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January, 2008:

Un Nuovo Governo?

Martedi’ 8 e mercoledi’ 9. Sembrava tornata la calma. Ma l’annuncio dato ieri pomeriggio dal Presidente Kibaki di aver nominato alcuni ministri del nuovo gabinetto ha riacceso gli animi e rialzato la tensione. Kalonzo Musyoka, terzo secondo i risultati ufficali delle elezioni presidenziali, e’ stato nominato vice-presidente.

Mentre questo annuncio preregistrato veniva trasmesso dalle stazioni radiotelevisive, Kibaki de’ andato all’ aereoporto a ricevere John Kufour, presidente del Ghana e in questo momento anche presidente dell’ Unione Africana, che dovrebbe condurre i negoziati fra Kibaki e Raila Odinga.

Le nomina affrettata di 17 ministri e’ stata vista dall’ opposizione come una provocazione. Infatti tutti ragionevolmente speravano che Kibaki non avrebbe fatto altre mosse fino al termine dei negoziati, invece la nomina seppur parziale di un nuovo gabinetto mette l’ opposizione di fronte a fatti compiuti che rendono i negoziati sempre piu’ difficili.

Dopo l ‘annuncio ci sono state proteste in piazza a Kisumu e a Nairobi, particolarmente a Kibera, con manifestanti che hanno bloccato le strade, ma senza incidenti gravi.

Stamattina Kufour ha avuto incontri separati con entrambe le parti, ma non si ahnno notizie di cosa si sono detti, se non che Kibaki ha affermato che il suo governo e’ ormai operativo che che e’ disposto ad incontrare l’opposizione. La distanza delle posizioni politiche pero’ e’ ancora grande.

Ma la cosa piu’ urgente e’ evitare il ritorno della violenza. E’ tremendamente frustrante leggere e vedere in televisione gli uomini politici di entrambe le parti che muoversi con grandi auto da un albergo di lusso all’ altro, fare conferenze stampa, il tutto un un’ apparenza di grande dignita’, mentre scatenano la povera gente degli slums l’ un contro l’ altro. E’ indicativo che nei quartieri ricchi kikuyu, kamba, luo, luhya, maasai eccetera vivono fianco a fianco senza nessun problema.

Stamattina non riuscivo a dormire e alle tre mi e’ capitato di vedere un’ intervista alla CNN. Un giornalista americano domandava a un “eminente” uomo politico keniano che cosa aveva fatto per fermare la violenza. L’ intervistato ha fatto una risatina ed ha risposto che queste violenze avvengono normalmente, e’ come quando i tifosi del calcio fanno gazzarra dopo una partita molto contesa. Il giornalista, a questo punto a muso duro, gli ha fatto notare che una cosa ben diversa sono le zuffe fra tifosi, e un’ altra cosa sono violenze che lasciano oltre 600 morti e 300 mila sfollati. Al che l’ intervistato si e’ fatto pure serio ed ha detto che “noi abbiamo sempre condannato gli episodi di violenza e bla bla bla”. Senza volere ha rivelato l’ atteggiamento di troppi dei nostri politici keniani: la gente e’ solo una pedina nelle loro mani, con l’ obiettivo di arrivare o di tenere il potere senza curarsi delle soffrenze degli ingenui che credono alla loro promesse.

Stamattina alla Shalom House abbiamo anche avuto un incontro di due ore molto positivo, con rappresentanti di una decina di associazioni di base, tra di loro quattro di Kibera, che vogliono contrastare il clima di violenza con azioni di pace. Ci sara’ un altro incontro venerdi, e si pensa di fare qualcosa martedi prossimo, quando e’ prevista l’ inaugurazione del nuovo parlamento.

Domani vado a Lusaka, in Zambia. Il progetto con 70 ex-bambini di strada in residenza e oltre cento altri bambini in situazione di grave disagio seguiti mentre sono ancora con la famiglia, ha bisogno di una mia presenza.

Anche da Lusaka saro’ in contatto con Nairobi e continuero’ a scrivere riflessioni sul ruolo giocato in questi giorni dalla Chiesa, dalle agenzie internazionali, dai mass media e dalle associazioni per la pace.

