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Reflections

MA GLI SCHIAVI HANNO UN’ANIMA?

Papa Francesco riapre quasi per caso qualche pagina della storia della chiesa che non dovremmo dimenticare, le cui conseguenze sono ancora vive nel razzismo che vediamo riemegere anche nell’attualità italiana. Agli “indigeni”, in particolare agli africani fatti schiavi, i colonialisti hanno rubato tutto, hanno perfino tentato di rubare l’anima.

Non sono riuscito a seguire il cammino di papa Francesco in Canada come avrei voluto, però rileggendone gli interventi nella loro integrità nel sito del vaticano vi ho trovato delle parole e idee dirompenti, almeno per chi come me si impegna da una vita a vivere la missione. Un deciso passo avanti, non una rimasticazione del già detto, nel mettere in pratica il Concilio Vaticano II. Basta leggere il discorso alle popolazioni indigene fatto a Maskwacis lo scorso 25 luglio, per sentirsi stimolati a rivedere la propria azione.
Ad un giornalista che durante il volo di rientro a Roma lo ha interpellato dicendo “Gli indigeni dicono che quando i coloni vennero a prendere la loro terra, si riferivano a questa dottrina che stabiliva che loro erano inferiori ai cattolici. È così che Usa e Canada sono diventati Paesi …”
Papa Francesco ha cosi risposto, riassumendo colloquialmente il suo pensiero:
“Credo che questo è un problema di ogni colonialismo. Ogni, anche oggi. Le colonizzazioni ideologiche di oggi hanno lo stesso schema: chi non entra nel loro cammino, nella loro via, è (considerato) inferiore. Ma voglio andare più avanti su questo. (Gli indigeni) non erano considerati solo inferiori. Qualche teologo un po’ pazzo si domandava se avevano l’anima. Quando Giovanni Paolo II è andato in Africa alla porta dove venivano imbarcati gli schiavi, ha dato un segnale perché noi arrivassimo a capire il dramma, il dramma criminale. Quella gente era buttata nella nave in condizioni disastrose. E poi erano schiavi in America. È vero che c’erano voci che parlavano chiaro come Bartolomeo de Las Casas e Pedro Claver, ma erano la minoranza. La coscienza della uguaglianza umana è arrivata lentamente. Dico la coscienza perché nell’inconscio ancora c’è qualcosa… Sempre abbiamo come un atteggiamento colonialista di ridurre la loro cultura alla nostra. È una cosa che ci viene dal modo di vivere sviluppato nostro, che delle volte perdiamo dei valori che loro hanno. Per esempio i popoli indigeni hanno un grande valore che è quello dell’armonia con il creato. E almeno alcuni che conosco lo esprimono nella parola “vivere bene”, che non vuol dire come capiamo, noi occidentali, passarla bene o fare la dolce vita. No. Vivere bene è custodire l’armonia.”
In questi giorni non ho trovato nessun commento dall’Africa a queste parole, che pure dovrebbero ancora un volta rimettere in questione le nostre certezze, e farci pensare che abbiamo commesso degli errori clamorosi. Per carità, possiamo trovare tante giustificazioni, lo spirito dei tempi, la mancanza di conoscenze antropologiche, l’impossibilità di agire diversamente nelle circostanze storiche ecc ecc. ma gli errori, come la mancanza di rispetto per le culture locali e per le persone, restano errori. Possiamo anche citare numerosi missionari che sono stati pionieri nello studio delle lingue e culture africane, ma resta il fatto che ancora oggi nella cultura accidentale e quindi anche nella chiesa, l’Africa resta sconosciuta. O conosciuta male. La filosofia africana? Inesistente. La storia africana? Miti e leggende. La spiritualità africana? Superstizione. Il non considerare nella loro importanza queste dimensioni delle diverse culture africane ha portato alla crescita di una chiesa che è per tanti aspetti squilibrata, una pianta con radici deboli, che cresce con un apporto esagerato di fertilizzanti, protetta da pesticidi, tutti importati dall’esterno. Sentire papa Francesco dire che il centro della spiritualità dei popoli nativi è il vivere in armonia, mi ricorda le mie prime letture dei filosofi africano che già 50 anni fa identificavano nell’armonia il centro della visione africana del mondo.
INCULTURAZIONE
Guardo al futuro con speranza, credo quindi che questo viaggio del papa in Canada ispiri pastori e teologi africani a riprendere senza timore il tema dell’inculturazione in cui tanti pensatori africani sono stati all’avanguardia. Nel 1994 in occasione della celebrazione del primo Sinodo per l’Africa, questo tema è stato soffocato sul nascere, forse perché a Roma si temeva, a ragione, che rimettesse in discussione la crescita numerica di una chiesa pensata prevalentemente in termini di burocrazia ecclesiastica. A quel tempo, come direttore delle rivista comboniana New People a Nairobi, editai un libretto (qualcuno lo descrisse come un pamphlet rivoluzionario) scritto da un gruppo di teologi e pastori africani. Fu distribuito ai padri sinodali ma venne immediatamente ritirato dalla circolazione, e come mi sono accorto recentemente, fatto sparire anche da quasi tutte le biblioteche alle quali era stato distribuito. Ne ho ritrovata una copia che qualcuno ha amorevolmente digitalizzata nella biblioteca dell’Hekima College di Nairobi. Chi volesse approfondire può leggerla qui . Ciò che ha detto papa Francesco è vero non solo per il Canada. e il discorso dell’inculturazione del Vangelo in Africa deve essere ripreso affinché la chiesa africana possa radicarsi meglio cosi da poter offrire alla chiesa universale il dono di una sua propria spiritualità.

Per Papa Francesco l’Africa è più di un questione geografica

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Un Papa che parla più di Gesù e di Vangelo che di Chiesa, più di gioia, compassione e misericordia che di legge e valori non negoziabili, più di uscire e servire che di difendere e proclamare. Davvero, pochi della mia generazione ormai osavano sperare che la primavera del Concilio Vaticano II sarebbe tornata.

Ma in Africa i cambiamenti promossi da papa Francesco non sono ancora arrivati. Dopotutto non abbiamo le stesse stagioni dell’Europa, e Bergoglio pubblicamente ha interagito ben poco con l’Africa, a parte i necessari appelli alla pace e qualche parola durante le visite ad limina delle Conferenze episcopali africane.

Il suo primo viaggio pastorale, a Lampedusa, lo abbiamo visto incontrarsi con africani appena sbarcati dalla costa libica. Lui era di fronte a un mondo nuovo, che non aveva mai incontrato faccia a faccia, e i profughi, in maggioranza musulmani, sì e no sapevano chi fosse il papa, tanto meno papa Francesco.

Sono venuti altri viaggi, le prime nomine cardinalizie nel febbraio del 2014, e fra i nuovi 16 cardinali elettori c’erano due arcivescovi dell’Africa occidentale: Jean-Pierre Kutwa, di Abidjan, e il poco conosciuto Philippe Ouédraogo, di Ouagadougou, da famiglia in maggioranza musulmana, che si autodefiniva “piccolo pastore della savana burkinabè”. Ma a confronto con le altre nomine non costituivano una gran novità e non hanno generato grande interesse.

Nel frattempo non ci sono state nomine di africani a cariche “importanti” a Roma, e questo significa poco, perché certamente Francesco non esprime la sua considerazione per un pastore portandolo a lavorare in Vaticano. In ogni caso l’Africa è scomparsa degli orizzonti della Chiesa, mentre emergeva con forza, ovviamente, l’America Latina e successivamente l’Asia. L’anno scorso si era parlato di una visita papale in Camerun, ipotesi che era stata suffragata da un’udienza concessa a Paul Biya, presidente cattolico (ahimè per i cattolici) e figlio di catechisti. Ma qualcosa non deve aver convinto papa Francesco ? probabilmente proprio il fatto che in Camerun ci sia un rapporto non del tutto chiaro fra chiesa e politica ? e di visitare questo paese non si è più parlato. Chi è attento alle cose africane poi non ha mancato di notare che nel corso della prima fase del sinodo sulla famiglia il cardinal Kasper in un’intervista ebbe una frase infelice che lasciava intravedere un giudizio molto pesante su tutto l’episcopato africano, e nessuno ritenne necessaria una puntualizzazione.

