Il quotidiano La Repubblica di giovedì 12 agosto ha pubblicato un articolo di Kennedy Odede, riprendendolo dal New York Times. Lo riproduco qui sotto con i dovuti crediti. L’originale in inglese si trova su http://www.nytimes.com/2010/08/10/opinion/10odede.html?_r=1
Ho conosciuto Kennedy circa tre anni fa, poco prima che gli venisse offerta una borsa di studio per studiare in America, dove ora si trova. E’ un ragazzo brillante, con una grande passione per la giustizia e per gli abitanti di Kibera, dove è nato. Il problema di cui parla è venuto alla ribalta negli ultimi anni, e mi ricordo che lo scorso anno fui intervistato da una stazione radio americana sullo stesso tema, nel contesto di un ampio dibattito. Più recentemente alcuni amici mi hanno provocato con domande su questo argomento. Dopo aver letto quanto scrive Kennedy è difficile aggiungere qualcosa, ma mi piacerebbe sentire il vostro parere, soprattutto di quelli che magari hanno visitato Kibera accompagnati da Bonny, o da Jack, e dai ragazzi di Mdugu Mdogo.
IL TURISMO DELLA POVERTÀ FA MALE ALLA MIA AFRICA
di Kennedy Odede
Il turismo negli slum risale a molto tempo fa: alla fine dell’Ottocento la fila dei newyorchesi benestanti, interessati a vedere “come viveva l’altra metà”, si snodava lungo Bowery Street e in tutto il Lower East Side. Tuttavia l’occasione e la pretesa di osservare la povertà in diretta, con i propri occhi, non sono mai state maggiori rispetto ad adesso.
Nel mondo in via di sviluppo le popolazioni delle grandi città aumentano costantemente a ritmo vorticoso. I luoghi che vanno alla grande sono Rio de Janeiro, Mumbai -grazie al film Slumdog Millionaire, film del 2008 che ha dato il via a migliaia di visite guidate – e Kibera, il ghetto di Nairobi nel quale sono nato, forse il più grande di tutta l’Africa.
Il turismo nei bassifondi ha i suoi sostenitori, secondo i quali esso promuove la consapevolezza sociale, portandovi soldi che contribuiscono all’ economia locale. Secondo me non ne vale la pena: il turismo nei bassifondi trasforma la povertà in intrattenimento, in qualcosa che si può sperimentare provvisoriamente per poi fuggirne. La gente crede di aver “visto” davvero qualcosa, ma poi ritorna alla propria vita, lasciando me, la mia famiglia e la mia comunità esattamente dove e come eravamo.
Avevo sedici anni quando ho visto per la prima volta uno “slum tour”: mi trovavo all’esterno della mia casa di 9,5 metri quadri a lavare i piatti, e fissavo ogni singolo utensile con vivo desiderio, perché erano due giorni che non toccavo cibo. All’improvviso una signora bianca mi ha scattato una fotografia. Mi sono sentito come una tigre in gabbia. Prima che potessi dire qualcosa, se ne era già andata.
A diciotto anni ho fondato un’organizzazione che fornisce ai residenti di Kibera servizi scolastici, sanitari ed economici. Una regista greca di documentari mi ha voluto intervistare sul mio lavoro. Mentre passeggiavamo per le strade dello slum, siamo passati accanto a un vecchio che stava defecando in pubblico. La donna ha estratto la video camera e ha detto al suo operatore: «Oh,guarda quello».Per una frazione di secondo ho visto la mia casa con i suoi occhi: feci, topi, denutrizione, baracche così vicine le une alle altre che pareva impossibile respirare. Mi sono reso conto che non desideravo che lei vedesse niente del genere. Non volevo darle l’occasione di giudicare la mia comunità dalla sua povertà, condizione che pochi turisti – a prescindere dalle loro buone intenzioni – sono in grado di capire davvero.
Altri abitanti di Kibera la pensano diversamente. Un mio ex compagno di studi ha avviato un’attività turistica. Una volta l’ho visto accompagnare un gruppetto di turisti nella casa di una giovane donna che stava partorendo. Se ne stavano sulla soglia, e la osservavano mentre lei urlava. Dopo poco il gruppo è ripartito, con le macchine fotografiche piene di immagini di una donna sofferente. Che cosa possono aver appreso da una simile esperienza? E quella donna, avrà guadagnato qualcosa dalla loro visita?
Molti stranieri visitano gli slum nel tentativo di capire che cosa sia la povertà, e ripartono con quella che credono essere un’idea migliore delle nostre miserabili condizioni. La speranza di visitatori e organizzatori di giri turistici nei bassifondi è che un’ esperienza simile spinga i turisti, una volta tornati a casa, a passare all’azione, a prendere iniziative in merito.