Si torna a ragionare

Lunedi 7. La mattinata e’ stata molto tesa, ma poi e’ arrivato l’ annuncio che l’ opposizione ha rinunciato alla manifestazione prevista per domani – anzi avevano programmato una serie di manifestazioni in centro Nairobi ma anche diverse localita’ periferiche – e si e’ sentita la citta’ tirare un collettivo respiro di sollievo.

Raila Odinga , il capo dell’ opposizione, ha motivato questa saggia decisione il fatto che il Presidente – chiamiamolo cosi’ anche se e’ proprio la sua elezione che e’ contestata – ha detto di essere disposto a negoziare. Ed entrambe le parti hanno abbandonato le irresponsabili reciproche accuse di genocidio e pulizia etnica, il tipo di discorsi che servono solo ad infiammare ulteriormente gli animi.

Se la garanzia che il dialogo sta per incominciare e’ senz’ altro la casa principale di questo “cesste il fuoco”, ci sono anche altre ragioni. Raila ha percepito che la gente e’ stanca e che la manifestazione rischiava di essere un colossale fallimento. La gente e’ stanca, vuole tornare alla vita normale.

Sta emergendo inoltre che i pricipali protagonisti degli episodi di violenza che nella parte occidentale del Paese hanno generato circa seicento morti e oltre 200,000 sfollati sono stati i sostenitori dell’ opposizione. E questa violenza politica, mascherata da scontro etnico, non e’ condivisa dalla stragrande maggioranza dei Keniani, che vogliono continuare ad avere la possibilita’ di vivere in pace fra tutte le etnie. Se continuasse a creare occasioni per scontri violenti l’ Orange Movement – l’ opposizione – si dannaggerebbe gravemente, facendosi identificare con il partito della violenza.

Bisogna aggiungere che i Keniani sono molto sensibili allo sviluppo economico, e molti avevano cominciato a partecipare, o anche solo sognato di poter partecipare, alla crescita economica di cui il Paese ha goduto negli ultimi quattro anni, crescita che con il continuare della violenza sfumerebbe completamente. Anzi, e’ gia’ gravemente danneggiata. Oggi ho sentito tanta gente, anche a Kibera, commentare con statistiche sulla punta delle dita i problemi economici in cui il Kenya si e’ messo e che peggiorerebbero con la continuazione degli episodi di violenza.

Benvenuta quindi a questa decisione di Raila. I negoziati saranno lunghi e difficili, ma se si ferma la violenza fisica e brutale delle uccisioni, dei saccheggi, e si cerca una soluzione politica negoziata, si puo’ sperare di vincere anche le violenze istituzionali.

Aiuti per gli Sfollati

Domenica 6. Quasi mille persone che abitavano a Kibera sono sfollati nel Jamuhuri Show Ground, a meno di un chilometro da casa. Questa e’ la sede dell’annuale fiera agricola, e ci si arriva passando attrverso un campo di polo. Dalla parte opposta della strada ci sono dieci ettari di foresta, di proprieta’ degli Scouts, mantenuta com’ era centa’nni fa.Si e’ immersi nel verdi, uno dei posti piu’ belli di Nairobi per farsi una passeggiata. Poi improvvisamente, dopo una curva, si arriva a Kibera, le narici vengono assalite dalla puzza di una discarica abusiva, che tracima sulla strada. E’ il biglietto da visita di cosa ci si deve aspettare a Kibera.

Al Jamuhuri Show Ground gli sfollati sono sistemati provvisoriamente nelle strutture che servono per la fiera. La sistemazione e’ tutto sommato dignitosa, ma manca il cibo, i serivizi sanitari sono insufficienti e il disagio, la paura, l’ incertezza per il futuro sono dipointi sui volti di tutti. Parlo con alcuni di loro, chiedo di che cosa hanno bisogno, e mi accorgo che si sono persone di quasi tutte le etnie del Kenya. Tanti kikuyu, ma anche luo, luyha, kamba, maasai. Una donna mi spiega “quelli che bruciavano le case e le bancarelle all’ inziao hanno attacto solo i kikuyu, ma poi ci hanno preso gusto, e hanno saccheggiato semplicemente dove c’era piu’ da rubare”. Adesso qi c’e’ la protezione della polizia e sono tutti in fila, in attesa di ricevere avare razioni di farina e di fagioli che cuoceranno su fuochi imporvvisati..

