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September, 2016:

Non è il nostro gioco

L’utopia di Assisi e la realtà dell’Africa in un dialogo con alcuni giovani keniani.

A Nairobi le parole di papa Francesco arrivano affievolite dalla distanza, dal filtro dei mass media, dalla lingua. Ho invitato un gruppo di giovani a leggere insieme il discorso del papa ad Assisi, in inglese. Tre sono i passaggi che più hanno attirato la loro attenzione. Quello che richiama alla responsabilità per tutti i cristiani di partecipare, immergersi, nei drammi del nostro tempo.
“La nostra strada è quella di immergerci nelle situazioni e dare il primo posto a chi soffre; di assumere i conflitti e sanarli dal di dentro; di percorrere con coerenza vie di bene, respingendo le scorciatoie del male; di intraprendere pazientemente, con l’aiuto di Dio e con la buona volontà, processi di pace”.
Poi la richiesta creare una cultura dell’incontro.
“Pace significa Educazione: una chiamata ad imparare ogni giorno la difficile arte della comunione, ad acquisire la cultura dell’incontro, purificando la coscienza da ogni tentazione di violenza e di irrigidimento, contrarie al nome di Dio e alla dignità dell’uomo”.
E infine la constatazione che è necessario vivere insieme.
“l nostro futuro è vivere insieme. Per questo siamo chiamati a liberarci dai pesanti fardelli della diffidenza, dei fondamentalismi e dell’odio. I credenti siano artigiani di pace nell’invocazione a Dio e nell’azione per l’uomo!”
Non tutte le razioni sono positive. “Impossibile, sono utopie” dice Kioko, vent’anni, studente d’informatica. Invece Karen, studentessa in procinto di terminare un diploma in sviluppo comunitario, ha una domanda: “Ma la chiesa ha sempre insegnato queste cose? Io frequento la mia parrocchia e non me ne ero mai accorta!”. Mi sento parte in causa, anche se non sono il suo parroco, e dico che forse ne hanno parlato in modo generico, e il discorso per l’impegno per la pace era implicito. Ma devo ammettere che la sua osservazione non mi meraviglia, la dottrina sociale della chiesa non è un argomento frequente dai pulpiti di Nairobi.
Superate le obiezioni ci siamo guardati intorno per capire come vivere le parole del papa, e quale potrebbe essere una nuova dimensione dell’impegno cristiano in Africa. A parte le conclusioni riguardanti l’impegno personale e di gruppo, sono emerse delle osservazioni che fanno capire come i giovani di Nairobi siano attenti a quanto sta succedendo in Africa.
Quasi tutti convengono che in Kenya sta prendendo forza l’idea di superare il tribalismo, o l’”etnicitismo negativo” come si deve dire per essere “politically correct”, e di parlare in termini di unità nazionale. Ma questo viene anche usato per demonizzare gli avversari, come abbiamo visto con Jubilee, il partito dell’attuale presidente Uhuru Kenyatta, che si sta consolidando al di fuori delle zone tradizionali di influenza. C’è però il timore per una politica che al di là della grandi parole sbandierate, sta diventando sempre più uno spettacolo. La recente assemblea fondativa si è svolta sul modello delle convention del partiti americani, con scenografie accuratamente preparate e dirette televisive non-stop. E’ un modo di far politica che non aiuta la partecipazione vera e il dibattito sulle idee e i programmi. Nasconde una voglia, di egemonia, di totalitarismo, come quella che si è manifestata, in modi diversi durante e dopo le recente elezioni in Gabon e in Zambia. Chi è il potere non accetta di perdere, ed è pronto senza esitazione e ricorrere alla violenza delle armi, come in Gabon, o al controllo dei mass media, come è successo in Zambia. Anche in Zambia il partito al potere ha vinto perché è riuscito a dipingere l’opposizione come tribalista e potenzialmente pericolosa per l’unità dal paese. La Somalia è un disastro incomprensibile. Peggio ancora il Sud Sudan, dove i due principali leader, Salva Kiir e Riek Machar per fidelizzare i propri sostenitori hanno fomentato il peggior tribalismo immaginabile, più o meno apertamente approvando i massacri fatti nel loro nome, creando di conseguenza una situazione dove oggi sembra impossibile una riconciliazione interna, se non fra qualche generazione. Forse solo la Tanzania sembra quietamente e sicuramente muoversi in una direzione diversa, con una crescita di un sentimento di unità che non appiattisce le differenze e le particolarità delle diverse componenti etniche. E la corruzione? Endemica ovunque, in Kenya in particolare ha raggiunto proporzioni che nessuno sembra in grado di controllare. Le chiese, incapaci di comunicare con i giovani urbanizzati, che fanno tanta fatica a dialogare fra di loro e con l’Islam. Il quadro che i giovani vedono intorno a loro non è incoraggiante. Kevin, venticinquenne giocatore di calcio quasi professionista (un paio di centinaia di euro al mese fra contanti e pasti) e anche grande lettore delle pagine di analisti politica dei quotidiani nazionali, conclude la carrellata che è durata oltre mezzora, con “Non abbiamo ancora imparato a giocare il gioco della democrazia con le regole che sono state inventate dagli altri. Non è il nostro gioco, e anche gli allenatori e gli arbitri non sono dei nostri. Rimettiamo noi giovani la palla al centro e riproviamo”.
