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June, 2013:

La delusione Obama

I miei amici kenyani sono profondamente delusi, anche se preferiscono non darlo a vedere. Il presidente degli Stati Uniti d’America ha iniziato ieri la sua seconda visita in Africa, e anche questa volta si guarderà bene dal mettere piede in Kenya, il paese di suo padre. Per rendere ancora peggiore lo smacco, si recherà in visita alla vicina Tanzania.

L’elezione di Obama aveva suscitato un’enorme euforia in Kenya perché da senatore prima e da candidato in campagna elettorale poi, aveva esaltato la sua origine kenyana e il suo attaccamento alla memoria del papà. Fresco di nomina al senato degli Stati Uniti, Barack Obama aveva proclamato in un gremito auditorium di Nairobi: «Voglio che tutti voi sappiate che come vostro alleato, vostro amico e vostro fratello, sarò sempre con voi». Non sorprende quindi che tanti kenyani, in quel novembre 2008, si fossero convinti che un kenyano (“one of our sons” uno dei nostri figli, dicevano) fosse diventato presidente degli Stati Uniti. Si farneticava sulle facilitazioni che sarebbero state introdotte per i kenyani desiderosi di acquisire la cittadinanza americana, e non mancarono nemmeno i pronostici sulla possibilità che il Kenya potesse diventare… il cinquantunesimo stato degli Stati Uniti d’America! Raila Odinga, allora prima ministro, si era affrettato a far sapere di essere cugino di Obama, negandolo solo in un secondo momento, probabilmente su cortese invito dell’ambasciata americana in Kenya, che non desiderava proprio che Obama si ritrovasse con un cugino potenzialmente indiziato di crimini contro l’umanità. Erano già sufficientemente imbarazzanti i fratellastri alcolizzati e senza fissa dimora!

Ma non erano solo i kenyani a sperare che stesse per iniziare una nuova era. Imprese internazionali erano pronte a partecipare a bandi di gara per nuovi progetti. Io stesso ero stato avvicinato da un paio di imprese che, credendomi in contatto con potentati locali, mi proponevano di facilitare il loro inserimento nel mercato in vista di lucrosi contratti che, si diceva, sarebbero stati certamente finanziati da Obama. E si sognava la riabilitazione di tutti gli ospedali e delle scuole superiori statali del Kenya. Sarebbero stati necessari apparecchiature mediche e laboratori di fisica, chimica e di informatica.

Come tutti sanno, nulla di tutto questo è ovviamente successo. Obama non solo non si è lasciato intrappolare dalla sua origine etnica, ma per il Kenya, e per l’Africa tutta, ha fatto ancor meno del poco dei suoi immediati predecessori. I successi di cui si può vantare, all’inizio di questo suo secondo viaggio in Africa da presidente degli USA – dal 26 giugno al 3 luglio, toccando Senegal, Sudafrica e Tanzania – non sono molti. Anzi, gli aiuti americani all’Africa che col presidente George W. Bush erano schizzati in alto da 1.1 miliardi di dollari del 2006 agli 8.2 del 2009, sono scesi ai 6.9 del 2011. E poi, le iniziative per promuovere sicurezza alimentare e salute e per contrastare i cambiamenti climatici sono passate in seconda linea rispetto all’impegno per la sicurezza e le operazioni militari. La presenza americana, a volte problematicamente indecisa, è stata molto più visibile sui campi di battaglia, con il lancio di missili, ma anche l’invio di militari kenyani ed etiopici all’assolto della Somalia, con il sostegno ai ribelli libici contro Muammar Gaddafi, la spesa di milioni di dollari per addestrare gli eserciti africani a combattere gli estremisti islamici e la costruzione di una base per i drone nel deserto del Niger. Ttto questo mentre altri paesi come India e Brasile, ma sopratutto la Cina, hanno enormemente accresciuto i loro investimenti e gli scambi commerciali con l’Africa.

Questo viaggio intende forse spostare l’accento. Ma lo scarso entusiasmo con cui Obama è stato accolto lascia immaginare che non ci riuscirà. Senza contare il rischio enorme rappresentato dalla possibilità che Nelson Mandela venga a mancare proprio durante la visita di Obama in Sudafrica. Il che non solo farebbe passare la visita assolutamente in secondo piano, ma potrebbe richiedere addirittura che l’agenda del presidente venga completamente modificata. In Africa, infatti, si partecipa al lutto ed è inimmaginabile che si abbandoni la famiglia in difficoltà per andarsene ad altri impegni. Sarebbe uno sgarbo imperdonabile.