Gli aiuti umanitari hanno incomincito ad arrivare. Le radio stamattina hanno annunciato che da Mombasa e’ partito un convoglio di camion che trasporta 650 tonnellate di granaglie e di olio commestibile. Alcuni si fermeranno a Nairobi, la maggioranza procederanno per Eldoret, che la scorsa settimana e’ stata l’ epicentro dlele violenze piu’ gravi, e dove di parla di oltre 150,000 sfollati. Gli aiuti umanitari, l’ ho visto dappetutto ma su ampia scala particolarmente in Sudan, portano con se quasi inevitabilmente un pesante fardello di dipendenza e corruzione, ma per questa povera gente vogliono dire una sopravvivenza meno stentata.

A Kibera tutto e’ calmo. I segni della violenza sono ancora evidentissimi: qualche decina di scheleti di veicoli bruciati ingombrano la strade, si vedono dappertutto negozietti e baracche bruciate. Nessuno ha cominciato a pulire e ricostruire. Si temono nuove vuolenza. La zona intorno alla casa in mattoni dove facciamo prima accoglienza per bambini di strada e dove avremmo dovuto cominciare a far funzionare un il centro di fisioterapia e’ invece illesa. Jack mi spiega che se la maggioranza di Kibera e’ per Raila Odinga, qui siamo proprio nella zona dei fedelissimi.

Anche fuori dall’ ufficio del District Officer si sta distribunedo farina e fagioli, e c’e’ una fila di qualche decina di persone. “Vedi quel ragazzo in fila? – mi chiede Jack lui e’ uno di quelli che ha bruciato le case degli altri, e casa sua non e’ stata toccata. E quell’ altro? E’ un ricco, non ha avuto danni, ma anche lui va a chiedere” …. e cosi via. La saga degli aiuti e’ incominciata. Speriamo che qualcosa arrivi anche alle vere vittime.

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Superare l’ Odio, senza rinunciare alla Giustizia

Sabato 5. La gente si muove normalmente, e’ un sabato mattina come tanti altri, con cielo limpido e un sole subito caldo. Prima delle otto vado a visitare una delle nostre case per ex-bambini di strada, Ndugu Mdogo. Quando entro sono tutti intorno ai tavoli apparecchiati per la colazione che stanno pregando. Una delle mamme mi spiega, sottovoce, che i bambini hanno loro stessi deciso di fare una preghiera speciale per la pace. Le preghiere sono lunghe e ripetitive, tutti ricordano i parenti a gli amici di Kibera, i feriti e i malati nell’ ospedale, i morti vittime della violenza. In tutte c’e’ l’impegno di mantenere la pace nella casa, di non essere tribalisti. Spesso si ripetono i nomi degli otti bambini ospiti della casa che erano andati passare il Natale con qualche parente e che non sono riusciti a tornare perche’ intrappolati dalla violenza. Ma anchne se le parole sono quasi uguali le espressioni che passano sui volti dei bambini sono diverse, ognuno ha le sue sfumature di paura, di sbigottimento e anche di rabbia. Quando hanno finito e attacano con determinazione il piattone di porridge col latte, Samuel, un quattordicenne di solito sempre allegro si sente in dovere di spiegarmi; “Non possiamo essere veramente in pace fino a che tutti i nostri otti fratelli che sono a Kibera non sono rientrati con noi”. Lo rassicuro, oggi ci si puo’ muovere senza difficolta’ e Jack andara’ a recuperarli uno per uno.

