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Giustizia e pace, cioè chiesa

Le comunità cristiane e le gerarchie sono impegnate nella costruzione di una società più giusta e riconciliata. E quando sbagliano, com’è accaduto di recente in Kenya, sono pronti a fare ammenda. È giusto, perciò, che il Sinodo sia incentrato su questi temi.

Il tema scelto da Benedetto XVI per il secondo Sinodo africano (ottobre 2009) è certamente azzeccato: “La chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. Mai come oggi questi tre valori appaiono di capitale importanza per l’intero continente. La chiesa sente di avere non solo il diritto di proporli all’attenzione di tutti, ma anche l’autorità morale per dire la sua al riguardo. Poche altre istituzioni africane possono vantare uno “stato di servizio” paragonabile a quello della chiesa in simili questioni. E ciò non è dovuto solo alle sue dichiarazioni ufficiali, ai trattati di teologia, ai seminari e simposi indetti sull’argomento, ma anche – e soprattutto – al sudore e al sangue di migliaia di fedeli e comunità che hanno profuso energie, offerto amore e, in alcuni casi, sacrificato la propria vita per costruire una società più giusta, riconciliata e rappacificata. Anche a livello di gerarchie, notevoli gli sforzi compiuti. Basti pensare alle azioni e alle prese di posizione delle conferenze episcopali di Mozambico, Sudan, Rd Congo e Nord Uganda.
Particolarmente illuminante è il caso Kenya dopo le violenze innescate dalle elezioni presidenziali del 27 dicembre 2007. I vescovi cattolici (ma anche i responsabili delle altre denominazioni cristiane) sono stati colti di sorpresa dallo scoppio delle rivolte e sono apparsi del tutto incapaci di svolgere un ruolo guida. In quelle lunghe settimane di totale confusione e di scontri, invece, folti gruppi di semplici fedeli hanno saputo fare la cosa giusta: hanno invitato alla pace, raccomandato la riconciliazione e offerto ospitalità e assistenza a migliaia di senzatetto e feriti.
Oggi, otto mesi dopo, decine di migliaia di persone vivono ancora in campi per sfollati, condannati all’odiosa condizione di “rifugiati in patria”. Mentre il governo di coalizione occupa il suo tempo a gestire la routine amministrativa e a superare alla bell’e meglio le periodiche mini crisi politiche, questa gente è dimenticata.
In verità, l’intera faccenda dei profughi è stata relegata in fondo alla lista delle preoccupazioni dei politici appena la polvere degli scontri interetnici (1.500 vittime e 350mila sfollati) si diradò. L’assillo dei grandi era di giungere al più presto un accordo per un governo di colazione. Che è nato mastodontico: guidato dal presidente, Mwai Kibaki, e dal leader dell’opposizione, Raila Odinga, il nuovo gabinetto conta 42 ministri e 52 vice ministri. Stampa nazionale e organismi della società civile l’hanno subito definito «malato di elefantiasi» e «costosissimo».
Impazienti di mettere in moto la complicata macchina amministrativa, i due leader si sono affrettati a varare un avventato piano di rimpatrio degli sfollati. A nulla sono valsi gli appelli di alcuni parlamentari perché si esaminassero a fondo i fattori che avevano portato a uno spargimento di sangue senza precedenti. Kibaki e Odinga hanno inviato automezzi militari per riportare gli sfollati alle loro case. E la televisione ha dato loro una mano: per giorni, i telespettatori hanno visto immagini di gente bramosa di saltare sui camion, di mamme e bambini che venivano aiutati a salire sugli autocarri, di distese di tende della Croce Rossa ormai deserte… I volti sorridenti sui teleschermi erano messaggi di speranza e, per un breve momento, si pensò che l’operazione fosse un successo. Subito, però, sono cominciate a circolare lamentele: gli sfollati stavano lasciando i campi di raccolta dietro intimidazioni. Asserzioni pesantissime, rimaste senza conferma fino al momento in cui l’associazione Medici senza frontiere ha fornito prove inconfutabili.
A fine luglio, la Croce Rossa stimava a 70mila le persone rimaste nei campi e asseriva che molte di esse erano fatte oggetto di minacce di morte da parte degli abitanti locali «alquanto etnocentrici».
Mentre un significativo risarcimento agli sfollati rimaneva – e tuttora rimane – di là da venire, il primo ministro Odinga, appoggiato da parlamentari della provincia della Rift Valley, ha dato il via a un’accesa controversia, suggerendo di concedere, «in nome della riconciliazione nazionale», un’amnistia generale a tutti i sospettati di violenze e omicidio, arrestati dopo i disordini post-elettorali. Il presidente Kibaki ha rigettato la proposta. La diversità di vedute in tema di amnistia è data dal fatto che la grande maggioranza degli arrestati proviene dalla Rift Valley, roccaforte del Movimento democratico dell’arancia (Odm), di Odinga, mentre le vittime sono state per lo più originarie della Provincia centrale e appartenenti al gruppo etnico kikuyu, quello del presidente. Così, la disperata situazione dei rifugiati è gradualmente scemata dall’attenzione pubblica, per essere riesumata – di tanto in tanto, e sempre ad arte – per motivi politici.