Per i kenyani la realizzazione che Obama non è “one of our sons” che solo per caso è nato in America, è avvenuto durante il suo primo viaggio in Africa, di sole 20 ore, in Ghana, nel 2009. Ogni passaggio del discorso che pronunciò in quell’occasione, lodando i progressi di quel paese, sembrava essere stato scritto apposta per denunciare i corrispondenti fallimenti del Kenya.

Oggi i segnali che Obama è ormai un personaggio distante e poco amato non mancano. Pochi giorni fa l’editoriale del più importante quotidiano kenyano ammetteva malinconicamente che, dopotutto Obama, «è il presidente degli Stati Uniti che è in visita in Africa, non un kenyano moralmente obbligato a ritornare a casa”. In realtà, nonostante alcune analisi apparentemente distaccate e neutrali sull’inizio del secondo mandato di Obama, per molti kenyani si tratta di poco meno di un traditore.

Il senatore Barak Obama in visita a Kibera, Nairobi, nel 2006.

Parliamo di Pace

La pubblicazione lo scorso 11 giungo del Global Peace Index (Gpi, indice globale di pace) è l’ultima autorevole constatazione che l’Africa sub-sahariana non ha più il primato delle guerre, del sottosviluppo e dell’instabilità politica. Ci vorranno molti anni perché questo cambiamento venga registrato dall’opinione pubblica internazionale, sopratutto in Italia dove le notizie sull’Africa sono cosi scarse ed approssimative, ma ormai è un fatto assodato. Di Gpi si parlerà il prossimo 26 giugno all’università Cattolica di Milano, con la partecipazione di oltre settanta studiosi di fama mondiale, alcuni dei quali sono stati fra gli iniziatori del Gpi, che viene ormai pubblicato annualmente dal 2007. Secondi i dati che saranno commentati a Milano, l’Africa sub-sahariana nel suo insieme ha un indice di pace più alto che non il Medio Oriente, il Nord Africa, l’ Asia meridionale, la Russia e l’Eurasia

E’ difficile misurare la pace. La pace ha dimensioni interiori, individuali e collettive, che sfuggono a misurazioni quantitative. Fra gli indici che il Gpi usa per misurare le pace c’è la percentuale di carcerati sulla popolazione totale. Un carcerato come lo è stato Nelson Mandela è un segno negativo o una grande speranza di pace per il futuro? Il cuore è in pace quando ci sono determinate condizioni esterne, o la pace nasce dal cuore? Veramente, la dimensione spirituale della pace sembra impossibile da catturare. Comunque l’uomo moderno vuole misurare tutto e ci prova anche con la pace. Lo sforzo è encomiabile. Per arrivare ai risultati della ricerca, l’Institute for Economics and Peace – un’istituzione nata in Australia, a Sidney, per iniziativa di Steve Killelea che sarà presente e Milano – esamina 158 paesi in base a 23 criteri fondamentali. Tali criteri comprendono la partecipazione a conflitti internazionali, il livello dei conflitti interni, di criminalità violenta, il numerico di carcerati, il rispetto dei diritti umani, le spese militari ecc.

In parte, il risultato positivo per l’Africa sub-sahariana commentano gli estensori del rapporto, riflette l’aumento della prosperità economica in tutta la regione, dove la crescita ha superato quello di ogni altra regione del mondo nel corso degli ultimi due anni, e, ironia della sorte, la tradizionale emarginazione dell’Africa dall’economia globale ha aiutato ad isolarla dall’impatto della crisi finanziaria globale.

Tuttavia “è chiaro che rischi possono sorgere dove c’è la percezione pubblica che i vantaggi di una rapida crescita economica nazionale non sono equamente condivisi. Per esempio, l’abbassamento in graduatoria del Burkina Faso è dovuto all’aumento della probabilità di manifestazioni violente, del numero di omicidi e di crimini violenti. La rabbia dell’opinione pubblica per l’alto costo dei vita e l’inadeguatezza dei servizi statali, nonostante forte crescita economica globale, ha già portato a un’ondata di violente proteste e scioperi, e il potenziale per ulteriori disordini rimane alto”.