Si, la pace e’ tornata, almeno a Nairobi. E’ una pace difficile, le violenze dei giorni scorsi non possono essere cancellate cosi in fretta. Anche se gli episodi di violenza non si dovessero ripetere ci vorranno mesi per ritornare alla convivenza che era abituale fino a pochi giorni fa. Il rischio e’ che la soluzione politica della crisi, che sembra essersi avviata anche se le posizioni sono ancora lontane, prenda molto tempo e ci siano altri momenti difficili. Il risentimento che arde in molti keniani, sopratutto giovani che si vedono condannati ad una vita di poverta’, potrebbe ancora esplodere come violenza contro altri poveri. In occidente la disuguaglianza economica e sociale può essere affrontata attraverso la rappresentanza politica: partiti e sindacati possono portare queste istanze nei posti decisionali che contano. In Kenya tutto questo precipita nell’etnia, che maschera un conflitto che è prima di tutto economico e sociale. A Riruta, a Kawangware, a Kibera non si odia il landlord perché è kikuyu o luo, ma perché mi sfrutta, perché vive “alle mie spalle”.

Ordinariamente il risentimento viene gestito o attraverso un appartenenza religiosa – spesso seria e convinta – o “tenuto a bada” dall’alcol, dalla droga, e si sfoga individualmente nelle violenze domestiche e quotidiane. Tutto ciò non elimina le cause del risentimento, lo sopisce, ma è lì che cova pronto ad esplodere. Serve un “collante” che faccia confluire l’individuale nel collettivo, in qualcosa che riguarda tutti. L’etnia può essere utile allo scopo e dato che il fine giustifica i mezzi in ogni partita politica del mondo, la si usa. Come ha scritto il sociologo Fabrizio Floris che ha vissuto per mesi negli slums di Nairobi ed ha scritto libri anche ricchi di partecipazione emotiva, “si tratta di mascherare le ragioni del conflitto sociale, dare altri nomi e altre origini allo stesso. Usare parole persuasive e ripeterle in modo ossessivo finché non diventano vere. E’ la prima regola della sociologia “se qualcuno ritiene che un fatto sia vero questo lo diventerà nelle sue conseguenze”. Ma se i poveri insorgono nessuno può prevedere gli effetti di queste conseguenze”. Le responsabilita’ sono di chi li ha manipolati.

Abbiamo realizzato oggi l’ idea di Ken. Con un giro di sms abbiamo convocato tutti i gruppi acrobatici piu’ importanti di Nairobi. Abbiamo rispolverato le bandiere della pace e coi bambini di Kivuli abbiamo impovvisato nel cortile della Shalom House uno spettacolo con accompangamento di tamburi e canti: Piramidi umane composte da keniani i tutte le etnie, un grido per la pace. Per superare il risentimento, senza rinunciare all’ impegno per la giustizia.

Resta una nube nera, il pensiero di cio’ che sta veramente avvenedo nelle zone piu’ isolate del Western Kenya. Le notizie frammentarie e impossibili da veirficare che ci arrivano non sono per niente confortanti.

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Il Kenya che Vorremmo

Il 3 gennaio la tensione e’ cresciuta di ora in ora. La potevo misurare dal prezzo delle uova. Prima delle elezioni un uovo costava 6 scellini. Il mattino del 3 ne costava 8, nel pomerigio 10. A sera, dopo l’ annuncio dell’ opposizione che il 4 ci sarebbe stata un’ altra manifestazione di protesta, un uovo costava 12 scellini.

Ieri, il mattino del 4 verso le due ricevo un sms: “Kizito, siamo Kevin e Kenneth, i due acrobati. Vicino alla nostra casa di Kawangware c’e’ un grosso gruppo di mungiki, stanno progettando di dar fuoco a tutte le case dei luo. Possiamo rifugiarci da te, a Kivuli?”

Alle sei vado in auto verso la citta’. Strade vuote. L’ Uhuru Park circondato come ieri da poliziotti in tenuta antisommossa. Le schegge delle vetrine rotte di un supermercato che ieri e’ stato saccheggiato sono ancora sparse nel parcheggio.

Mi chiama padre Wanyoike: “L’ incontro dei giornalisti locali che avevamo pianificato per stassera deve essere cancellato. C’e’ una tensione enorme e tutti temono il peggio”.

