Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

La Capanna Vuota di Hassan

Hassan ha diciannove anni, ma è piccolo e minuto per la sua età. Si muove agile su un sentiero che solo lui vede, infiltrandosi fra enormi sassi, passando attraverso stretti cunicoli che si aprono improvvisamente su squarci di paesaggio che lasciano senza fiato.

È un caldo e limpido pomeriggio. Andiamo a far visita a sua madre, vedova e cieca, fin da quando suo figlio aveva pochi mesi. Finalmente arriviamo alla nostra meta: è una casa fatta di sassi, arroccata su una terrazza naturale che guarda verso la valle di Kauda, quasi completamente nascosta da un enorme fico selvatico.

Quando si arriva sui Monti Nuba, si ha di primo acchito l’impressione di trovarsi di fronte ad una natura assolutamente selvaggia e inospitale. Ci si accorge solo dopo che in realtà i Nuba si sono inventati uno stile di vita in perfetta simbiosi con l’ ambiente in cui vivono. Ogni sentiero, ogni sasso porta il segno di una presenza umana, lieve e rispettosa. Ogni casa e ogni cosa che contiene sono tutte costruite con materiali che si possono trovare nel raggio di meno di un chilometro: sono sassi, paglia, legna, zucche secche, corde ricavate dalla corteccia degli alberi. Le tanche di plastica per l’acqua sono invece i soli corpi estranei a quest’ambiente, ma sono anche una grande comodità offerta dal mondo moderno.

Mi viene incontro Peter, il “fratello minore”, in realtà un cugino; ha nove anni ma è già quasi alto come Hassan. Dopo di lui esce la mamma che si muove con grande sicurezza, come se vedesse, nonostante i suoi occhi siano completamente chiusi e rinsecchiti. Come è potuto accadere? Mi spiega che dopo la nascita di Hassan, si era ammalata molto gravemente. Ad un certo punto i vicini pensavano fosse morta, per cui, come di consuetudine, prima di seppellirla le forzarono gli occhi, girandoli verso l’interno: i morti non hanno più bisogno di guardare avanti, devono solo guardarsi dentro. Quando si sono però accorti che era ancora viva, il danno irreparabile le era stato ormai fatto.

Taccio, per rispetto. In tanti anni, con tanti incontri con culture diverse, ho ormai perso, se mai l’ho avuta, qualsiasi pretesa di conquista, ogni presunzione di giudice, ma anche ogni illusione di riuscire a di “farsi tutto a tutti”, come diceva San Paolo. Sono ancora ai primi passi, devo ancora imparare ad ascoltare, libero dalla preoccupazione del dover insegnare, dell’avere necessariamente seguaci. Devo lasciarmi solo guidare dall’interesse sincero per le persone che mi stanno intorno, dalla loro accoglienza ed amicizia, per diventare loro amico, capace di comprendere e condividere. Per poi, quando anche il vicino si mette alla ricerca, proporre una via comune, di volgerci verso l’unico Amico che è capace di dare salvezza.

Hassan mi fa visitare con orgoglio la sua poverissima e piccolissima casa. È lui che la tiene in ordine e che fa da capofamiglia. Al mattino lui e Peter si alzano molto prima del sorgere del sole. Quando è la stagione vanno a lavorare nei campi e prendere l’acqua. Poi preparano colazione, facendo bollire farina di mais e zucchero; danno da mangiare alla mamma e quindi si dirigono verso la scuola. Non si trova molto lontano, sospira Peter; è solo a mezz’ora di cammino e porta il nome di Musa Arat, il catechista che abitava qui vicino. Quando tornano alle due del pomeriggio, bisogna aspettare che il sole cali un po’, per tornare a lavorare nei campi, che si trovano un po’ più in alto, dove la montagna va appiattendosi in una grande altopiano, dove si trova anche la scuola.

I timori che la violenza armata possa scatenarsi di nuovo

La pace fra governo e lo SPLM/A (Sudan People Liberation Movement/Army) è stata ormai firmata da quasi tre anni, preceduta da due anni di cessate il fuoco. Ma quali sono stati i progressi portati dalla pace? La mamma mormora qualcosa a voce bassa e Hassan traduce: “Dice che ha sempre vissuto qui, in questo villaggio arroccato sulla montagna, subito preso sotto il controllo dei ribelli, per cui la guerra qui non è mai arrivata. La conoscevamo solo per il suono degli scontri che avvenivano giù nella valle. Era comunque preoccupata per il figlio e per il nipote, i cui genitori erano stati uccisi dall’esercito governativo. Temeva che entrambi sarebbero stati arruolati. Adesso, senza il rumore della guerra, anche il suo cuore è in pace.”

Hassan e Peter mi dicono che quando sono a scuola continuano invece ad ascoltare avidamente il giornale radio della BBC, che coincide con l’intervallo. Sono consapevoli che la pace è ancora fragile, che in Darfur c’ è in atto una guerra devastatrice e che alcuni rifugiati sono arrivati dal Darfur fino ai Monti Nuba. Sanno che fra la SPLA e il governo ci sono molti scontri che per il momento sono solo verbali e politici, ma non mancano i timori che la violenza armata si possa scatenare di nuovo da un momento all’altro.

