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May, 2012:

Dubai. Il Grande Esodo

Sono a Dubai per pochi giorni. Ho preso l’occasione di fare una pausa senza costi aggiuntivi nel volo verso l’Italia e mi sono fermato qui per stare con Hector, membro di Koinonia di Nairobi, primo tecnico di studio di Radio Waumini, sposato con Esther, con due figlie. Sono quasi tre anni che Hector lavora in uno studio radiofonico a Dubai, con uno stipendio quasi quindici volte più alto di quello che prendeva a Nairobi.

Dubai è una città strana, fra il mare e il deserto,. Tutto è nuovo, e tutto è finto. L’energia costa quasi niente perché se Dubai ha esaurito i suoi giacimenti petroliferi gli emirati vicini gliela forniscono a prezzi stracciati, l’acqua è carissima provenendo da impianti di desalinizzazione, i centri commerciali sono enormi, c’è aria condizionata dappertutto – anche alle fermate dell’autobus – per rendere sopportabile la vita in una città dove in questi giorni dalle 11 alle 16 ci sono 42 gradi e in agosto si arriva a 48. Si può sciare su una pista di neve ricostruita, pattinare su ghiaccio, abbronzarsi in spiagge artificialmente costruite con palme che hanno l’irrigazione goccia a goccia, l’acqua limpida e un cielo permanentemente grigio – mi dicono che è quasi sempre cosi – per la sabbia sollevata dal vento che viene dal deserto. Si può anche salire sul Burj Khalifa – la “torre del Califfo” inaugurata nel 2010 – che con i suoi 828 metri è l’edificio più altro del mondo. Facendo tutto questo probabilmente gli unici locali che si incontrano sono i funzionari dell’immigrazione all’aeroporto e i proprietari delle diverse attività, visto che i locali sono circa quattrocentomila, inclusi bambini e anziani, su un totale di due milioni. Gli altri sono indiani, pachistani, filippini, africani che vengono qui a lavorare, e quindi tutti giovani adulti, donne e uomini.

Domenica mattina ho partecipato alla Messa delle nove nell’unica chiesa cattolica, costruita su in terreno offerto da un emiro che credo abbia fatto donazioni per la costruzione. La propaganda religiosa è proibita, ma tutti possono praticare la propria religione senza difficoltà. La Saint Mary Church è grande, 1,700 fedeli ci possono stare comodamente seduti. L’aria condizionata mantiene una temperatura di 22 – 25 gradi, ai lati dell’altare principale due schermi proiettano primi piani del celebrante e anche le parole dei canti e delle varie parti della Messa. E’stata costruito su un terreno donato dall’Emiro Sheikh Rashid bin Saeed Al Maktoum, allora Vice Presidente e Primo Ministro degli Emirati Arabi Uniti, e lo stesso l’ha anche ufficialmente inaugurata nnel 1967. Un segno di collaborazione non comune in questa parte del mondo.

Mi sono messo tra nei banchi, come mi piace fare quando visito qualche città. La partecipazione dei fedeli era molto alta, anche aiutata dal fatto che le preghiere in inglese – per quasi tutti seconda o terza lingua – erano proiettate sullo schermo. L’omelia è stata un po’ fredda e teorica, compensata dal fatto che gli annunci riguardavano incontri sui diritti degli immigrati, sul come ottenere la carta di identità, inviti a partecipare a gruppi di aiuto-aiuto. Nel complesso un’impressione di chiesa come organizzazione sociale efficiente.

Ciò che faceva la differenza, che dava calore umano di chiesa, di popolo di Dio, di gente in cammino per la costruzione del Regno, erano i volti dei fedeli. Su di essi si potevano leggere i problemi, le angosce, le gioie di persone vere, e le presenza di questi volti dava un’immagine non in contrasto con quella che veniva data da tutto il resto, ma che a quei gesti rituali e quelle parole un po’ fredde dava tutto il calore e la pienezza della verità. Età media non più di 35 anni, in maggioranza uomini. Nei volti si poteva vedere l’origine: filippini in maggioranza, poi indiani, iraniani, malesi, indonesiani, e una presenza molto minore di africani e di europei. Attenti, devoti, la stragrande maggioranza ha ricevuto l’Eucarestia. Su ogni volto si poteva leggere il dolore per la separazione dalla famiglia, l’impegno per un lavoro duro, la determinazione a superare i problemi, il sogno di una vita migliore.