Poi, verso le nove, si incomicia a capire che la manifestazione non ha nessuna possibilita’ di successo, e la tensione cala. Arrivano notizie che i manifestanti che si muovono verso l’ Uhuru Park sono poche centinai. Gia’ le migliaia che avevano manifestato il 3 erano immensamente lontani dal milione che Odinga aveva promesso di mettere in piazza, ma oggi sembra proprio che la gente sia stanca, prevale il bisogno di normalita’. Girano anche notizie che le due parti hanno deciso di dialogare. Alle dieci visito tre grandi supermercati che hanno appena riaperto le porte ai pochissimi clienti. Ma alle undici si e’ sparsa la voce della riaperture, le strade si riempiono di gente e di traffico, le donne degli slums arrivano con borsoni miracolosamente colmi di pomodori, cipolle, spinacci, e improvvisano mercatini anche sulle arteri pricipali. La gente si ferma, si contratta, i volti si distendono e si aprono in grandi sorrisi. E’ l’ Africa che conosco e amo. Forte, resiliente, amica, capace di sorridere anche nel dolore.

Faccio pranzo con un gruppo di acrobati, un incontro programmato da quindici giorni. Ken, lo stesso che dodici ore prima mi aveva mandato l’sms di panico ha un’ idea: “Domani invitiamo alla Shalom House tutti gli acrobati di Nairobi e facciamo una grande piramide umana. Ogni membro della piramide deve essere di una etnia diversa. E poi facciamo un comunicato di pace. Noi acrobati ogni volta che ci esibiamo dobbiamo avere una fiducai totale nel team, la nostra vita e’ nelle mani delgi altri. Cosi deve esswere il Kenya”

Ha appena finito di parlare che la radio annucia che i tentativi di mediazione sono iniziati e Kibaki e’ perfino disposto ad una ripetizione delle elezioni.

Le difficolta’ politiche restano, e le posizioni delle due parti non sono per niente addolcite. Ma ci si parla, e si spera che i machete torneranno ad essere usati solo per tagliare la legna.

Poi la doccia fredda. Dal Western Kenya, da sms e telefonate arrivano notizie raccapriccianti.  Si spera non siano vere, ma ancora una volta la notte e’ piena di fantasmi.

Gli Occhi della Paura

Una coppia chiede insistentemente di parlarmi. L’uomo ha una trentina d’ anni, e appena mi siedo accanto a lui inizia un racconto confuso, parlandomi del figlio, Evans, come se io dovessi conoscerlo bene. Gli chiedo di spiegarmi chi e’ lui, chi e’ suo figlio e cosa posso fare per lui. E’ sorpreso che non lo abbia riconosciuto, e tira fuori dalla tasca di una giacca vetusta – e’ ormai chiaro dall’ attegiamento, e dai vestiti che indossano che sono due persone di condizione estremamaente modesta e che hanno prpearato questo incontro con solennita’ – un foglio spiegazzato. “Sono il papa’ di Evans” mi ripete come spiegazione “al quale tu hai scritto questa lettera”. E’ il foglio stampato con cui invitavo le famiglie di Kibera che hanno figli bisognosi di fisioterapia a venire al piccolo centro la cui attivita’ avrebbe dovuto iniziare proprio oggi. Jack, riconosco la calligrafia del nostro giovane assistente sociale, ha scritto sulla linea tratteggiata iniziale Evans Njoroge, un nome che identifica subito un kikuyu. Incomincio a capire, e l’ uomo mi spiega ulteriormente, “Vedi, Jack e’ venuto a trovarci in casa, quando i nostri vicini gli avevano detto un mese fa che avevamo in figlio che non puo’ camminare da solo” E la donna interviene timidamente: “E’ stato molto gentile, ha detto che lo mandavi tu personalmente, e che saresti anche venuto a trovarci.”

Incorreggible mania africana, tutto, nel bene e nel male, e’ basato sul rapporto diretto fra le persone. L’ idea che io possa aver semplicemente scritto, firmato e fotocopiato un foglio per distribuirlo a persone che non conosco non li ha neanche sfiorati. Se sul foglio c’ e’ il nome del figlio significa che in qualche modo so della loro esistenza ed ho stabilito un rapporto di conoscenza.