“Frustrazione per l’ingiusta divisione dei profitti può anche portare a un aumento dei crimini violenti, o la percezione degli stessi, come emerge in Repubblica Centrafricana (CAR), Gambia, Mozambico, Niger, Tanzania e Togo.”

“Ciò che un certo numero di questi stati hanno pure in comune è l’aumento della longevità politica dei loro leader. Leader che sono al potere troppo a lungo sono spesso accompagnati da una marginalizzazione dei partiti di opposizione. Privata della possibilità di cambiare attraverso le urne, la popolazione cercherà il cambiamento con mezzi più violenti, come è stato nel caso del CAR”.

“Gli altri stati che hanno notevolmente contribuito alla posizione in classifica di questa regione dimostrano come i conflitti abbiano un impatto duraturo: La posizione della Costa d’Avorio nel 2013 è stata condizionata da un’ondata di violenze nella seconda metà del 2012, con una serie di attacchi nel sud del paese di cui il governo ha accusato le forze fedeli all’ex presidente, Laurent Gbagbo. La Repubblica Democratica del Congo continua ad essere colpita da un conflitto armato nelle province orientali del paese, che a sua volta è alimentato da un ampio spostamenti della popolazione che dura da decenni, come pure dalla una mancanza di controllo del governo centrale, dalla competizione per il controllo delle vaste risorse naturali della regione, e dalle tensioni tra le diverse comunità e gruppi etnici. La posizione in classifica del Sudan è il riflesso delle tensioni di lunga data che ha portato alla secessione del Sud Sudan nel luglio 2011. Questo non ha risolto i problemi nell’area confinante che il nuovo stato del Sud Sudan, mentre la Somalia non ha veramente recuperato sin dall’inizio del conflitto civile nei primi anni novanta.”

Che l’ingiusta divisone delle risorse e dei profitti, la concentrazione di potere politico in poche mani aumentino la possibilità di conflitto e che per superare conflitti lunghi e sanguinosi come quello del Congo ci voglia molto tempo non sono cose nuove, e qualche scettico potrebbe dubitare dell’utilità di simili ricerche e del Cpi. Ma la pace è cosi importante che non possiamo permetterci di non usare tutti gli strumenti possibili per capire come farla crescere.

Gesù? E’ in Danimarca.

Una sera a Nairobi, intorno al grande tavolo di Kivuli, c’erano alcuni dei nostri acrobati adulti e numerosi ospiti: si trattava di una ventina di persone, appartenenti ad un’associazione danese che propone attività circensi a scopi educativi. Dopo minestrone e frittata con contorno di sukuma wiki, ci stavamo scambiando esperienze e ricordi, quando i danesi ci hanno chiesto come avessimo cominciato. I keniani mi hanno delegato a rispondere e a raccontare come tutti si fossero aggregati ai Nafsi Africa, il nostro gruppo acrobatico “storico”, dopo che Hector ed io li avevamo spronati. Ma Hector ormai lavora a Dubai da tempo.

Nel 1998 avevo portato i primi bambini di Kivuli in un centro culturale, il Bomas of Kenya, ad assistere ad un’esibizione di cultura tradizionale keniana; in quell’occasione avevamo visto lo spettacolo di un gruppo acrobatico che li aveva incantati. Tornati a Kivuli, insistettero per settimane che li aiutassi ad imparare i rudimenti dell’arte acrobatica. Scatenai Hector, allora mio braccio destro a Kivuli, che alla fine non trovò altra soluzione che tornare al Bomas of Kenya e arruolare due acrobati, che venissero a Kivuli a dare lezioni di acrobatica due volte alla settimana, dietro piccolo compenso. Cosi i due istruttori, con le loro lezioni, diventarono un richiamo fisso per molti dei ragazzi di Kivuli e del circondario. Entrambi erano musulmani originari della costa e uno dei due aveva un nome assolutamente inusuale in Kenya. Tempo dopo, quando ormai i bambini di Kivuli avevano fatto notevoli progressi e si era stabilita una certa familiarità, mi permisi di chiedere al giovane la ragione del suo insolito nome. Egli allora mi raccontò, con la massima serietà, anzi direi compunzione, una di quelle storie che si sentono solo in Africa.