Nel monolocale di Hector (quando la famiglia è qui ci vivono in quattro) tutto piastrellato e con aria condizionata (600 euro al mese) ci sediamo su un tappeto, lo spazio per un tavolo non c’è, a condividere un piatto di spaghetti. Per Hector, che prima che lo mandassi a fare un corso a Milano alla Radio Circuito Marconi e diventasse un bravissimo tecnico, era venuto a vivere a Kivuli come responsabile delle attività sportive e ricreative, gli spaghetti sono un ricordo della vita a Kivuli. “Fra la gente che hai visto – mi dice – quelli fortunati come me che hanno una buona specializzazione sono pochi. La maggioranza fa il cameriere, l’aiuto cuoco, il portiere, l’addetto alle pulizie. Vengono messi in un ostello, hanno un letto per dormire e ricevono i pasti. Un autobus li prende e li riporta dal posto di lavoro. La paga va dai 100 ai 150 euro al mese. Hanno un contratto di due anni, rinnovabile, e alcuni riescono a mandare a casa quasi tutta la paga che ricevono. Fanno una vita di grandi sacrfifici”. Il papa di Hector ha un posto di responsabilità nelle chiesa pentecostale del suo villaggio, non lontano dal lago Vittoria, ed è cresciuto imbevuto di immagini e valori biblici. Aggiunge riflessivo “Siamo tutti in cammino, l’umanità intera, tutti insieme, in un grande Esodo. Arriveremo.” E sorride, come fossimo già tutti arrivati.

In cima al Burj Khalifa: Hector (a destra) e Martin, un altro ragazzo di Kabiria Road e Kivuli ritrovato a Dubai,

AFRICA, SOGNARE OLTRE L’EMERGENZA

AFRICA, SOGNARE OLTRE L’EMERGENZA
Gino Filippini, quarant’anni a fianco degli ultimi
Edizioni Paoline, Milano, 2012, € 16.50

L’amico sociologo Fabrizio Floris mi segnala e mi manda questo sua recensione di un libro che è indirizzato particolarmente agli operatori sociali, ma che può aiutare tutti coloro che amano l’Africa a capirne meglio il contesto umano e sociale. Nigrizia dovrebbe averne pubblicato una recensione più ampia.
Non ho ancora avuto l’opportunità di leggerlo, lo farò appena riuscirò ad averne una copia, ma ho conosciuto Gino, e so quale straordinaria capacità avesse di relazionarsi con i poveri pur mantenendo la lucidità di capire e analizzare le problematiche di povertà e sviluppo.

“Se non sai dove andare ricordati da dove vieni” recita un proverbio africano. Questo apprendimento dall’esperienza del passato funziona a livello individuale, per le scienze hard, ma raramente per il sociale, che in questo senso non riesce a diventare scienza perché ognuno parte dalla sua esperienza e tende a ripetere gli errori di coloro che lo hanno preceduto e così in un crogiolo mai spento che trita destini di operatori, cooperative, associazioni e volontari. Va via una persona e si perdono anni di sapere, “quando muore un vecchio è un biblioteca che brucia”; così il sociale diventa l’esperienza individuale di singoli che arrancano nella montagna delle relazioni, dei progetti, delle ONG e delle organizzazioni umanitarie. Se volete invertire questo processo leggete e trasmettete i contenuti di questo libro “Africa sognare oltre l’emergenza” che racconta in presa diretta cosa ha visto e vissuto in quarant’anni d’Africa (25 nella zona dei Grandi Laghi e 15 a Korogocho) un volontario di nome Gino Filippini. Una persona che si è messa al servizio della Storia della gente di questa terra. Un sognatore ma non esaltato; discreto, ma efficace; laico, ma non sposato; di grande fede senza essere clericale; volontario, ma non appartenente ad alcuna organizzazione, capace di dare spazio e protagonismo effettivo alla gente.

Il libro non è, tuttavia, la storia di una persona, ma ripercorre i temi della cooperazione, ci aiuta a conoscere le cause e non gli effetti dei problemi. Un’esperienza da rimettere in circolo perché la gente merita azioni concrete, profezia e poesia.

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