In questo contesto è possibile parlare di impegno cristiano, di cultura dell’incontro, di vivere insieme di essere artigiani di pace? Non solo è possibile, è doveroso, acconsentono tutti. Ma non è facile.
Cito Bernhard Haring teologo morale che già nel 1995 diceva che da oltre vent’anni (quaranta da oggi!) ci sono voci che auspicano l’avvento di un’autentica comunità mondiale nella quale siano riconosciuti la dignità di ciascuno e nella quale ogni nazione capisca di non poter pensare al proprio bene senza interessarsi al benessere di tutti. Pur con l’avvertimento che non appena pensiamo a strutture mondiali efficaci indietreggiamo per paura “della bestia che sale dall’Abisso” (Apocalisse 11,7) temendo l’instaurazione di una tirannia universale. Haring sosteneva che il rimedio non sta nel rifugiarsi negli individualismi e nazionalismi ma nell’attuare progressivamente strutture che favoriscano partecipazione e responsabilità. Poi cito un messaggio di Paolo VI, il quale nel 1971 diceva “Tutti gli uomini nascono liberi a uguali nella dignità e nei diritti, essi sono dotati di ragione e di conoscenza e devono comportarsi gli uni verso gli altri come fratelli, Non torniamo indietro, diamo applicazione logica e coraggiosa a questa formula: ogni uomo è mio fratello”.
Solidarietà, pace, fratellanza universale. Stava sognando Paolo Vi quando pronunciava questo messaggio? O è questo l’orizzonte della storia nonostante tutte le presenti difficoltà?
Karen è persa nei suoi pensieri. Poi sbotta con una frase che diventa la conclusione dell’incontro: “Vorrei essere capace di contribuire a realizzare l’utopia di Paolo VI e di papa Francesco. Il nostro futuro non deve essere lasciato in mani a uomini – e sottolinea con forza uomini – come Salva Kiir e Riek Machar”.

The old/new mission – La “missione liquida”

La crisi degli istituti missionari e le nuove prospettive aperte da Papa Francesco.

I vecchi missionari, che ho conosciuto quando ero giovane tanti anni fa, dicevano che ogni volta le partenze diventavano più difficili. Le loro partenze erano poche, la prima volta in genere quand’erano poco più che ventenni, seguita da una lunga permanenza in Africa, poi una seconda e quando ce n’era una terza era già quasi certamente l’ultima. I viaggi dall’Italia al Sudan o all’Uganda duravano settimane e settimane, erano costosi ed estremamente disagiati.
Da novizio mi vene affidato l’incarico di accompagnare a casa una suora comboniana che rientrava in Italia dopo essere partita nel 1938. Era il 1964, e vidi quella suora ormai molto anziana scoppiare a piangere perché non riconosceva più neanche la strada e la casa in cui era cresciuta e dove ancora abitavano i suoi fratelli. Il torrente presso cui giocava da bambina era stato coperto da una grande strada asfalta. Capii che i ritorni potevano essere ancor più dolorosi delle partenze.
