionary told me: “I wish my bishop, on his return from Rome, will keep up the enthusiasm and set us all to work for reconciliation, justice and peace, according to the given perspective. We will have to work for the next twenty years just to see the beginning of their implementation, but it will be worthwhile.”

Dependence on the West

The synodal interventions have displayed also healthy self-criticisms, especially on issues referring to justice internal to the Church, such as the treatment of women, the payment of workers, and so on. To redress internal injustices is, undoubtedly, a work that has to be done.

In the light of the above there is an underlying challenge that does not appear in the propositions and even in the hall interventions. I am referring to the very unhealthy dependence that the African Church has on the West. We could say that we are not ashamed because this is a sign of fraternal communion but we have to admit that, too often, even in the Church, those giving the money dictate the way in and the aim for which it has to be spent. Where will the money to build the numerous new structures and commissions foreseen in the prepositions come from? And more importantly, what are the plans to make the African Church at least less dependent on the sister Churches in the North and West? Is nobody worried by the fact that, at national and diocesan levels, economic administration is still the reserve of expatriates? Does this fact really have no consequence to the capacity of the African Church to act for reconciliation, justice and peace?

A very positive point underlined by many is that the African Synod helps to build up communion in the Church. Bishops and cardinals, who rarely can visit each other and share their concerns, are given such a chance and, staying together for a certain period of time, allows them to know their strengths and pastoral problems and to discover how they are united by the same faith and the same Church. This is not a small achievement. Maybe, in the long run, it will be the most important achievement of the series of African Synods since, hopefully, they are going to continue. As a Synodal Father says: “There were internal Church politics and power games, of course, because we are humans, but they were kept to a minimum. We were all concerned primarily to reach a consensus about the service that the Church should provide for the growth of a more just society.” The Church is, first of all, communion and love in Jesus. If a synod strengthens this communion around Jesus, it can be said to have accomplished its task.

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