Ritornando verso la scuola, i due ragazzi indicano un struttura dal grande tetto di lamiera zincata che brilla sotto il sole. “È una chiesa costruita da una ONG americana; hanno promesso che costruiranno altre 150 chiese di questo tipo”, dice Hassan. Centocinquanta chiese per una popolazione di forse centomila cristiani e novecentomila islamici, non sono forse troppe? “No, perchè noi cristiani stiamo crescendo. Con tante chiese potremo pregare tanto, e Dio sarà con noi” afferma Peter. Non sa che la ONG in questione appartiene alla stessa Chiesa del presidente americano George W. Bush e che nelle sue parole riecheggia la certezza di Bush, quella che ci sia un dio che sta dalla sua parte… . Ma non sembra molto convinto, come invece lo era quando al mattino, in classe, lui e gli altri studenti chiedevano più scuole perchè tutti i loro coetanei potessero studiare. Che senso ha costruire tutte queste chiese? Per quanto mi riguarda non è più un tipo di progetto con cui mi trovo in sintonia. Vorrei riuscire solo ad essere un fratello che cammina assieme ai fratelli, che parla il linguaggio semplice ed essenziale dei gesti, degli occhi, e che quando usa le parole usa quelle di Gesù, e racconta di sole e di pioggia, di semi e di raccolti, di morte, di guarigione e di vita.

Poche centinaia di metri prima della scuola c’ è un gruppo di capanne dove abita colui che dà il nome a questo altopiano, il Kujur. Nella tradizione dei Nuba, Kujur è il mediatore tra Dio e gli uomini, quello che in italiano chiamiamo con linguaggio spregiativo “stregone”. Il Kujur di questa ha ricevuto questa carica dal padre, a cosi all’ indietro per generazioni. Ha la reputazione di custodire i segreit piu’ antichi e che le sue cure siano piu’ potenti di quelle degli altri Kujur Nuba, per questa ragione tutta la localita’ si chiama semplicemente Kujur. L’ attuale Kujur è un anziano mite e curvato dagli anni, i cui nipoti frequentano la scuola di Koinonia. Durante il giorno cura le persone che si rivolgono al lui usando la sua conoscenza delle erbe. La sua funzione più importante è quando le piogge tardano ad arrivare. Allora, su richiesta della comunità, organizza preghiere speciali. Anche quest’anno è stato così. Allora il Kujur ha chiamato altri sei anziani e al tramonto si sono trovati tutti nudi sotto il grande albero sacro. Per tutta la notte hanno versato libagioni di birra sul tronco dell’albero, hanno cantato e pregato, fino a quando il sole è sorto ed e’ tornato alto nel cielo. Allora sono rientrati nella loro capanne a riposare. Subito dopo sono venute le nuvole e prima del tramonto un gran temporale benefico ha fecondato le terre dei Nuba. Così mi racconta Peter.

Il miglior regalo sarebbe quello di avere piu’ scuole

Poi dopo un po’ di silenzio, Hassan aggiunge: “Però le sue medicine non funzionano sempre. Abbiamo bisogno di ospedali e di medici. Dopo la firma del trattato di pace ci avevano promesso tante cose. Sono venute tante delegazioni a visitarci. Ma è successo poco a nulla. Ora sembra che il grande ospedale delle Diocesi di El Obeid, giù nel fondovalle, sia stato completato e dovrebbe entrare presto in funzione. Speriamo bene. Sarebbe il miglior regalo di Natale”. “No, no” lo corregge Peter immediatamente “il miglior regalo sarebbero quello di avere più scuole, così poi noi potremo diventare dottori e curarci da soli, senza dipendere sempre dagli altri.”

A scuola i maestri stanno invitando i bambini a preparasi al Natale. Cosa faranno? Una festa: tutti gli studenti porteranno un po’ di farina di mais; l’amministrazione della scuola aggiungerà latte e zucchero. Ci sarà quindi da mangiare per tutti e si starà insieme tutto il giorno, fino al tramonto. Gli studenti inviteranno anche da ogni villaggio la mamma col neonato più piccolo. E saranno proprio questi neonati ad essere al centro dell’attenzione e dell’affetto di tutti. Non è forse Gesù venuto a noi come un bambino?

Penso al Natale di altri bambini che dovranno invece scegliere fra sofisticati giocattoli e dolci elaborati. I doni che riceveranno saranno magari un segno vero dell’affetto dei loro genitori, ma in molti casi potrebbero essere solo il simbolo di un’affannata corsa all’apparire, al successo, al denaro, al potere che riempie la vita dei loro genitori. Il niente diventa idolo ed è adorato. Invece qui il niente diventa un atteggiamento dell’animo, un’ apertura, uno spazio per l’ accoglienza degli altri, per la crescita della solidarietà. Come la povera capanna vuota di Peter, di Hassan e della loro mamma, uno spazio vuoto ma sempre pronto per accogliere chi passa vicino.

Il Bambino che viene a mani vuote e ci porta in dono solo l’Amore, quest’ anno potra’ nascere in una capanna Nuba.

(pubblicato con qualche lieve modifica in Famiglia Cristiana, n. 51, 23.12.07)

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Italiano English
This blog is multi language by p.osting.it's Babel