Evans e’ appena fuori dalla porta, semisdraiato sulla una panchina di cemento, e appena mi vede cerca di alzarsi usando due grosse stampelle di legno, che probabilmente pesano piu’ di lui.. Avra’ si e no sei anni, le gambe rinsecchite e piegate, gli occhi impauriti.

Intanto il papa’ continua; “Siamo kikuyu, fino all’ altro giorno lasciavamo Evans nella nostra baracca a Kibera da solo, quando noi durante il giorno gestiamo un banchetto di frutta e verdura. Ma adesso non ci fidiamo piu’, i nsotri vicini potrebbero ucciderlo, o bruciare la baracca con lui dentro. Abbiamo trovato una baracca da affittare qui vicino alla tua casa per bambini di strada, ci sentiamo piu’ sicuri, non vogliamo tornare a Kibera. Pero’ non abbiamo i soldi per l’ affitto, facci un prestito, te lo restituiamo il mese prossimo. Aiutaci per piacere in nome di Dio”. L’ affitto per un mese un una baracca senza acqua e luce e’ di 800 scellini, circa 9 euro.

Non sono i soli che oggi sono venuti a cercare aiuto. La manifestazione organizzata dall’ opposizione in centro citta’ e’ fallita da qualche ora, contro un imponente spiegamente di forze di polizia. Forse gli animi si sono calmati. Ma la gente teme la notte, quando anche il piu’ piccolo rumore che fino a una settimana fa era considerato normale,adesso fa sobbalzare nel sonno, nel timore che si stia avvicinando un gruppo di assassini.

(scritto la sera del 03/01/08 per La Repubblica)

Kenya post-election violence: How can we defuse the crisis?

The nearly 200 dead bodies we have seen on the streets of Kenya over the past few days are the tragic outcome of a form of politics that is seriously sick, politics built on idolatry of power and money, a religion that Kenyan politicians have fostered and nourished ever since independence.

As I write, on the morning of 2 January, the tension on the streets of Nairobi, and in particular in Kibera, has diminished. Obviously, people need to get back to their normal life, to earn a little money. But news coming in from Western Kenya continues to be very alarming. On the other hand, the problems that triggered the violence are all still there. Over the coming weeks, when Parliament is convened, many political issues will come to the fore and it is likely that tensions will rise once again.

At this point, the possibility that electoral fraud was perpetrated appears very likely. It now appears clearly that intimidations – not necessarily actions of violence – were carried out on election day and that votes were bought in many polling stations. This concerns both parties fielding candidates for the Presidency, both PNU and ODM, although it is likely that these actions did not decisively influence the results. It is, however, clear evidence of anti-democratic attitudes. What probably was decisive was fraud during the counting process. At present, no one has sufficient evidence to determine clear responsibilities, to cast the blame. Personally, I have heard people telling me about vote buying by ODM on the coast, but these people are fearful of speaking out. The documentary evidence that ODM claims to possess, demonstrating large-scale vote-rigging during the counting process, has yet to be brought forth.

To understand the current Kenyan political context we must go back at least to 1982. After an attempted coup d’état, President Moi transformed Kenya into a brutal dictatorship, although keeping in place a few elements that maintained a semblance of democracy. It’s worth noting that he remained a faithful ally of Britain and the US, and a friend of the West. It would take too long to retrace the political career since 1982 of the two main protagonists, Mwai Kibaki and Raila Odinga. Suffice it to say that, since then, they have both, at different stages, been allies of Moi, allies and rivals of everyone else and with each other. In the case of neither of these two politicians can we speak of an ideological position: it has always been a matter of creating alliances with the aim of grasping power. Both possess a vast personal wealth, and on occasion make great show of it. Raila’s hummer is famous: it’s a huge gas-guzzling SUV that Raila uses to visit Kibera, the biggest slum in Nairobi and part of his electoral constituency. In the case of both men, to believe that they are motivated by the will to serve the country, or that they stand for democracy, or uphold the cause of the poor, means to be the victim of a dangerous illusion. Their attitude was aptly described in an editorial in The Nation, on 1 January: “Neither the Party of National Unity nor the Orange Democratic Movement during the campaigns demonstrated any particular restraint or regard for the country’s stability. The mantra appears to have been: We either rule it or burn it.” An uncontrolled thirst for power, an urge to protect through power their wealth acquired by legal or not so legal means, is what drives the political activity of these parties.