Nel secondo concistoro, celebrato nel febbraio di quest’anno, i nuovi cardinali africani elettori sono due: Berhaneyesus Souraphiel, arcieparca di Addis Abeba, e Arlindo Furtado, vescovo di Santiago di Capo Verde. Due pastori di diocesi con un piccolo numero di cattolici, “periferici” in tutti i sensi, ma periferici anche rispetto all’Africa nera, l’Africa della grande esplosione numerica del secolo scorso, mai vista in precedenza nella storia della chiesa. Quell’Africa che con quasi duecento milioni di fedeli in rapida crescita costituisce ormai il 17% della cattolicità, e che, non dimentichiamolo, alla vigilia degli ultimi due conclavi si sentiva autorizzata a reclamare che fosse venuto il tempo di un papa africano.

La Chiesa africana è assente dall’agenda di papa Francesco? Eppure in Africa molti si aspettano una sua visita. Lo scorso 26 novembre ho accompagnato un gruppo di miei ex-ragazzi di strada keniani ad incontrarlo dopo l’udienza generale. Sono rimasti conquistati da Francesco anche solo per i pochi istanti in cui ha detto qualche parola ed hanno sentito una carezza della sua mano. Ma poi la domanda insistente era: ma quando viene in Africa? Quando viene da noi a Kibera? Non pochi altri se lo domandano in Africa.

Sappiamo che Bergoglio prima dell’elezione aveva limitato i suoi viaggi a quelli che doveva fare come pastore, e non ha mai visitato l’Africa, neanche come turista. Non era nel suo stile austero. Quindi si trova di fronte ad una realtà che conosce poco, e vuole prendersi il tempo necessario per ascoltarla e capirla.
Poi è venuto l’annuncio informale, sul volo che lo portava da Manila a Roma il 19 gennaio, di una probabile visita nella Repubblica Centrafricana e Uganda entro fine 2015.

Perché questi due paesi?

Andare nella Repubblica Centrafricana – se pure sarà possibile per l’enorme rischio sicurezza ? significa immergersi in tutte le debolezze dell’Africa. Innanzitutto la guerra, le violenze sulla popolazione civile. Poi un paese con grandi ricchezze naturali che non è mai stato veramente indipendente, conteso fra multinazionali, sotto la minaccia del fondamentalismo islamico, dove tribalismo e rivalità religiose sono esplose negli ultimi tre anni. Un paese dove la chiesa è sfidata dalla necessità di dialogare, e di dialogare da una posizione di debolezza. Un paese dove la mondanità del clero, per usare un termine bergogliano, in contrasto con la povertà generalizzata, aveva raggiunto livelli che hanno costretto nel 2009 all’intervento di Roma. Le relazioni dei vescovi locali alla Santa Sede avevano per anni nascosto una situazione di corruzione di una buona parte del clero, avido di potere e di soldi, a cui i vescovi non sapevano più come reagire, o avevano scelto di farne parte. Ci vollero un nunzio vietnamita e poi un nunzio nigeriano, e un visitatore apostolico – l’allora segretario della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, mons. Robert Sarah, guineano, oggi cardinale prefetto della Congregazione per il culto divino – per rimuovere la cancrena, decapitando così anche alcune diocesi. Da come abbiamo imparato a conoscere papa Francesco, che ama andare alla radice dei problemi, non è certamente un caso che abbia scelto questo paese come meta del suo primo viaggio africano.

In quanto a essere snodo di problemi geopolitici, l’Uganda non ha meno possibilità di rappresentare i problemi africani e le periferie del mondo, con un presidente al potere da 29 anni che interferisce pesantemente, anche manu militari, nei paesi vicini, e con i suoi popoli nomadi del nord che sono ancora tagliati fuori dalla sviluppo, sia pur disuguale, del resto del paese. Ma forse a Francesco interessa di più per un’altra rappresentatività, cioè quella dell’impegno laicale. Con i suoi 22 martiri della fine dell’Ottocento, i beati catechisti Daudi e Jildo del 1918, questo paese ha donato alla chiesa africana il numero più alto di canonizzati nei tempi moderni. Con una nota curiosa. Contrariamente a quanto è avvenuto nel resto del mondo, fra i santi e i beati africani dei tempi moderni ci sono solo due suore, e non c’è nessun prete (a parte il beato nigeriano Cyprian Tansi, che però ha vissuto in Inghilterra). Vorrà Francesco fare dell’impegno laicale per la giustizia e la pace il tema dominante della sua tappa in Uganda?

Allora il ritardo di Francesco nel guardare all’Africa si spiega con il desiderio di ascoltarla e capirla, prima di aiutarla a riprendere il cammino. Centrafrica e Uganda sono due paesi che daranno a Francesco l’occasione per parlare di problemi veri, dei poveri e della chiesa e dei suoi pastori. Su tutto domineranno i temi della pace e del dialogo con l’Islam, temi globali che hanno però risonanze drammatiche in Africa.

Per troppo tempo i problemi dell’Africa sono stati nascosti sotto il tappeto. Si era arrivati al primo sinodo Africano nel 1994 con tante speranze, ma poi manco la parresia, su cui oggi Francesco tanto insiste. Così il Sinodo riconobbe formalmente l’idea di inculturazione, cioè del necessario dialogo fra Vangelo e diverse culture locali per un reciproco arricchimento, ma ai teologi che vi avevano lavorato non fu permesso di partecipare e poi furono progressivamente silenziati. Oggi di inculturazione non si parla più, e ancor meno la si fa e la si vive. Quel Sinodo enfatizzò la necessità dell’impegno dei cristiani per la giustizia sociale. Son stati fatti pochi progressi. In troppi paesi africani i leader religiosi sono assenti dal dibattito pubblico, e accettano passivamente un’agenda sociale profondamente ingiusta. Si adagiano in una commistione fra potere politico e servizio pastorale tutta a loro svantaggio, che vede uomini politici prendere la parola nelle chiese e nei servizi religiosi, e li fa apparire alleati del potere. Recentemente un amico africano mi faceva notare come durante l’insediamento di un vescovo nelle sua nuova diocesi la classe politica locale abbia partecipato in massa dando l’impressione alla comunità che fosse l’insediamento di un funzionario governativo. E questo succede in troppi paesi.

Abbiamo decantato per anni la giovinezza e freschezza della fede e della chiesa africana. Ma se questo resta vero per la gente semplice, alla periferia del potere, la chiesa dei pastori rischia di invecchiare precocemente e gestire il servizio dell’autorità con modi che sono diventati vecchi e inaccettabili nei paesi da cui sono partiti i missionari che hanno evangelizzato l’Africa negli ultimi due secoli.

L’Africa non è solo geografia. Per la geografia è solo un continente dall’altra parte di un mare neanche tanto grande. Ma la cultura e l’ethos africani sono radicati in terreni molto più lontani di quelli geografici. Perché la chiesa metta radici profonde in Africa forse dovrebbe ripartire dalle profondità del cuore, là dove gli uomini si incontrano fra di loro e dove incontrano il Signore Gesù.

Papa Francesco con la sua capacità di limpida testimonianza, sincerità, parresia, e più ancora la sua vicinanza ed empatia con i poveri, può offrire alla chiesa africana uno stimolo straordinario per ripartire dal cuore.