Se chiedevi a questi missionari perché erano partiti ti parlavano di motivazioni che oggi ci fanno sorridere e ci sembrano semplicistiche e infantili – salvare le anime, battezzare e mandare in cielo anche solo una persona morente, portare la luce del Vangelo, curare i bambini malati – ma poi approfondendo ti accorgevi che la motivazione era la più autenticamente evangelica, l’amore per Dio e l’amore per il prossimo. Se avevi la pazienza di continuare ad ascoltare le loro interminabili storie capivi quanto fossero profondamente radicati in uno spirito di servizio e di sacrificio. Erano pronti a tutto, con semplicità, fino alla morte, per le persone alle quali erano stati mandati e con le quali erano entrati in comunione di vita.
Oggi si sono moltiplicate le partenze – nel senso che nella vita un missionario parte e rientra molte volte – e le motivazioni si sono fatte più sofisticate. Si parte e si rientra come minimo ogni tre anni, a volte anche più spesso. Tre mesi di vacanza, e poi via, quasi in incognito. Si è fortunati se le parrocchie e le diocesi di origine manifestano qualche interesse. Un missionario olandese mi diceva “Vengo da una famiglia numerosa, con otto figli, adesso i mie sette fratelli e sorelle hanno un totale sei figli. I nipoti sono solo tre. Nessuno più è un credente praticante, ma quel che è perfino peggio è che non c’è neanche il senso di essere una famiglia. Quando vado in vacanza mi sento un alieno”.
Secolarizzazione e globalizzazione, hanno annullato la dimensione geografica della missione. Le motivazioni sono elaborate in seminari, incontri e workshop con teologi d’avanguardia – ma il numero dei missionari Europei è in decrescita vertiginosa e alcuni istituti missionari, come gli svizzeri Missionari di Betlemme, stanno per estinguersi. L’impegno dei pochi giovani missionari non è sufficiente a rivitalizzarli. Certo, non mancano anche oggi coloro che sono disposti a dare la vita, e la danno, come ci ricorda ogni anno l’elenco dei missionari uccisi nel corso della loro missione. Ma noi missionari crediamo ancora alla specificità della nostra vocazione?
La missione nuova, è una nuova sfida, una frontiera non fisica, che inizia nel cuore dello stesso missionario e si estende a tutto il mondo. E’ una visione della missione più autentica, basata sulla consapevolezza della necessità della propria conversione prima che di quella degli altri.
Alcuni parlano di “missione liquida” in analogia al concetto di “società liquida” di Zygmunt Bauman. Secondo Baumann viviamo in una situazione di crisi delle comunità tradizionali: crollati i valori comunitari, mancando un punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. La salvezza individuale viene identificata con l’apparire e il consumare. Emerge un individualismo sfrenato, dove non ci sono più compagni di strada, solo concorrenti e avversari da cui bisogna difendersi e possibilmente sconfiggere. Se non appari, non esisti, se non consumi, non vali nulla. Cosa c’è di più distante dal Vangelo?

Essere missionari in questo contesto di liquidità disorienta molti. Invece di approfittare delle nuove opportunità ci si spaventa per i possibili rischi e ci si chiude sulla difensiva, nei propri castelli mentali. Le motivazioni alla missione hanno una coloritura sempre più personale, profonda. Cosi personali da diventare evanescenti, inafferrabili, a volte la persona stessa non riesce a spiegarle… Si rischia di perdere i punti di riferimento forti. In una liquidità che per sua natura livella, appiattisce tutto sul minimo comun denominatore, la missione diventa sempre più simile all’azione umanitaria di una ONG, come ha più volte notato papa Francesco.