But, having said this, it is necessary also to draw some distinctions. Ever since taking power five years ago, Mwai Kibaki has introduced some important reforms, such as free education for all eight years of primary school, such as guaranteeing freedom of expression and the press (for five years we have not had any political prisoners and certainly no political assassinations, as was the case under Moi; and, never in its history, has Kenya witnessed such a free election campaign as we had last month, etc.). Kibaki also introduced a whole series of economic measures that jump-started the economy which, during the last years of Moi’s rule suffered a negative growth trend: since 2004, Kenyan economy has been growing at over 5% a year. But two big failures have characterized Kibaki’s Presidency. The pervasive corruption, inherited after 24 years of Moi’s bad governance, was not fought as effectively or with the determination that the common citizens demanded. It’s true that corruption has been somewhat curtailed, but it is still a cancer pervading the entire Kenyan society. Furthermore, the new Constitution that Kibaki promised when he was elected has not yet been approved: thus, his promise to decentralize power was not honoured.

As for Raila Odinga, who joined the government as a member of Kibaki’s coalition five years ago, he then switched over to the opposition on the issue of the new Constitution. He succeeded in having Kibaki’s proposal defeated in a referendum two years ago. ODM was born out of the successful defeat of the proposed Constitution. Since then, Odinga has concentrated in his own hands the power of the ODM and has accentuated the tribal issue. For more than a year now, the slogan amongst the Luo (Raila’s ethnic group and dominant tribe in the ODM, like the Kikuyo are Kibaki’s ethnic group and the dominant tribe in PNU) has been: “It’s our turn to govern the country.” Recently, this slogan has become: “If we lose the elections, it means they have been stolen”. During the election campaign, Raila played two extremely dangerous cards. First, he promised to implement “majimboism”, a sort of regionalism that Moi had proposed in the 1990s and Raila had opposed at the time. He launched the proposal without specifying the characteristics of this majimboism; this led to fears – based also on Raila’s personal history – that it would be a rigid regionalism that would break up the country. After that, he signed a Memorandum of Understanding with the notables of the Muslim community the details of which were never divulged. His adversaries, and many Christians, saw this MoU as a mistake since it appeared to distinguish among citizens based on their religion, which is clearly against the current Constitution and also against the draft Constitution proposed by the ODM.

Kibaki and his group, however, reacted against this campaign simply stressing the divisions, falling into the trap of ethnic stereotyping. The ethnicization of politics is thus to be blamed exclusively on the leaders. Let me quote the editorial from The Nation again, as it addresses both Raila and Kibaki: “Never has there been so much animosity between people who have lived together as good neighbours for many years. The chaos we are now experiencing is the handiwork of the tribal, economic and political elite, which identify with you.”

No one can deny that the ethnic aspect of the issue has become of central importance. No getting round it. Odinga first, but then also Kibaki and his party, over the past three years, for reasons of personal political opportunism, have undertaken a whole series of actions – in some cases intentionally, perhaps in others by mistake – that have fed ethnic animosity.

Both parties occasionally use, especially in critical moments, the support of Mungiki and organized and paid gangs of desperate, unemployed youths.

The Mungiki were established in the early 1990s as a Kikuyo community who wanted to return to their ancestral religion, the worship of Ngai (God) represented as Mount Kenya, etc. Slowly, though, this group degenerated into a sort of mafia. In Nairobi, for example, they controlled whole sections of public transportation, and they can mobilize their members even for violent and criminal actions. Nowadays the group includes non-Kikuyo as well, although they basically still identify with the defence of Kikuyo community and interests. Opposing this para-religious sect, gangs of young unemployed from Kibera, controlled by Raila Odinga, were formed: Raila has used these gangs to provoke unrest and street riots, on several occasions, obviously with the intention of getting people killed so as to turn the deaths to his own advantage. These are the two ugliest faces of the current clashes.