Hatred and Forgiveness

Forgiveness, mercy, acceptance, hope—words that have a Gospel flavour; words that more than others have become the theme of the reflections on the readings of the Mass that Pope Francis celebrates daily with the people in the small Santa Marta chapel in the Vatican. It could not be otherwise, since in the Gospel the proclamation of the mercy of God, of His infinite love for his children is the dominant theme.

God condemns the evil, yet He does not want the condemnation and the death of the sinner. In front of God, every human being is always lovable even when his life, sometimes even his physical appearance, is disfigured by sins. We all know people who look evil. We stay far from them. We are afraid that the aura of evil that we perceive in them can somehow attach to us. As a child, I remember the physical repulsion I felt of a man living in my neighbourhood who was known for the beatings he was inflicting on his wife and children. I had only heard the adults talk about his behaviour, but his face, always contorted in a sour grin, kept me at a safe distance. Instead, God looks with love also at those people whom others judge to be lost. In them, He can still perceive the flickering flame of the love he has put in them, He wants to see that flame grow. He never gives up hope.

Jesus, in front of the woman caught in the act of adultery, does not condemn her. The woman does not ask for forgiveness. When the accusers go away in shame for their self-righteousness after being challenged to throw the first stone, He just asks her: “Woman, where are they? Has no one condemned you?” and at her negative reply He tells her: “Neither do I condemn you; go and sin no more.” It is forgiveness without condition, not even the pre-condition of repentance. We may be surprised because to forgive is so difficult for us, and because for many centuries the Church in the West has listed sins in accordance to their gravity, and the penance was meted out in proportion. Priests had become accountants of sins, rather than administrators of the forgiveness of the Father. Now, we are surprised because Pope Francis is simply reminding us of the importance of forgiveness in Christian life, in a teaching that can be summarized in two lines: God is universal and infinite love. One cannot deserve His love; it is He who reaches out to all people, to all sinners, to all those who need to heal their lives.

Forgiveness is freedom

It is difficult for us to forgive. Yet, forgiveness opens up new horizons and new life. As a priest, I have learned to see the presence of God in the lives of people when I see forgiveness. I saw it when I met Wanjiku, a young woman from central Kenya. She lost her parents when very young and was brought up in the homestead of a relatively wealthy uncle. Treated like a slave by the stepmother, she had to work in the kitchen and to attend to the domestic animals for more than fourteen hours per day, while her cousins went to school. Out of sheer determination, she studied in the evening using the books she found scattered around the house, she went to church and catechism classes on Sundays and then found the courage to run away and fend for herself in Nairobi.

Now Wanjiku works as a flight attendant in an international airline company, a job incredibly prestigious back in the village. Just imagine flying every day all over the world! It would have been easy for her to go back and make fun of or despise those who had mistreated her. Instead, she told me: “when I went back to the village for a visit, for a long time I did not tell my relatives about my job. I did not want to humiliate them. I wanted to win them over first. I just brought small gifts. I do not have any grudges against them. I know they struggled for life, I understand their worries, their fear for the future, for the difficult condition of their lives. I have forgiven them, and I would like to see them spend their last years in serenity. I am sure that when they were exploiting me, they were deeply unhappy for some reasons that I did not know, and I do not want to judge them.” Wanjiku is a free person. The past is gone, she looks ahead to a life of commitment and work, to form her family, to pour out to others the love she had not experienced as a child. Freeing herself, Wanjiku frees her uncle and aunt from the chains of their past.

Pope Francis, while visiting a community of contemplative Sisters and talking about Mary as the mother of all Christians, told this delightful story to illustrate how Mary is a merciful mother. “Mary is at the door to Paradise. Saint Peter does not always open when great sinners knock at the door. Mary sees the desperation on the faces of those rejected, she suffers with them, she would like to console them, but she does not want to argue with St Peter. So she stays put. At night, when St Peter closes the door and goes for some well-deserved rest, when nobody sees and nobody hears, Mary opens the door and lets everyone enter.”

Respect and love sinners

The pastors, the priests have a difficult task: they have to teach what is good, to point to their fellow Christians the way towards Jesus, to condemn what is evil, but at the same time they have to teach respect and love for sinners. They have to be like the shepherd who leaves the ninety-nine sheep to look for the one lost sheep; to be like the forgiving father who opens his arms to receive the lost son; to be like Jesus on the cross, forgiving those who are crucifying and despising him. The self-righteous may protest.

What is then really putting our Christian life in danger? It is to hate the sinner. Pope John XXIII fifty years ago made it clear: “we do not have to confuse the sin with the sinner”, because “the sinner is first and foremost a human being and retains the dignity of a human person” and therefore must be treated with mercy and compassion.

Hatred is the opposite of love, mercy and compassion. Speaking to the youth at the end of the World Youth Day in Brazil, Pope Francis gave them advice valid for Christians of all ages. “Do not water down your faith in Jesus Christ. Read the Beatitudes: that will do you good. If you want to know what you actually have to do, read Matthew Chapter 25, which is the standard by which we will be judged. With these two things you have the action plan: the Beatitudes and Matthew 25. You do not need to read anything else.”

La forza della fedeltà – The force of faithfulness

La forza spirituale di una comunità non si misura col numero dei fedeli cristiani o con le posizioni importanti nella gerachia ecclesiasitca. La Chiesa africana è importante per la Chiesa universale – non in forza dei numeri, ma in forza della sua fedeltà a Cristo.

La crescita numerica della Chiesa in Africa è una realtà di grande importanza non solo per i cambiamenti profondi che potrebbe significare per i paesi in cui la crescita si svolge, ma anche per la vita della Chiesa nel suo insieme. Però, quando si parla di una realtà spirituale come il “popolo di Dio” che è la Chiesa, il significato dei numenri deve essere messo in giusta prospettiva.
Il pericolo maggiore è quello di pensare che i numeri possano darci indicazioni chiare e quasi automatiche per capire come sarà la chiesa del futuro.
Uno studio sulla crescita del cristianesimo nel mondo –The Next Christendom. The Coming of Global Christianity, di Philip Jenkins, pubblicato nel 2002 – dimostra, utilizzando statistiche disponibili in quel momento, che l’adesione alle Chiese cristiane sta vivendo una rapida crescita in Africa e in Asia, e che la maggior parte dei nuovi credenti tendono verso un cristianesimo pentecostale, carismatico e, in ultima analisi, fondamentalista. Utilizzando proiezioni statistiche, Jenkins prevede che nel 2050 il cristianesimo a livello mondiale sarà fortemente fondamentalista, più propenso ad confrontarsi in modo conflittuale con le altre fedi, piuttosto che a dialogare. La crescita numerica, infatti, sempre secondo le proiezioni statistiche eleborate da Jenkins, sarà solo fisiologica per le grandi Chiese tradizionali – Cattolica, Luterana e Anglicana – ma sarà travolgente nella costellazione delle nuove chiese di stampo pentecostale che sono Cristo-centriche ma socialmente conservatrici e politicamente disimpegnate.
E ‘vero che l’analisi statistica dei fenomeni sociali è importante per capire dove siamo e dove probabilmente andremo nell’immediato futuro. Tuttavia, è altamente discutibile proiettare le tendenze attuali per un periodo così lungo, come Jenkins fa, in particolare per quanto riguarda cultura, società e religione. Ci sono dei cambiamenti nella società che sfidano tutte le statistiche. Per esempio, la primavera araba, con tutte le sue ambiguità, non è stata prevista da nessuno. Le trasformazioni che sta provocando non sono ancora chiare e magari diventeranno evidenti solo fra una generazione, ma chi aveva costruito un quadro di come il mondo arabo sarà nel 2050, supponendo che le tendenze del 2010 sarebbero continuate per lungo tempo, ha fatto un esercizio in futilità. Allo stesso modo, cosa sappiamo dei movimenti culturali e politici che cresceranno in Africa nel prossimo futuro? Niente. Ci sarà una nuova percezione dei diritti umani che cambiarà l’auto-comprensione del mondo africano? Oppure la crescente influenza della cultura materialistica occidentale causerà il crollo della visione del mondo tradizionale in cui Dio e la religione occupano un posto importante? E le chiese cristiane perderanno il sostegno della spiritualità tradizionale che è una forte preparazione al cristianesimo? Quali trends e correnti di pensiero prevarranno? Gli elementi in gioco sono troppi e troppo imprevedibili, nessuno può neanche con relativa certezza dirci come sarà l’Africa fra trenta o più anni. Leggere i segni dei tempi non è un esercizio facile.