Purtroppo è altrettanto plausibile che un giro turistico nei bassifondi non porti proprio a nulla. Dopo tutto, osservare le condizioni di vita di coloro che vivono a Kibera è scioccante, e immagino che molti visitatori pensino che possa già essere sufficiente rendere testimonianza di una simile miseria.
I visitatori, del resto, non interagiscono veramente con noi. A parte qualche occasionale commento, non vi è alcun dialogo, non c’è conversazione. Il turismo nei bassifondi è una strada a senso unico: loro scattano fotografie, noi perdiamo un pezzo della nostra dignità. I ghetti non spariranno soltanto perché alcune decine di americani o di europei trascorrono una mattina a girovagarvi a piedi. Le soluzioni per i nostri problemi esistono, ma non arriveranno sotto forma di visite guidate.
L’autore è direttore esecutivo dell’organizzazione Shining p Hope far Communities, che offre servizi sociali, è uno studente del terzo anno alla Wesleyan University di Middletown nel Connecticut
2010 The New York Times
Distrbuted by The New York Times Syndacate
Traduzione di Anna Bissanti
The website of the newspaper New Yourk Times on August 9 published an article by Kennedy Odede. I reproduce below, you can find it at http://www.nytimes.com/2010/08/10/opinion/10odede.html?_r=1
I met Kennedy about three years ago, shortly before he was offered a scholarship to study in America, where he is now. He is a brilliant young man with a passion for justice and for the inhabitants of Kibera, where he was born. The theme of his editorial came to the fore in recent years, and I remember that last year I was interviewed by a radio station in America on the same subject, in the context of a debate. More recently, some friends challenged me with questions in the same topic. After reading what Kennedy says is difficult to add something, but I’d love to hear your opinion, especially from those who may have visited Kibera accompanied by Bonny, or Jack, and the boys Mdugu Mdogo.
Slumdog Tourism
by Kennedy Odede
Slum tourism has a long history — during the late 1800s, lines of wealthy New Yorkers snaked along the Bowery and through the Lower East Side to see “how the other half lives.”
But with urban populations in the developing world expanding rapidly, the opportunity and demand to observe poverty firsthand have never been greater. The hot spots are Rio de Janeiro, Mumbai — thanks to “Slumdog Millionaire,” the film that started a thousand tours — and my home, Kibera, a Nairobi slum that is perhaps the largest in Africa.
Slum tourism has its advocates, who say it promotes social awareness. And it’s good money, which helps the local economy.
But it’s not worth it. Slum tourism turns poverty into entertainment, something that can be momentarily experienced and then escaped from. People think they’ve really “seen” something — and then go back to their lives and leave me, my family and my community right where we were before.
I was 16 when I first saw a slum tour. I was outside my 100-square-foot house washing dishes, looking at the utensils with longing because I hadn’t eaten in two days. Suddenly a white woman was taking my picture. I felt like a tiger in a cage. Before I could say anything, she had moved on.
When I was 18, I founded an organization that provides education, health and economic services for Kibera residents. A documentary filmmaker from Greece was interviewing me about my work. As we made our way through the streets, we passed an old man defecating in public. The woman took out her video camera and said to her assistant, “Oh, look at that.”
For a moment I saw my home through her eyes: feces, rats, starvation, houses so close together that no one can breathe. I realized I didn’t want her to see it, didn’t want to give her the opportunity to judge my community for its poverty — a condition that few tourists, no matter how well intentioned, could ever understand.
Other Kibera residents have taken a different path. A former schoolmate of mine started a tourism business. I once saw him take a group into the home of a young woman giving birth. They stood and watched as she screamed. Eventually the group continued on its tour, cameras loaded with images of a woman in pain. What did they learn? And did the woman gain anything from the experience?
To be fair, many foreigners come to the slums wanting to understand poverty, and they leave with what they believe is a better grasp of our desperately poor conditions. The expectation, among the visitors and the tour organizers, is that the experience may lead the tourists to action once they get home.
But it’s just as likely that a tour will come to nothing. After all, looking at conditions like those in Kibera is overwhelming, and I imagine many visitors think that merely bearing witness to such poverty is enough.
Nor do the visitors really interact with us. Aside from the occasional comment, there is no dialogue established, no conversation begun. Slum tourism is a one-way street: They get photos; we lose a piece of our dignity.
Slums will not go away because a few dozen Americans or Europeans spent a morning walking around them. There are solutions to our problems — but they won’t come about through tours.
Kennedy Odede, the executive director of Shining Hope for Communities, a social services organization, is a junior at Wesleyan University.
A version of this op-ed appeared in print on August 10, 2010, on page A25 of the New York edition.