Eppure questo momento è il momento in cui papa Francesco chiama la chiesa ad uscire, ad essere missionaria. A rimettere al centro del suo annuncio il Vangelo della misericordia, il Dio Padre misericordioso proclamato da Gesù. E’ una chiamata certamente capita e condivisa dai missionari ancora attivi. Le istituzioni però hanno più difficoltà che non le persone ad entrare nelle nuove logiche della missione. Le istituzioni, anche se si tratta di istituti religiosi a vocazione eminentemente missionaria, per loro natura tendono a difendere la stabilità, la conservazione, se non sono addirittura legate alla logica della gerarchia, del controllo, del potere. Fanno fatica a recepire la libertà, lo slancio, l’apertura, il rischio come valori. Una persona, o un piccolo gruppo guidato da un carismatico come Daniele Comboni, per esempio, poteva centocinquat’anni fa decidere di affrontare una missione rischiosa al limite dell’incoscienza. Invece un’istituzione, specialmente un’istituzione che si sente minacciata nella sua stessa sopravvivenza, nomina una commissione perché esamini tutte le opzioni possibili, e prima di fare un passo che sia anche solo potenzialmente rischioso si cautela con una sostanziosa assicurazione. Abbiamo visto in Europa come anche gli istituti missionari facciano fatica a recepire gli stimoli di papa Francesco all’accoglienza, all’uscire dalla situazione di tranquilla continuità, di sicurezza, e mettere a disposizione le persone, le case, per un servizio ai migranti.

E’ difficile declinare la tradizionale audacia missionaria nei nuovi contesti sociali o geopolitici. Da bambino ascoltai affascinato la storia del mio concittadino padre Giovanni Mazzucconi, oggi proclamato beato, che parti per la Papua Nuova Guinea, quasi esattamente dall’altra parte del mondo, circa 150 anni fa. Fu ucciso, ancora trentenne, poco dopo l’arrivo. E’ una storia ricca di avventure, di luoghi esotici, di gente con tradizioni strane. Una storia di coraggio al limite dell’incoscienza, di sacrificio, di totale dedizione a Dio. Tutti ingredienti capaci di infiammare l’anima di un bambino. Oggi non possiamo neppur immaginare storie del genere. Non ci sono nuovi continenti da esplorare, le persone non raggiunte dal messaggio del Vangelo vivono in nazioni e città dove i compagni di scuola della mia infanzia vanno per routine a fare affari o in vacanza, perché ormai sono in pensione. Le discriminazioni, le ingiustizie, le guerre di cui sono vittime appaiono cosi spesso sui nostri teleschermi da essere diventate banali e non attirano più la nostra attenzione. Forse siamo ancora capaci di metterci in viaggio, magari anche in una zona di guerra, per andare a portare conforto ad una comunità cristiana lontana e isolata. Ad affrontare fame, malattie, pericoli di ogni sorta. Eppure il richiamo romantico delle avventure dei missionari d’una volta non c’è più. Il missionario eroe che apre un intero paese al Vangelo non c’è più, ed è meglio cosi, vorremmo meno eroi e più umili lavoratori al servizio del Vangelo. Il problema è che non abbiamo trovato nessun sostituto. La sparizione del richiamo romantico a volte si è portata via anche la motivazione genuina. Andiamo ad annunciare il Signore Gesù, o a fare un lavoro puramente umanitario? Ci sono ancora frontiere, o periferie? Dove sono i nuovi areopaghi?
Le nuove frontiere sono aride e asettiche, e ci spaventano più che non i deserti, le foreste e gli oceani. Avventurarci nel mondo dell’informazione e specialmente dei social media, per esempio, ci fa paura. Cosi alla fine dello scorso anno abbiamo visto gli istituti missionari italiani chiudere l’agenzia di informazione Misna di cui erano fondatori e proprietari, l’unica agenzia di notizie in Europa che offriva quotidianamente decine di notizie in quattro lingue in una prospettiva di promozione dei diritti umani, della pace, della giustizia, del rispetto del creato. Una decisione sconcertante, presa ai livelli più alti degli istituti missionari italiani, proprio da parte di coloro che dovrebbero rilanciare gli istituti verso le nuove frontiere. Rinunciare ai mezzi di comunicazione è la cosa più assurda che possa fare chi è chiamato all’annuncio. Migliorarli, trasformarli secondo le necessità e le nuove tecnologie, si, ma chiudere senza proporre alternative? Davvero, l’alto mare della comunicazione spaventa.