I numeri non significano maturità

Se i numeri non possono essere l’unico fattore per aiutarci a vedere nel futuro, non sono neanche molto utili per misurare la forza spirituale di una comunità. Quando l’Europa fu travolta dall’orrore del nazismo e della seconda guerra mondiale, era statisticamente abitata da una maggioranza cristiana. Ma quanti cristiani furono capaci di resistere a quella follia? Alcuni lo fecero, dando testimoninaza di grande coraggio, ma dobbiamo ammettere che furono pochi. Allo stesso modo, quando il Ruanda, un paese a grande maggioranza cattolica, è stato sconvolto dalla furia genocidaria del 1994, quanti si opposero in nome della loro fede? Alcuni lo hanno fatto, dimostrando eroismo civile e santità cristiana, ma sono stati una piccola percentuale. Hanno salvato vite umane, anche sacrificando la propria e dimostrando adesione totale al Vangelo, ma non furono in numero sufficente a creare un ostacolo capace di fermare l’onda del genocidio.
Alcuni giustificano il caso del Ruanda dicendo che il cristianesimo non aveva ancora messo radici profonde. Ma allora come giustificare ciò che è accaduto in Europa, dove il cristianesimo era stato presente per almeno duemila anni? Era un segno del declino del cristianesimo europeo? Il minimo che possiamo dire è che, in entrambi i casi, i numeri non sono stati un buon indicatore della maturità e della forza di quella Chiesa particolare di resistere al male.
E’ evidente che parlare di “maturità” di una Chiesa, basandosi sulla forza dei numeri o sul tempo in cui la chiesa è stata presente su un territorio non ha molto significato. Come si valuta la maturità? Spesso, una Chiesa “giovane” genera persone che sono pronte a morire per mostrare la loro fedeltà a Cristo. Abbiamo l’esempio dei Martiri d’Uganda, e molti altri. Giustamente alcuni africani non accettano che le loro chiese siano denominate “giovani” perché può dare l’idea di immaturità e di dipendenza. Oppure lo stesso aggettivo, anche se inteso in senso positivo di vitalità e di forza, può diventare un vuoto luogo comune, che si riferisce solo a danze e ululati tollerati durante le cerimonie liturgiche come si tollerano gli schiamazzi degli adolescenti.
Di recente ho sentito un missionario paragonare i leader cristiani africani a un neo-patentato che incomincia a guidare l’automobile: si concentra più sulla gestione dei comandi – come cambiare marcia, come controllare l’auto in curva, quanta forza usare premendo sui freni – che a scegliera la strada e arrivare alla meta. Con questo paragone, il vecchio missionario voleva bonariamente giustificare la mancanza di programmazione pastorale e di visione del suo vescovo africano. Ma alcuni amici africani presenti erano piuttosto infastiditi dal paragone!
Accesi dibattiti sorgono anche quando si vuol valutare se l’importanza numerica della Chiesa africana sia adeguatamente rappresentata agli alti livello della gerarchia cattolica. Prima dell’ultimo concistoro, tenutosi il 18 febbraio 2012, un sito web africano, ha pubblicato un commento molto amaro sulla mancanza di africani fra le nuove nomine. Sicuramente, a parere di chi scriveva, non vi è carenza di africani che meritano la berretta cardinalizia. L’autore esprimeva anche il suo disappunto per il fatto che, sempre secondo lui, nell’ultimo conclave il cardinale africano Francis Arinze non sarebbe stato eletto papa, come tutti si aspettavano, solo per ragioni di pregiusdizi anti-africani… Il chiaro sottinteso era: “Ci meritiamo posizioni importanti a Roma, perché siamo in molti! Ora è il nostro turno! “. Aspettative sbagliate? Troppa fiducia nella forza dei numeri? Non sono stati nominati cardinali africani perché i posti disponibili erano pochi o perché l’episcopato africano non ha molti leaders di grande livello? Tutte queste domande sono inutili. Se pensiamo che avere un papa africano sia un diritto di riparazione alle discriminazioni subite in passato, o guardiamo con orgoglio al numero dei cardinali africani che lavorano in Vaticano e pensiamo che il loro numero dovrebbe aumentare, entriamo in una logica di potere che certamente non è quella del Vangelo e che non aiuta la chiesa a spogliarsi della metalità eurocentrica. Continuiamo a ragionare con paramentri sbagliati.

Costruire un’identità africana

In “La Terza Chiesa alle Porte, un’analisi del presente e del futuro ecclesiale”, pubblicato nel 1976, Walter Bühlmann, un cappuccino svizzero che ha insegnato a Roma negli anni effervescenti dopo il Concilio Vaticano II, metteva insieme le sue riflessioni sulla crescente importanza di quella che allora era ancora popolarmente chiamata “Chiesa missionaria.” Per la prima volta, un eminente studioso occidentale (gli africani avevano già cominciato venti anni prima) sistematizzava in un quadro teologico, le nuove tendenze e le aspirazioni che già emergevano dal “Terzo Mondo” e in particolare dall’Africa, e acutamente inventò il termine “Terza Chiesa”. “Terzo Mondo” era già in uso comune e non aveva la connotazione negativa che prese più tardi, e certamente Bühlmann usò “terza chiesa” in modo positivo. Il suo era un testo pieno di speranza, con le braccia tese verso la terza chiesa, e pronto ad accettare i cambiamenti che le comunità cristiane emergenti avrebbero potuto portare alla Chiesa universale.
Bühlmann aveva ragione: il suo approccio è ancora valido. I numeri non dovrebbe essere visti come potere, ma la Chiesa africana deve vederli come un segno della sua responsabilità a scoprire e svolgere la sua chiamata all’interno della Chiesa universale, e per rafforzare la sua determinazione a seguire il Vangelo di Gesù. Per tutta la Chiesa cattolica, il crescente numero di cristiani africani è una fonte di gioia e un incentivo a far loro spazio nell’assemblea, in uno spirito di fratellanza e nel riconoscimento delle diverse lingue e culture che possono esprimere la fede comune. La Chiesa africana ha il suo giusto posto nella Chiesa universale, non per la forza dei numeri, ma in forza della sua fedeltà a Cristo, in forza dei doni che porta nella comunione universale. Lo Spirito di Dio crea sempre cose nuove in mezzo a noi, e dobbiamo aprirci a Lui.
La Chiesa africana deve fare un bilancio dei suoi successi – soprattutto di quelli recenti, avvenuti dopo gli anni delle indipendenze, con alla guida dei Pastori africani – e andare avanti, costruendo la propria identità. L’inculturazione, la giustizia sociale, la partecipazione dei laici nella vita della Chiesa, sono solo alcune delle linee di identità che sono emerse durante i due Sinodi africani, nel 1994 e nel 2009. Sono questi i doni che la Chiesa africana può portare alla comunità cattolica in tutto il mondo.
I numeri non sono la cosa più importante. Gesù parlava di sale, di lievito, di piccolo gregge. “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”. (Lc 12,32). Nella chiesa l’unico titolo di merito dovrebbe essere la fedeltà al Vangelo.