I am not sure what happened in other places: the news I have received has been partial and fragmented. But in Nairobi I can certainly say that the majority of people killed in the past few days were not killed in clashes with the police: they have been the victims of organized actions by these two groups. In Kawangware, where the Kikuyo are prevalent, they attacked the dwellings and the small craftsmen’s shops of the Luo. The opposite occurred in Kibera. Alas, as is always the case, the main victims were innocent and harmless people. On the morning of 31 December, after the night in which the worst violence exploded in Kibera, a Kamba friend of mine told me, with terror, that he had seen the bodies of four of his neighbours, four Kikuyo acquaintances of his, lying just a few yards from his own home. Their throats had been slit with kitchen knives. The same is happening in Eastern Kenya, as an Italian volunteer told me: the shops and homes of the few Kikuyo there are being systematically attacked, burned, and the owners are being “invited” to go back to their own region. The worst kind of majimboism.

We saw this crisis coming. But none of us had fully realized its destructive potential, the surge of tribalism that it contained. Opinion polls published by Kenyan media over the past few months showed how the people still held basic faith in the President, but placed less and less trust in his party. While many looked favourably upon the promises of change being made by the ODM, they were less enthusiastic about Raila himself, perceived as a politician with dictatorial tendencies. Thus, the results of the elections (assuming the official results are genuine) make the country ungovernable: a President in whose hands many powers are invested, but who can only rely on a minority in Parliament and therefore cannot govern. And a tribal rivalry which has spiralled out of control, even out of the control of those who unleashed it.

And both sides now appear to be frozen in positions that refuse dialogue. A Kikuyo journalist friend of mine said, and I think his words represent a widely shared opinion: “I voted in my constituency for an ODM Member of Parliament, because I think that ODM can play an important role in Parliament exercising control over excesses of presidential power, but I would never accept Raila as a President. With him in power, in five years time we would not have rigged elections. We would not have elections at all.”

How can we move forward?

First of all, it is essential that both Kibaki and Raila commit themselves to acting only within the framework of the law, respecting legal norms and the existing Constitution. Both men must renounce and call off any kind of public rally, for that would inevitably cause more violence and more killing. And would only exacerbate divisions, and create pedestals for the leaders: My dead are more numerous than yours.

Parliament, as it is composed according to the announced electoral results, must be convened. The Judiciary must act independently to examine all the reciprocal accusations of electoral fraud. But that’s not enough. Kibaki must accept a serious review of the election process, a vote recount with international monitoring. There is no alternative, if he wishes to uphold his legitimacy.

But the most important thing is for Kibaki and Raila to talk to each other. Kibaki has so far reacted with repression; Raila wants to gain legitimacy from public rallies in the streets. But this kind of confrontation will lead nowhere. It will only succeed in taking the country towards an unsolvable conflict. International diplomacy must help Kenya; Great Britain and the US must help getting a dialogue underway. The European Union can exert a powerful influence. The African Union could help play for time. All possible pressures must be exerted on these two men and the parties they represent: until they accept the fact that Kenya is more important than they are. And that they must talk to each other and collaborate.

Ultimately, though, peace cannot come from outside. It must be born within, if it is to succeed in definitively overcoming the difficulties and the hatred that has been sown over the past few months. One possibility would be to bring back onto the scene a “third man,” Kalonzo Musyoka, who ran for the Presidency obtaining almost half a million votes. He belongs to a minority group. As far as we know, he has never resorted to the language of tribal hatred, in public or in private. He is competent and knows the political situation of the country. He could become the ideal inside mediator, capable of taking forward a process of reconciliation that cannot be imposed from outside.

Dialogue between the two sides must begin as soon as possible. We cannot wait. We must avoid tomorrow’s public rally. If this rally goes ahead, with or without government consent, there is no doubt that it will unleash a new cycle of death and violence which will only make the chances of reconciliation more remote.

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