Quando nacqui, ero tutto coperto di peli. Mia mamma, disperata, consultò dottori, sceicchi, santoni, erboristi, perfino stregoni, ricevendo suggerimenti di soluzioni, le più diverse e più strane: da preghiere che dovevano essere recitate quotidianamente a creme preparate con bizzarri ingredienti, da applicare sulla pelle del neonato. Ma i peli resistevano ad ogni trattamento. Dopo qualche mese la mamma, che mi teneva sempre avvolto in un panno, vergognandosi di quel figlio che somigliava troppo ad una scimmietta, mi portò a Mtwapa, da un anziano con fama di santone e guaritore, percorrendo quasi cinquanta chilometri a piedi, perché i soldi per l’autobus non li aveva. Il vecchio le disse che la medicina era molto semplice e non costava niente: chiama tuo figlio Jesus e vedrai che i peli, prima della prossima luna nuova, saranno tutti caduti. Jesus, all’inglese, non Issa, che è il nome di Gesù in arabo. Ogni volta che la mamma mi chiamava con quel nome, i peli diminuivano, finché sparirono del tutto.

Cosi fu che quello che sarebbe diventato il nostro bravo e simpatico istruttore musulmano perse tutti i peli. Nel 1999, Jesus e il suo collega Nelson ebbero un’offerta di lavoro a Londra, l’accettarono, prepararono i ragazzi di Kivuli alla loro prima esibizione pubblica a Nairobi sotto la supervisione di Hector, se ne andarono e da allora non li abbiamo piu visti. Ma i Nafsi Africa erano nati ed oggi i Piccoli Acrobati di Koinonia continuano la tradizione.

Mentre raccontavo, vedevo che i nostri ospiti danesi sgranavano gli occhi increduli e si facevano sempre più attenti, inducendomi a pensare che questo atteggiamento fosse dovuto alla stranezza della storia di Jesus. Si, quella era una ragione, ma ce n’era un’altra ancor più incredibile: Jesus era stato anche il loro istruttore di acrobatica! A quel punto sono stati loro a raccontarci che Jesus aveva detto di essere originario della costa del Kenya, di aver lavorato per qualche anno a Londra, con occasionali tournée in nord Europa, e di aver deciso di fermarsi in Danimarca, mettendo su una scuola di acrobatica. A loro però non aveva mai raccontato né la storia dei primi mesi della sua vita né dell’origine del suo nome e neanche dell’attività a Kivuli.

Cosi, molto africanamente il Koinonia Children Team e i Nafsi Africa hanno scoperto di avere un antenato in comune con il Circo Sociale di Alborg, e sono diventati ancor più amici.

L’ultima generazione del Koinonia Children Team al lavoro.

Una normale settimana per i Nuba

Ormai da due anni sui Monti Nuba è tornata la normalità della guerra. Il conflitto armato fra ribelli nuba che affermano il proprio diritto all’autodeterminazione, iniziato nel 1983, sospeso dal cessate il fuoco del 2002, congelato con l’accordo di pace fra Nord e Sud Sudan del 2005, è ripreso nel giungo del 2011, poco prima che il Sud Sudan proclamasse la propria indipendenza. Da allora i Monti Nuba, rimasti intrappolati nel Sudan, ma rispetto agli anni precedenti con il grosso vantaggio di un lungo confine col Sud Sudan, sono di nuovo teatro di scontri. Il territorio è in mano allo SPLA-N (Esercito di liberazione del popolo sudanese- N), confluiti con i ribelli del Darfur e del Southern Blu Nile, nel SRF (Sudan Revolutionary Front, o Fronte rivoluzionario sudanese) mentre il governo di Khartoum mantiene la supremazia aerea bombardando campi e villaggi per provocare fame e la fuga delle popolazione verso il Sud.
Si calcola che ormai del circa un milione e mezzo di nuba residenti nella zona, trecentomila siano rifugiati in Sud Sudan e altri quattrocentomila siano IDP (Internally Displaced People – sfollati – , nel gergo delle agenzie umanitarie) nel loro stesso paese. Molti di loro vivono nascosti nelle grotte sulle montagne e scendono a valle solo per coltivare i campi, sempre pronti a rifugiarsi nelle buche che hanno scavato come protezione contro i bombardamenti. Una situazione ben descritta dal documentario RAI di Enzo Nucci, Silenzio sugli Innocenti, andato in onda lo scorso settembre.
Le notizie filtrano dai Monti Nuba con grande difficoltà. Quella che segue è un’arida cronaca di bombardamenti e sofferenze che si sono succeduti in una settimana come le altre.