Costruire Giustizia in un’Africa che Cambia – Building Justice in a Changing Africa

L’Africa è il luogo per eccellenza delle grandi crisi. O almeno tale è nella mente di molti occidentali. Parlando di Africa sembra inevitabile evocare l’interpretazione popolare dei cavalieri dell’Apocalisse: Pestilenza, Guerra, Carestia e Morte. Poi la litania di negatività continua inesorabile man mano che l’analisi si fa più specifica: sottosviluppo, corruzione, violazione dei diritti umani, malaria e AIDS, disastri ecologici, land grabbing, sfruttamento delle donne e dei bambini, traffico di esseri umani, bambini soldato, bambini stregoni, bambini di strada, e, è proprio il caso di dirlo, chi più ne ha più ne metta.

La maggioranza degli interventi proposti, anche con le migliori intenzioni, parte dal presupposto che l’Africa non può farcela da sola, ha bisogno di noi, anche semplicemente per sopravvivere anche ai livelli più bassi.
In questi giorni un video postato in internet ha attirato l’attenzione del mondo. Si propone di fermare Joseph Kony, il leader delle Lord Resistance Army, un gruppo ribelle senza causa nato un Uganda ormai oltre vent’anni fa. Intitolato Kony2012, per gli aspetti comunicativi è innovativo ed esemplare, ma invoca l’intervento militare statunitense per fermare Kony. Ancora una volta sembra che la salvezza per l’Africa possa venire solo dall’esterno.

Da decenni nel mondo missionario ci si è posti la domanda se sia etico usare immagini negative sull’Africa per raccogliere fondi (o per invocare interventi), e la maggioranza dei missionari oggi rifiuta questa strategia, anche se c’è occasionalmente qualche eccezione. Ma tante organizzazioni di aiuto, anche di rilevanza internazionale, ancora usano questi metodi.
La controprova? Quando ho aperto il computer stamattina ho visitato il sito di un quotidiano italiano. Da parecchie settimane avevo notato fra i link un’icona con il volto di un bimbo africano che chiede di essere adottato a distanza. Stamattina ho cliccato l’icona e mi è apparso questo testo, firmato da una grande agenzia umanitaria.
Nel 2011 il Corno d’Africa è stato colpito da una terribile siccità, la peggiore degli ultimi 60 anni. Siamo nel 2012, ma migliaia di bambini continuano a morire di fame e di sete ogni giorno. L’area orientale è solo una tra le più problematiche dell’Africa. L’intero continente è costantemente afflitto da guerre, carestie, malattie e povertà estrema. I bambini rimangono la parte della popolazione che soffre di più, sempre. Assieme, possiamo cambiare il loro destino.
E’ una semplificazione estrema che esacerba gli aspetti negativi dell’Africa. Eppure è solo un esempio, e non quello che usa le immagini e le parole più forti, dei tanti appelli umanitari che magari con l’intento positivo di muoverci a una maggiore solidarietà, finiscono per rafforzare l’immagina di un’Africa in via di fallimento, dove l’Apocalisse è già iniziata.

Ma in Africa – sorpresa! – c’è anche un’accelerazione delle sviluppo economico. Mentre l’occidente è in crisi, e Cina e India danno segni preoccupanti di stanchezza, le economie dei maggiori paesi africani continuano a crescere al passo del 6 o 7 per cento annuo. Tramontata l’era delle tigri asiatiche si annuncia l’era dei leoni africani.

Secondo l’FMI il Ghana nel 2012 crescerà del 13,5 per cento, il Niger del 12,5, l’Angola del 10.5. Un buon numero di altri paesi, tra di essi il Kenya, si attesteranno intorno al 7 per cento di crescita annua. Senza considerare la Sierra Leone per la quale ci si aspetta un balzo di oltre il 51 per cento! Mediamente la crescita economica del continente sarà intorno al 6 per cento. Emblematico il caso dell’Angola, che sta trattando col Portogallo, tendendo una mano per soccorrere l’ex-potenza coloniale.Il settimanale inglese Economist, un’autorità nel suo campo, lo scorso dicembre ha dedicato un intero numero alla crescita economica africana e all’ancora più alto potenziale per il prossimo futuro

Come si conciliano queste due visioni cosi contrastanti? I luoghi comuni, i pregiudizi, sono duri a morire, ma ciò non può essere sufficiente a spiegare un tale divario tra percezione e realtà.
Forse la spiegazione più semplice e più vera è che entrambe le immagini dell’Africa, quella di un contenitore di problemi immani o di potenziale leone economico, sono vere. In Africa sta avvenendo velocità accelerata ciò che avviene in tutto il mondo e che Paolo VI denunciava già quasi 40 anni fa “i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”.

Secondo i calcoli del gruppo finanziario Credit Suisse la metà più povera della popolazione adulta globale è proprietaria solo dell’1% della ricchezza globale. Un totale di 3.051 milioni di adulti, pari al 67,6% della popolazione adulta globale, possiede appena il 3,3% della ricchezza. Al contrario, il 10% più ricco dispone dell’84% della ricchezza globale, l’1% più ricco possiede il 44% e lo 0,5% più ricco il 38,5%.
La crisi economica ha solo esaltato questa tendenza alla concentrazione di elevate proporzioni della ricchezza nelle mani di una piccola minoranza. Le imprese Capgemini e Merrill Lynch Wealth Management hanno pubblicato nel 2010 un rapporto sulla situazione dei ricchi del mondo, dove si legge che il numero totale di individui con redditi elevati nel mondo è cresciuto di un 17.1% nel 2009, malgrado vi sia stata una contrazione globale dell’economia di un 2%. La ricchezza totale di questi individui si è incrementata del 18.9%.

A Nairobi la coesistenza di due economie parallele è sempre più visibile, almeno per chi ha ancora gli occhi per vedere. Opulenza, sviluppo tecnologico, mass media sofisticati sono accessibili al 20 per cento della popolazione, mentre un altro 60 per cento vive in situazione di gravissimo degrado. Il 20 per cento che vive nell’area intermedia si assottiglia sempre più, man mano che chi vi appartiene riesce salire al livello superiore o viene riassorbito dalla povertà. La stessa situazione si ripropone a livello nazionale: la siccità che lo scorso anno ha provocato carestia e morte nel nord-est del paese è stata vissuta a Nairobi da una consistente parte delle popolazione non per quello che era – cioè un problema nazionale di ridistribuzione delle risorse e di giustizia – ma come un evento mediatico, che ha dato occasione alle grandi compagnie di sfoggiare i loro programmi di “corporate responsibility”.

Allora, cosa dobbiamo fare? Rifiutiamo di aiutare chi potrebbe essere aiutato dai suoi connazionali? Chiudiamo l’epoca degli aiuti per aprire quella degli scambi commerciali? Lasciamo che siano le multinazionali a lavorare per la giustizia con i loro programmi di responsabilità sociale? Ci arrendiamo a che il nostro livello di progresso sia stabilito dell’indice di crescita economica? Accettiamo che i nuovi equilibri mondiali vengano stabiliti da chi ha più armi ed è più prepotente? Meglio ancora, ci garantiamo di essere nel gruppo dei ricchi, lasciando perdere i poveri? Che imparino ad arrangiarsi da soli se non sono capaci di competere nella scalata sociale!
Nella tradizione sociale cristiana esistono principi che si chiamano bene comune, responsabilità, giustizia e solidarietà, tanto per citarne alcuni. Sono principi che per loro dinamica chiedono di essere applicati su scala globale.
Negli ultimi anni invece abbiamo visto che con la globalizzazione e i nuovi mezzi di comunicazione aumenta e diventa sempre più visibile l’interdipendenza, ma non sembrano aumentare ne il senso di responsabilità globale, ne la solidarietà ne la giustizia.
Il piccolo contributo, in Africa come in Europa, che noi possiamo offrire è la pratica e l’insegnamento della giustizia e della solidarietà. Senza stancarci, senza imporci, senza violenze di nessun tipo. Con perseveranza e rispetto. Adagio adagio scopriremo insieme nuove vie per imparare ad essere una sola umanità.