Trasformare ogni cosa
E’ pur vero che sono proprio i missionari di frontiera sono quelli che si sentono più a disagio nel mondo della comunicazione moderna. Chi vive comunicando la sua fede attraverso i gesti della vita quotidiana e cura con attenzione la crescita di relazioni umane profonde con il prossimo, si sente fuori posto a far salotto in un programma televisivo. Raramente sono persone che “bucano” gli schermi. Hanno una profonda diffidenza verso un mondo in cui la cosa più importante è l’apparire. Il contrario dello scomparire perché “Lui” cresca, come da Giovanni Battista in poi i veri precursori hanno imparato a comportarsi. Quando questi missionari vengono fatti conoscere dai mass media essi si sentono non solo inadeguati a testimoniare, ma perfino sporcati dal contatto con quel mondo.
Eppure i missionari non dovrebbero fermarsi di fronte ai rischi. “Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa” (Evangelii gaudium 27) ha scritto papa Francesco. Su questa idea ritorna costantemente in ogni suo discorso, è l’humus in cui sono radicate le sue parole e soprattutto i suoi gesti. Per Francesco l’uscire, l’andare – di cui il missionario era fino a poco tempo fa l’icona più chiara – non è una delle delle tante attività, ma il respiro stesso della vita della chiesa.
Di questo scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa si trovano pochi segni nei documenti ufficiali degli istituti missionari. I recenti capitoli generali, avvenuti quando già papa Francesco aveva reso chiarissima la sua visione di una chiesa aperta al mondo e al servizio dei poveri sembrano averla recepita più come pia esortazione che come indicazione di un cambiamento necessario, concreto, che deve essere tradotto in azioni. Si continua a parlare, come d’altronde già si faceva da anni, di pace, di giustizia, di ecologia, di rifugiati, di immigrati. Bellissimo. Nei fatti le preoccupazioni più importanti restano in rapporti con i vescovi, il calo delle donazioni, e, almeno in Europa, la gestione delle proprietà immobiliari…
Padre P. è u missionario francese. Ha insegnato teologia in tanti seminari africani che fa fatica a ricordarseli tutti. “La teologia? E’ utile, ma non dobbiamo credere che sia la teologia a fare la storia. E’ il Vangelo che confrontandosi con la storia fa la teologia. Gli istituti missionari hanno avuto dei grandi fondatori guidati dallo Spirito del Vangelo, però i loro successori si sono lasciati superare dalla storia. Oggi sono ormai solo solo una struttura di potere, perché controllano ancora risorse significative di personale e di soldi. Entrambe le risorse stanno per finire e se gli istituti non si trasformano scompariranno in meno di una generazione. La chiesa non cesserà di essere missionaria perché non ci saranno più i padri bianchi, gli spiritani, i comboniani… Le istituzioni inutili muoiono, lo Spirito vive”.
Mi ha detto un vecchio missionario, uno di quelli che hanno passato tutta la vita in Africa: “E’ ormai dai giorni della mia ordinazione che sento parlare di missione nuova. Quando poi sono arrivato in un posto sperduto dell’Africa nel 1969 ho trovato un superiore che era l’incarnazione della missione vecchia. Però voleva bene alla gente e voleva bene a me, oltre ad aver dedicato tutta la sua vita a Dio. Che poi è tutto il Vangelo. L’ho sempre rispettato, e cercato di imparare da lui le tante cose positive che aveva da insegnarmi. Tante, tantissime. Mi sono aggiornato. Ho letto libri, articoli, documenti. La missione nuova restava un mistero. Tante parole e poca sostanza. La Evangelii Nuntiandi di Paolo VI del 1975 ha detto tutto ciò che c’era da dire, e ancora oggi è il riferimento su come mettere in pratica il Vaticano II. Però nella pratica non cambiava niente. Quando proponevo nuove iniziative i superiori me le bocciavano metodicamente. Altro che missione nuova! Poi è venuto Francesco e coi gesti ci sta mostrando come ci si deve muovere. Lui sì che fa missione nuova. Confesso che faccio fatica a seguirlo, anche se sono più giovane di lui di un paio d’anni. E’ il papa che sognavo quando son partito per l’Africa. Lo Spirito Santo ha deciso di donarcelo adesso. Grazie! Ora ho meno forze, forse anche meno entusiasmo. Molti confratelli della mia età non si ritrovano nel sorriso accogliente verso il mondo di questo giovane Papa. Per ritrovare l’entusiasmo mi rileggo le vite dei missionari dell’ottocento, non perché rimpiango quel mondo, vorrei ricaricarmi con lo spirito con cui affrontavano difficoltà che sembravano insuperabili, la loro fede, il loro spirito di sacrificio. Invece mi cascano le braccia quando sento i confratelli giovani che si preoccupano che la congregazione sia capace di procurare una casa per la loro vecchiaia. Missionari che programmano il tempo delle pensione?” Davvero meritiamo di scomparire, non siamo più sale della terra!”.