Il 20 maggio 2013 alle 11.15 due caccia Sukhoi del Sudan Air Force (SAF) – la forza aerea sudanese – hanno sganciato una bomba sulla città di Buram. Alle 17.20 un Antonov della SAF ha sganciato altre 5 bombe su Buram. Non sono segnalati morti o feriti.

il 21 maggio 2013 alle 11.10 un Antonov (SAF) ha sganciato 4 bombe sulla città di Buram e 2 bombe sul villaggio di Tabanya. Non sono segnalati morti o feriti. In totale, nella settimana in questione, sono state sganciate 21 bombe nella zona di Buram.

Il 22 maggio 2013 alle 11.00 due caccia Sukhoi (SAF) hanno sganciato due bombe sul villaggio di Ngorbang. Le bombe sono cadute nei campi vicini, mentre i contadini stavano seminando, ma nessuno è rimasto ferito.

Il 23 maggio 2013 alle 9.30 un Antonov (SAF) ha sganciato 5 bombe sul villaggio di Jebel Kuwa ferendo leggermente due donne che sono state portate in una vicina postazione medica per essere curate.

Il 24 maggio 2013 alle 17.00 un aereo militare sudanese ha sganciato 9 bombe appena fuori dal villaggio di Kudi. Le bombe hanno colpito due case e mandato schegge di roccia nell’aria. Una scheggia ha colpito una bambina di un anno, uccidendola sul colpo. Altre schegge hanno ferito cinque bambini nascosti nello stesso rifugio antiaereo. Nell’attacco sono rimasti feriti sette civili adulti.

Il 25 maggio 2013 alle 10.00 un Antonov (SAF) ha sganciato 3 bombe sul villaggio di Abu Hashim. Non sono segnalati morti o feriti.

Il 27 maggio le forze armate sudanesi hanno ripreso il controllo di Abu Kershola, a seguito del ritiro dalla città delle forza del SRF, che avevano preso il controllo della città lo scorso 27 aprile. Gli scontri ad Abu Kershola e villaggi circostanti hanno provocato 63.000 rifugiati, o sfollati interni (IDP Internally Displaced People, nel gergo delle agenzie umanitarie), come annunciato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA).
Save the Children Svezia ha rimesso in funzione quattro pompe a mano per fornire acqua a circa 2.000 persone nella zona di Dibeakir. Lo stesso gruppo ha anche migliorato le infrastrutture idriche a El Rahad (Nord Kordofan), dove ci sono più di 18.000 sfollati da Abu Kershola.
I ribelli SRF dopo la loro partenza dalla zona orientale del Sud Kordofan hanno fatto sapere che intendono effettuare altri attacchi nei prossimi giorni, accrescendo i timori che il conflitto in corso si estenda al resto del Nord Kordofan, alla città di Kosti e nella regione del Nilo Blu.
«La situazione della sicurezza nella zona di Abu Kershola è ancora fragile», afferma una valutazione effettuata dalla Mezzaluna Rossa sudanese. Tuttavia, circa 27.000 persone potrebbero tornare nella zona di Abu Kershola e hanno bisogno urgente di assistenza umanitaria.

Non ci sono giornalisti professionisti in tutta l’area Nuba, vasta quasi un terzo dell’Italia. C’è, che io sappia, un solo collegamento internet per via satellitare, mobile e sempre accuratamente camuffato. I tre ragazzi che lo gestiscono sono tutti ex-allievi delle scuole che Koinonia ha tenuto aperte fra i nuba fino a poco tempo fa. Uno di loro ieri, via Facebook (!) mi ha scritto: “Padre, prega per noi. Il Signore ti guidi sulla strada per tornare tra noi, e nutra il tuo cuore con la Sua pace”.

Sembrano solo fagotti abbandonati. Sono donne e bambini nuba fuggiti dalla battaglia di Abu Kershola.

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