Nairobi. Dawn

Felicità – Happiness

Scritto per World Mission, Manila, Filippine

La costituzione americana si apre con un altisonante dichiarazione di diritto alla felicità. Nella vita quotidiana questa ricerca, in America come in tutti i paesi occidentali, si riduce per molte persone all’accumulo di cose – che siano soldi, gadget elettronici, rombanti auto. L’idea che essere felici coincida con avere molte cose è diventata parte della cultura moderna. Se e quando la felicità mantiene la sua qualità immateriale, diventa “fun”, divertimento. “Have fun” si augura in America a chi va a partecipare ad una festa, ma anche a chi va a un concerto, o a una conferenza o a fare acquisti. Sembra che la vita senza divertimento non sia più vita. Ma la felicità è sinonimo di accumulo e di divertimento?

In contrasto all’ “have fun” americano ci sono le mille quotidiane storie di disperazione. Un segno è che nel sempre più ricco mondo occidentale il numero dei suicidi continua a crescere. Sembra che la crescita del benessere materiale vada di pari passo con un aumento dell’ infelicità, delle malattie della mente – ma soprattutto di quelle dell’anima, come la depressione – e del disperato tentativo di comperarsi la felicità con le droghe, i festini, l’abbigliamento firmato, e tutti i segni esterni dell’apparenza delle felicità. Mi diceva recentemente un amico che vive in Francia “ogni tanto vado per curiosità nei luoghi di divertimento frequentati da mio figlio ventenne, magari con la scusa di offrirgli un passaggio per rientrare a casa. Nel ritorno mi sento sempre angosciato, con la sensazione di aver incontrato mille disperati, mille infelici che credono di divertirsi facendo chiasso tutti insieme e imbottendosi di alcool e altre droghe. Vado in crisi e mi domando se mio figlio va in quei posti solo perché sono di moda i se non ci vada perché non ha mai conosciuto la felicità interiore che in una persona adulta nasce dalla coerenza con le proprie scelte, dall’aver rispettato i proprio valori. E’ un immaturo o una persona senza ideali?”.

Qualche tempo fa, una domenica mattina nella chiesetta di Tubalange, alla periferia di Lusaka. Piccole, povere case di contadini, per lo più costruite in fango e lamiere zincate. Terra rossa, campi ormai secchi dopo che le ultime pannocchie di mais sono state raccolte, Un gruppo di visitatori italiani partecipa alla Messa. Prima della benedizione finale il laico responsabile della comunità mi chiede di presentarli. Poi tutti si mettono in fila per dare personalmente il benvenuto e stringere la mano. Poi qualcuno accenna un ritmo col tamburo, altri si uniscono battendo le mani. Incomincia un canto. Poi un altro e un altro ancora, e entro pochi minuti la piccola comunità di un centinaio di persone canta e balla, le donne ululano di gioia, e gli ospiti sono completamente coinvolti ed esilarati. Dopo la benedizione finale uno degli ospiti mi dice: “Questa è stata la festa più spontanea e più sentita cui abbia mai partecipato. Una cosa cosi non la si improvvisa, può essere solo l’espressione di una felicità che questa gente ha nel profondo del cuore!”.

Qual’è dunque il segreto della felicità? Secondo i filosofi la felicità consiste nella piena realizzazione di se stessi, non può stare nelle cose che possediamo e nei riconoscimenti che riceviamo dagli altri, come prestigio, soddisfazioni, potere. Ma per realizzarci non dobbiamo desiderare ciò che è irraggiungibile, non compatibile con la nostra situazione presente. Oppure evadiamo dal mondo aspirando ad una felicità che può esistere solo un in altro mondo, che è irraggiungibile qui ed ora, come ci propone una certa visione cristiana spiritualista ed oltremondana. O, ancora, possiamo essere felici solo quando raggiungiamo la razionale consapevolezza della nostra situazione esistenziale e controlliamo i desideri, non ne formuliamo di irrealizzabili. Allora si è felici anche quando si è poveri e non si possono comperare medicinali per il figlio malato, perché razionalmente si sa che non si può fare di più.

Ma tutti questi sembrano più che altro modi per evitare la delusione e non precipitare nell’infelicità, piuttosto che una strada per essere felici. Sono una rinuncia a priori, e chi si comporta cosi diventa un cinico che rischia di non sperimentare mai la felicità.

Gitau è un ex bambino di strada di forse dieci anni, con alle spalle una desolante storia di abbandono. Eppure basta anche solo guardarlo con affetto perché il volto si apra ad un sorriso che è l’icona dell felicità. Gitau ha già sperimentato tutte le possibile delusioni del mondo, quelle più drammatiche, l’abbandono della mamma, il tradimento degli amici, e conosce tutti i possibili modi per giocare d’anticipo contro la delusione. Ma Gitau sa di essere una storia dentro una storia più grande, in comunione con le tante storie che ha intorno. Forse, e credo che non sia un’esagerazione attribuirgli certi pensieri anche se Gitau ha appena incominciato a studiare il catechismo per diventare cristiano, ha già capito la visione di Gesù nel discorso della montagna “Beati voi, felici voi….” perché in tutto vedete e respirate la presenza di Dio, e non perdete mai la speranza, anzi la certezza, che Dio e il Suo Amore vinceranno.

Credere nella promesse del Regno dei cieli significa vivere in pienezza già qui, in attesa di una dimensione diversa. Non significa illudersi con ciò che è razionalmente impossibile, ma solo negare la disperazione alimentata dai cultori dei deserti dell’anima. Tanto meno significa negare la felicità terrena in attesa delle felicità futura, ma vedere nel buono e nel bello che c’è qui una bagliore dell’eternità. Felicità è vivere il fatto che la nostra piccola vita e storia ha senso solo all’interno della grande storia della salvezza.

Gitau lo sa. Mi si avvicina e mi dice “Padre, hai tempo per giocare con me?”.La felicità è un dono che solo gli altri, o l’Altro, possono farti. Gitau, cercandola, me la dona.