Quando gli faccio notare che non era poi tutto cosi bello, che nel passato c’erano rigidità, chiusure, una morale sessuale che era diventata l’unica morale, e poi basti pensare allo scontro col mondo musulmano vissuto come ostile, e al rapporto difficile con le culture locali spesso giudicate inadeguate o incapaci di ricevere il Vangelo, lui continua: “Ma andavano, partivano, rischiavano, e come rischiavano! Adesso che papa Francesco ci invita ad uscire invece sembriamo paralizzati, incapaci di guardare ai grandi orizzonti, di pensare in grande…. siamo come spaventati dell’audacia del papa. Forse stiamo anche noi aspettando che passi il ciclone Francesco e che tutto ritorni al solito trantran?”
Questi sono i ricordi di incontri, i frammenti di vita, le riflessioni, anche contraddittorie, che mi si affollano in testa mentre sto facendo l’ennesima partenza. Una partenza per me un po speciale, che vorrebbe esplorare nuove situazioni umane, con nella testa e nel cuore abbozzi di nuovi programmi che so per esperienza dovranno scontrarsi con la realtà delle persone e delle istituzioni per diventare diventare iniziative concrete. O fallimenti.
Ripartire. Di nuovo. A 73 anni! Perché, per fare cosa?
Ci sono le iniziative da continuare, semi che hanno bisogno di tempo per germogliare, esili piantine che ne hanno ancor più bisogno per continuare a crescere. Ci sono innanzitutto le persone con le quali ho già camminato tanto insieme, e mentre il mio passo si fa stanco vorrebbero sostenermi. I bambini e ragazzi di strada di Nairobi e Lusaka, i nuba ancora vittime di un regime sanguinario, i rifugiati, gli operatori di pace. Avrò forze, e tempo, per continuare a camminare con loro? Rimettermi a camminare? Ho fatto la mia strada, sono ormai un peso per gli altri, meglio mettersi in pensione, mi dice una vocina. Eppure è sulla strada che scorre la vita, che opera lo Spirito. Lì ci sono gli altri, l’incontro, l’imprevisto, il cambiamento, la crescita, come mi hanno insegnato i ragazzi di strada.
Potrei pensare di “uscire” verso nuove periferie, ma dove? Forse potrei organizzare un gruppo di giovani che con le loro abilità artistiche vadano in giro a proclamare pace e gioia… Forse… Idee balzane!
Forse meglio non cercare, meglio semplicemente restare vigili e riconoscere il nuovo quando ti viene incontro.