La buona strada
Ma la chiesa ha mantenuto il suo impegno per gli sfollati: ha offerto assistenza alle vittime e rinnovato i suoi sforzi per la riconciliazione e l’educazione alla pace. Le piccole comunità cristiane si sono attivate per promuovere la tolleranza etnica prima, durante e dopo i disordini. Il Consiglio dei Superiori maggiori degli istituti religiosi s’è preso l’impegno di identificare le radici degli scontri etnici e di suggerire via d’uscita dall’empasse. Tra le proposte: impegno del governo a diminuire la povertà, nuova costituzione, decentramento del potere politico, creazione di tribunali speciali incaricati di cercare la verità dei fatti e ristabilire la giustizia, maggiore responsabilità dei mezzi di comunicazione. La diocesi cattolica di Eldoret – al centro degli scontri interetnici – s’è distinta nel provvedere alloggio, cibo, vestiario e medicine a migliaia di senza tetto accampati nell’ampio cortile antistante la cattedrale dedicata al Sacro Cuore. Tutt’oggi, il vescovo, Cornelius Korir, e l’intera comunità diocesana sono impegnati in campagne di pace e riconciliazione per mobilitare la popolazione contro ogni forma di tribalismo.
Il cardinale John Njue, arcivescovo di Nairobi e presidente della Conferenza episcopale kenyana, il 16 giugno ha fortemente criticato l’appello fatto da alcuni politici per un’amnistia generale, spiegando che «l’impunità è da troppo tempo un problema che attende una soluzione».
Alcune istituzioni cattoliche, sotto il coordinamento della Conferenza episcopale e con la partecipazione di numerose personalità nazionali provenienti dai più svariati ambiti sociali, ha varato un’iniziativa che ha lo scopo di promuovere e facilitare il processo di guarigione e riconciliazione tra le diverse comunità etniche. L’attenzione verrà data alle aree e alle città più colpite: Nairobi, Nakuru, Kericho, Kitale, Eldoret, Kisumu e Kisii.
Le chiese cristiane e i loro leader hanno commesso errori, il più grave dei quali è stata l’incapacità di cogliere il livello di odio tribale raggiunto durante la campagna elettorale e di avvertire la popolazione. Sta di fatto che, una volta ritornata la calma, tutte le chiese, cattolica inclusa, hanno pubblicamente riconosciuto le proprie colpe e chiesto perdono alla nazione «per la nostra mancanza di oculatezza e di guida». Cosa che si sono guardati bene dal fare i leader politici che, dopo aver incitato i propri sostenitori alla violenza, siedono oggi in parlamento o occupano posizioni di governo, del tutto dimentichi del destino degli sfollati.
Anche il documento finale della 16a Assemblea plenaria dell’Amecea (riunisce i membri delle Conferenze episcopali dell’Africa orientale), tenutasi a Lusaka (Zambia) dal 27 giugno al 7 luglio, sembra aver fatto tesoro della lezione kenyana. Il testo è chiaro e concreto, con un taglio decisamente “politico” (nel senso migliore del termine). I vescovi, tra le altre cose, hanno deliberato di stabilire regolari contatti (attraverso uffici di collegamento) tra le chiese e i parlamenti nazionali in vista di un costante dialogo su questioni costituzionali e legislative. Forte anche la richiesta di una presenza delle chiese (con la qualifica di osservatori) a livello di Unione africana e di altri organismi regionali.
I vescovi hanno sollecitato tutte le istituzioni cattoliche «a dare priorità alla formazione di leader a tutti i livelli della società» e chiesto ai fedeli laici, forti delle rispettive competenze, non solo «di provvedere dati e analisi scientifiche tali da informare adeguatamente le chiese e di metterle nella posizione d’intervenire tempestivamente», ma anche di «suggerire strategie e sviluppare meccanismi di monitoraggio e di valutazione dell’efficacia dei vari piani pastorali».
Nonostante le non poche debolezze, vanno riconosciute alla chiesa africana (grazie soprattutto al suo vivace laicato) una fondamentale coerenza, una capacità di sguardo prospettico e una prontezza d’impegno tra la gente in termini d’interventi caritativi rivolti a tutti, a prescindere dal tipo di affiliazione, e una decisa volontà di lottare per la creazione di uno stato di diritto e spingere i governi a orientare le proprie politiche verso la protezione dei gruppi più deboli e vulnerabili. Tutto questo fa sì che la chiesa «continui a godere di una grande credibilità presso le popolazioni africane» (Lineamenta 6). Per molti, «essa resta l’unica realtà che funziona ancora bene e permette alle popolazioni di continuare a vivere e sperare in un futuro migliore» (ib.). C’è solo da augurarsi che il secondo Sinodo contribuisca a renderla ancora più acuta nella sua comprensione della realtà e più efficace nei suoi interventi.

One Comment

  1. Questa analisi è confortante e come sempre ha il dono della chiarezza.
    Un abbraccio
    laura e roberto

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