Referendum

Mercoledì 4 agosto i keniani potranno votare in un referendum pro o contro una nuova costituzione. Il processo per la revisione della costituzione è iniziato quasi vent’anni fa, ed è importante che si arrivi ad una migliore distribuzione dei poteri, che nelle presente costituzione sono concentrati nel Presidente.
Già nel 2005 c’è stato un referendum e la costituzione proposta non era molto diversa da quella proposta adesso. Ma allora Mwai Kibaki, il Presidente, e Raila Odinga, attuale Primo Ministro, erano ai ferri corti perché Odinga voleva far pagare a Kibaki il non aver mantenuto la promessa di creare il posto di Primo Ministro, pensato solo per lui, dopo le elezioni del 2002. La proposta del 2005 fu bocciata, e i due andarono alle elezioni del 2008 l’un contro l’altro armati, letteralmente, causando la disastrosa violenza post-elettorale, con oltre mille morti documentati. Poi venne elaborata una proposta che prevedeva la presenza di un primo ministro, ed era estremamente farraginosa nel tentare di attribuire le competenze ad un esecutivo diviso in due. Tale era la proposta fino a pochi mesi fa. Poi i due hanno capito che conveniva ad entrambi accordarsi. A Kibaki per lasciare comunque un’eredità storica positiva, visto che non potrà essere rieletto per la terza volta, e a Odinga perché finalmente il sogno della sua vita di diventare Presidente del Kenya sembra a portata di mano, e quindi non gli interessa più una costituzione che preveda la figura del Primo Ministro.
Una serie di consultazione frenetiche, più o meno manovrate anche dalla “comunità internazionale”, hanno quindi portato a che i due protagonisti di questa vicenda si accordassero per interposti partiti, a cambiamenti sostanziali, come appunto la cancellazione del posto di Primo Ministro, a quella che ci era stato fatto credere fosse una costituzione frutto di una consultazione popolare.
Fra gli elementi nuovi che sono entrati c’è una cauta apertura all’aborto e l’accettazione dei tribunali islamici (Kadhi) da estendere a tutto il territorio del Kenya. Le corti Kadhi nella costituzione vigente erano ammesse solo sulla costa, per una striscia di 30 chilometri, ed erano state pensate al momento dell’indipendenza, come un compromesso, che sarebbe sparito nel tempo, per convincere le popolazione islamiche della costa di far parte del nascente paese.
Per aggravare la cosa, all’ultimo momento, nella notte prima che la nuova versione ufficiale della nuova costituzione venisse stampata, qualcuno ha inserito due paroline nel capitolo sui diritti umani che di fatto li limitano se ci fosse in gico la sicurezza nazionale. Investigazioni sono in corso, ma ancora nessun responsabile è stato trovato. Così questa bozza costituzionale che è stata ritoccata da un ignoto tipografo è quella che sarà sottoposta a referendum.
I leaders cristiani del Kenya l’altro ieri hanno firmato una dichiarazione (la metto integralmente nella versione inglese di questo stesso post) sottolineando che per molti aspetti la nuova proposta è migliore rispetto alla costituzione vigente, ma chiedendo ai cittadini di votare contro perché la nuova proposta non salvaguardia la sacralità della vita umana, l’educazione morale dai giovani e il principio dell’uguaglianza religiosa. Contemporaneamente invitano alla pace e comunque ad accettare il risultato.
Che la posizione dei leader religiosi cristiani, vescovi cattolici inclusi, sia discutibile è fuori di dubbio, ma è pure fuori di dubbio che sarebbe bastato un po di buona volontà da parte di tutti per arrivare ad una proposta costituzionale che avrebbe messo d’accordo almeno il 90 per cento dei keniani. Invece adesso si va al voto col rischio che la nuova costituzione passi, e che passerà mi sembra certo, con un margine di voti poco convincente, intorno al 60 per cento. Che per una nuova carta per cui ci si è battuti per vent’anni non è una gran bella cosa.
Un altro elemento causa di grande tensione è la pessima compagnia in cui si ritrovano i leader religiosi: l’ex-Presidente Daniel Arap Moi e William Ruto. Per ragioni diverse da quelle dei leader cristiani, sostanzialmente per evitare che i latifondi di cui si sono impadroniti in passato vengano rimessi in discussione, entrambi sono contrari alla nuova proposta, ma non hanno proprio nessuna credibilità e autorità morale. Si fanno forti solo del supporto della loro etnia. Il primo ha gestito il paese come un dittatore per 24 anni, arraffando tutto ciò che c’era a disposizione, incluso una bella parte dei migliore terreni del Kenya. Inoltre alimentando la corruzione è arrivato a controllare un buon quarto dell’economia del paese. Il secondo è notoriamente fra i principali indiziati come responsabile delle violenze post-elettorali del 2008.
La tensione fra i Verdi (il colore assegnato dalla commissione elettorale al Si) e i Rossi (il colore del No) è grande. Ci sono stati già alcuni morti fra le vittime di due bombe rudimentali esplose durante una manifestazione per il No, e un vescovo di un piccola chiesa protestante è stato ucciso sembra in connessione con una sua focosa omelia per il No.
Un buon segno per Nairobi è che Kibera, negli ultimi decenni il focolaio di ogni violenza esplosa in città, è tranquilla. Tutti sembrano d’accordo per votare Si. La maggioranza perché Luo sostenitori di Raila, più i Kikuyu sostenitori di Kibaki e i musulmani, i cosiddetti Nuba che hanno fatto delle corti Kadhi una questione di principio. Quindi non ci dovrebbero essere ragioni di conflitto.
Kivuli, a Riruta Satellite, sarà sede elettorale. Anche qui non ci aspettiamo problemi, come non ne abbiamo avuti nel 2008, anche se è vero che sia a Kibera come a Riruta o qualsiasi altro quartiere di Nairobi basta che qualcuno paghi 3 euro al giorno ad un centinaio di giovani disperati per innescare il caos.
La possibilità di violenza per una vittoria del Si invece è molto concreta nella Rift Valley, che è il feudo di Moi e di Ruto.
Chiunque vinca, è inutile illuderci, siamo in un tempo di crisi. La crisi economica internazionale, i cambiamenti sociali; il venir meno della tradizione; le pesanti interferenze degli americani, i quali se sono riusciti a dimostrare qualcosa negli ultimi venti anni è che dell’Africa non capiscono niente, causando, dove sono intervenuti come in Somalia e Congo, solo disastri peggiori di quelli che erano in corso. I keniani sono stanchi e sfiduciati, hanno ascoltato troppe grandi promesse non mantenute, si sentono incapaci di cambiare il loro paese, vittime piuttosto che cittadini partecipi. Sentono dire che sono solo il primo esperimento di un programma americano che intende imporre a tutti i paesi “amici” una costituzione sul modello keniano.
In questa situazione c’è il pericolo di seguire sogni e illusioni senza nessuna consistenza, solo perché un leader che sa parlare bene li fa balenare davanti. Gli uomini politici keniani hanno un’abilità straordinaria, mi vien quasi da dire diabolica, a sfruttare le fragilità della loro gente. I piazzisti di sogni vedono un futuro radioso, sopratutto per se stessi.
Noi cristiani abbiamo fatto dire a Dio tante cose diverse, e anche noi abbiamo seminato illusioni, quindi dobbiamo essere umili e stare coi piedi in terra, favorendo i migliorami possibili, invece di sognare la perfezione.
Io continuo a credere che la desacralizzazione di tutti i poteri, anche quello della chiesa, che ci ha insegnato Gesù e la forza del suo Spirito, ci hanno avviato su una strada di umanizzazione che non possiamo più abbandonare, anche se le tentazioni sono tante. Ci muoviamo verso una creazione nuova, verso una rivoluzione interiore che deve concretizzarsi in lavoro quotidiano per la giustizia a le pace, vita offerta, sangue, storia. Se leggo le dichiarazioni dei politici e dei leader religiosi magari mi cascano le braccia, ma se guardo i ragazzi e le ragazze di Kivuli, Anita’s Home, Tone la Maji, e tutti gli altri allora credo che anche in Kenya sia possibile andare avanti anche dopo il 4 agosto.

Perché non dar loro i soldi? – Why not just give them money?

Come aiutare i poveri di tutto il mondo, oltre un miliardo, a superare la loro situazione? E’ una domanda difficile e probabilmente impostata male. Solo per reimpostare adeguatamente la questione bisognerebbe scrivere qualche libro. Ma gli economisti tentano di rispondere, e ci sono recenti libri di successo che affrontano questo argomento, con autori come il Premio Nobel Mohamed Yunus, la zambiana Dambisa Moyo e il canadese Paul Collier.
Un nuovo contributo viene da Joseph Hanlon, Armando Barrientos e David Hulme con un libro che finora è solo in inglese: “Just Give Money to the Poor: The Development Revolution from the South”.
Ne ho trovato la presentazione in AfricaFocus Bulettin, un servizio indipendente, gratuito e straordinariamente utile per chi è interessato a temi africani, che cataloga e ri-pubblica articoli, commenti e analisi che provengono dal mondo anglofono. Sono centinaia alla settimana, purtroppo solo in inglese. Fino a qualche anno fa i Padri Bianchi facevano un lavoro simile anche per il francese. Non credo esista niente del genere in italiano.
Ho fatto una traduzione libera e creativa della nota di presentazione dell’editore di AfricaFocus, William Minter, e dell’introduzione al libro.
Potete trovare la versione originale a http://www.africafocus.org/docs10/pov1006.php
Inoltre una versione quasi integrale del libro è disponibile su Google Books: http://books.google.com/books?id=M2WWHIzQON0C

La nota di William Minter
Parlando di povertà lo scorso mese con un giornalista del Washington Post, gli alunni di quinta elementare di un scuola a Southeast Washington (la percentuale di poveri a Washington è del 32 percento) hanno proposto la soluzione più ovvia: “Perche non dal loro i soldi?” (Washington Post, 11 maggio)). Esperti trovano facile respingere e anche ridicolizzare questa proposta di semplice buon senso, preferendo soluzioni magiche teorie sulla ricchezza da dall’alto lentamente raggiunge i più poveri, o elaborati programmi economici di aggiustamento strutturale. Ma questo nuovo libro propone ci matte davanti all’evidenza che probabilmente gli alunni di quinta hanno ragione.