Nella sala d’attesa dell’aeroporto di Nairobi dove sto aspettando la connessione per Lusaka mi avvicina un donna anziana. Il vestito semplicissimo, il sorriso gentile: “Padre Kizito, posso rubarle qualche minuto?” mi chiede e poi si presenta. Viene dal Perù, è suora in una congregazione religiosa locale, si chiama Rosa, come la santa più famosa del suo paese. Lavora coi bambini di strada in Perù e sta tornando dalla seconda visita alla sorella minore, anche lei suora, che da anni è in Africa, infermiera in un dispensario nella savana. Entrambe hanno studiato a Roma, e da allora sono lettrici di tutte le pubblicazioni missionarie, inclusa Nigrizia. Ha voglia di parlare di Africa, è un torrente, non posso fermarla… Mi racconta della sua prima visita alla sorella, quattro anni fa. “Sono andata a trovarla perché era in crisi. Volevo capirne le ragioni. Il primo impatto è stato straordinario. Mi ha colpito la dedizione di tanta gente, sia personale dell’ospedale come agenti pastorali di tutti i livelli. Ho visto una straordinaria bellezza spirituale nella gente semplice dei villaggi. Sono persone appena uscite dalle mani di Dio! Ma ho avuto l’impressione che le strutture della chiesa siano ancora come un corpo esterno. Vivono ad un altro livello, ragionano con altre logiche. Mia sorella pur essendo per il suo lavoro a contato fisico quotidianamente con i poveri era andata in crisi per questa distanza, si sentiva funzionaria di una istituzione invece che una sorella. Ne abbiamo parlato insieme, come cambiare? Adesso sto tornando dalla seconda visita. Pensavo che papa Francesco avesse provocato un cambiamento. Invece ho notato ancor più la stanchezza, l’anzianità dei missionari, sia uomini che donne. La resistenza al cambiamento, i mugugni, l’isolamento. La difficoltà che la chiesa locale, che pur dovrebbe essere una chiesa giovane, ha di cambiare. Nata arteriosclerotica”. Suor Rosa si scalda, le vien fuori l’anima latino-americana. “Rispetto le persone che lavorano con tanta fede, e si donano giorno dopo giorno. Il problema non sono le persone. Ma perché non ammettere gli errori del passato e addirittura critichiamo il papa se lui invece ha il coraggio di chiedere perdono ? Dovremmo mettere in cantiere i cambiamenti necessari. Facciamo fatica e valorizzare la comunità locale, a far si che l’impegno sociale stia al passo con le istruzioni catechetiche. Amo questa chiesa, è l’unica chiesa che ho! Dobbiamo rispondere alla chiamata di papa Francesco e rinnovarla! Dobbiamo valorizzare la riflessione, ma non possiamo permetterci di fare teologia astratta. Con mia sorella ho capito che dobbiamo rafforzare la nostra spiritualità, non quella che si nutre di preghierine e di libri devozionali, quella che nasce dalla vita condivisa, nell’azione, nell’amore di ogni giorno. L’azione, anche l’azione sbagliata fatta in buona fede, è più importante delle parole e della teologia. Il cambiamento sociale arriva velocemente, e il mondo antico, della tradizione potrebbe scomparire più velocemente di quanto pensiamo. L’ho visto nel mio paese. Nairobi è già una caricatura del peggio del mondo capitalistico. L’Africa non sta forse muovendosi velocemente verso la ricchezza economica e sta perdendo la sua anima? Dobbiamo essere radicati nel Vangelo e aprirci allo spirito, o falliremo la nostra missione di annunciare il Vangelo. Dove va l’Africa?”
“Dove va l’Africa” o meglio “dove vanno le tante anime di questo continente?” Dove sto andando io? Non posso far altro che assentire. Suor Rosa si è accorta che il suo appassionato discorso ha attirato l’attenzione di altri passeggeri, e abbassa la voce. “Come invecchio ho imparato a fidarmi più di Gesù e del Suo Spirito e meno di me stessa” Abbassa ancor più il tono e sorride fra se e se “Ancor meno dei superiori, delle gerarchie. Sono necessarie, per carità! Se sono radicata in Gesù posso sopportare tutte le delusioni, tutte le mia incapacità tutte le incomprensioni, tutti i tradimenti. L’unica certezza viene dal seguirlo nel santuario della mia coscienza”.
Chiamano il suo volo. Senza sapere che ha risposto alle domande che mi stavo ponendo suor Rosa si alza, saluta con un ultimo sorriso e si allontana.
La “missione liquida” è sempre la stessa missione: non ti domandare verso quali periferie devi andare, non contare troppo sui tuoi piani, sui tuoi progetti, e neanche su quelli delle istituzioni e dei superiori. Affidati al Signore. Buttati, e seguilo. Cammina con gli altri, con i semplici, i miti, i puri di cuore, i poveri, e, passo dopo passo, scoprirai dove devi andare. Lui è già là, ti aspetta. In Galilea.

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