Titolo del libro: Just give money to the poor – the development revolution from the South

Dall’introduzione

“Cuocio al forno 100 panini ogni giorno e li vendo per un dollaro Namibiano l’uno, con un profitto di circa N$ 400 (40 euro) al mese” dice Frieda Nembayai. Fa questa attività dal 2008, quando ha incominciato a ricevere un supporto regolare di N$ 100 (10 euro) al mese, e per la prima volta in vita ha avuto abbastanza soldi per comperare farina e carbonella. Nel vicino Sud Africa, i giovani adulti che vivono in famiglie dove un anziano riceve una pur piccola pensione, hanno più probabilità degli altri coetanei di trovare o di crearsi un lavoro, perché possono lasciare i figli con la persona più anziana che provvede alla cura dei bambini, e loro si dedicano ad un’attività economica.
Queste storie vere indicano una nuova strada per lo sviluppo, che sta prendendo piede nel Sud del Mondo. Invece di mantenere la gigantesca macchina internazionale che cerca di trovare modi per “aiutare i poveri”, è molto meglio dare i soldi direttamente ai poveri, i quali riescono poi a trovare modi efficaci per liberarsi della povertà. E indicano un realtà del mondo in via di sviluppo che è poco capita: il problema maggiore di coloro che sono al di sotto del livello di povertà è la completa mancanza di soldi in contanti. Molti hanno cosi pochi contanti che non possono permettersi neanche una cifra minima per migliorare la qualità del cibo, o mandari i figli a scuola, o mettersi in giro per cercare un lavoro.
Questo libro attinge ad un crescente numero di studi che sottolineano il potenziale e il limite dei trasferimenti in contanti per trasformare la vita delle persone che vivono in povertà. C’è già un forte consenso che molti programmi di trasferimento di soldi in contanti sono stati un buon successo nei paesi già sviluppati, e questo ha spinto una trentina di paesi in via di sviluppo sperimentare nel dare soldi direttamente alla gente, con programmi di “cash transfer”.
Da questi studi emergono quattro conclusioni: questi programmi sono poco costosi, i beneficiari usano i soldi ben e non li sciupano, le donazioni in contanti sono un modo efficiente per ridurre la povertà, e inoltre possono potenzialmente ridurre la povertà futura perché promuovono la crescita economica e lo sviluppo umano. Due area restano comunque al centro di un intenso dibattito: l’obiettivo (le persone che si vogliono raggiungere) e le condizioni . Si dovrebbero dare piccole somme a tante persone o somme più consistenti a pochi? Si devono mettere delle condizioni precise ai beneficiari, come per esempio mandare i loro figli a scuola o contribuire con il loro lavoro a attività sociali? Restano evidentemente delle aree da chiarire per il finanziamento e la messa in opera di questi programmi, specialmente nei paesi pù poveri. e senza dubbio i programmi di cash transfer sono ancora oggetto di controversie e dibatitti, e alcuni restano scettici sulla loro capacità di ridurre ala povertà a lungo termine. Anche questi temi sono discussi nel libro.
Un nuovo modo di pensare
All’inizio si pensava che i cash transfer o donazioni sociali potessero essere solo un lusso per paesi relativamente ricchi. I paesi poveri “non possono permettersi” di dare soldi alle loro fasce più povere, perché troppi cittadini hanno un reddito troppo basso, e quindi bisognerebbe aspettare che la crescita economica li rendesse più “moderni” prima di poter applicare questo “diritto”. In secondo luogo, questo diritto non distingue fra chi se lo merita e chi non, e i ricchi e potenti sono sempre convinti che i poveri sono sempre almeno parzialmente responsabili della loro povertà e quindi non si meritano un sostegno economico. I poveri devono sempre essere guidati o perfino obbligati ad agire per il miglior interesse dei loro figli.
Negli ultimi dieci anni, entrambe queste opinioni state contestate da parte dei paesi in via di sviluppo. Al contrario, sostengono che “non possono NON permettersi” di non dare soldi ai loro cittadini più poveri. Non solo questa pratica è conveniente, spesso è molto più efficiente dei sistemi tradizionali di promossi dalle agenzie di aiuti internazionali e dalle agenzie finanziarie. Essi sostengono che le persone che vivono in condizioni di povertà sanno come usare i soldi. E con questa pratica la responsabilità per sradicare la povertà, come la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo implica, è diventa veramente responsabilità di tutti.
Questa è una sfida importante ad un’industria dell’aiuto allo sviluppo costruita nello scorso mezzo secolo nella convinzione che lo sviluppo e l’eradicazione della povertà dipendevano esclusivamente da ciò che le agenzie internazionali e i consulenti poteva fare per i poveri, senza mai considerare ciò che i cittadini dei paesi in via di sviluppo, e degli stessi paesi tra di loro, potrebbe fare per se stessi. I ricercatori sono rimasti sorpresi di scoprire che, nel complesso, le famiglie con pochi soldi hanno affinato le loro capacità di sopravvivenza di generazione in generazione e sanno usare un po di soldi extra con saggezza e creatività – senza che sia necessario un esercito di soccorritori che come professione insegnano ai poveri come migliorare se stessi.
La ricerca sui trasferimenti di denaro mostra due importanti differenze tra i relativamente poveri e relativamente ricchi. Le persone più povere spendono di più per prodotti alimentari e le merci prodotte localmente, mentre i più abbienti comprano più merci importate, cosi che qualsiasi trasferimento dal ricco al povero stimola l’economia nazionale e locale. In secondo luogo, le persone più povere sono molto più propense a usare piccole somme di denaro per aumentare il reddito – investendo nella loro azienda agricola, nel piccolo commercio, o per la ricerca di un lavoro. In questo modo il contante distribuito diventa un fattore esplicito di sviluppo.
Il fallimento della campagna Make Poverty History
Il numero di persone che vivono in condizioni di povertà cronica è in aumento. Coloro che hanno fatto la campagna nel 2005 per fare “Poverty History” si chiedono che cosa è andato storto. Due libri famosi, Dead Aid: Perché gli aiuti non funzionano di Dambisa Moyo e L’Ultimo Miliarso di Paul Collier sostengono che gli aiuto hanno fallito e sostanzialmente affermano che tale fallimento è in gran parte colpa paesi poveri per uso improprio del denaro.
Gli aiuti non hanno fallito. Il fallimento è quello di un’industria anti-povertà che vive sulla complessità e mistificazione del problema, con consulenti profumatamente pagati per la fabbricazione di progetti sempre più complicati “per i poveri” e che continua a fissare le condizioni politiche per i paesi “che vengono aiutati”. Questo libro offre l’alternativa del Sud – dare i soldi direttamente a coloro che hanno meno ma che sanno fare il miglior uso di essi. I trasferimenti di denaro non sono beneficenza o filantropia, ma piuttosto investimenti che permettono alle persone povere di prendere il controllo del loro sviluppo e di eliminare la povertà. Così, questo libro è una sfida diretta a Moyo, Collier e gran parte dell’attuale teoria a pratica degli aiuti internazionali.

Fundamentalism and Gospel Cannot Coexist

Waiting for the Second Synod for Africa

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