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March 24th, 2012:

Pace su Jerusalemme – Peace upon Jerusalem

Ultimo giorno a Betlemme. Quasi due mesi di pace che mi hanno permesso di pregare, ripensare, rifocalizzare tante cose nella mia vita. Ho anche capito un po’ meglio, vivendo in comunità con palestinesi, siriani, libanesi, i problemi di questa Terra Santa che rischia di essere presto teatro di una nuova guerra.

L’ipocrisia, le doppiezze, le ingiustizie che la “comunità internazionale” ha creato in questa terra non hanno pari. Certo, nel mondo ce ne sono anche più brutali, e il razzismo purtroppo è in recrudescenza ovunque, qui però è ufficiale, sancito dalla legge. Mentre negli ultimi decenni abbiamo visto la discriminazione razziale diventare illegale negli Stati Uniti d’America e in Sudafrica, qui lo si pratica ancora in nome di Dio, di quel Dio che è “sempre presente in questo luogo”, come dice un cartello accanto al Muro del Pianto, a Gerusalemme.

I cristiani palestinesi si sentono minacciati, presi fra il fuoco dell’apartheid israeliano e la violenza degli estremisti islamici, e se ne vanno appena ne hanno l’occasione. Comunità con tradizioni millenarie si sfaldano. Nazareth e Betlemme che trent’anni fa erano cittadine cristiane, oggi sono a maggioranza musulmana.

Tutta l’area vive sotto l’incubo di un imminente scontro nucleare fra Israele e Iran. O, come viene subito semplificato negli scambi di opinioni per la strada, fra Stati Uniti e l’Islam. Le guerre che perdurano da un decennio in Afganistan e Iraq, e che erano state iniziate con la promessa che si sarebbero risolte in pochi mesi, hanno aggravato la tensione fra Israele e il mondo arabo. Oggi si parla di un imminente guerra preventiva di Israele contro i siti nucleari Iraniani. Tutti lo sanno, ci sono articoli su tutti i giornali del mondo, pur non ancora in prima pagina. Quando la guerra scoppierà dovrà sembrare un fatto ineluttabile. Si fanno già i calcoli del tipo di bombe che si useranno e di quante, di quanti morti ci saranno. Si dice che sarà una guerra che definirà le future alleanze, come i potenti si spartiranno il mondo. Gli esperti la danno inevitabile entro la fine di quest’ anno. Le domande che i grandi strateghi si pongono si possono riassumere in poche righe: E’ più pericoloso lasciare che l’Iran fabbrichi la sua bomba atomica o cercare di impedirglielo attaccandone le installazioni nucleari? Stati Uniti e Israele possono vincere contro l’Iran? In termini geopolitici possono guadagnare più di quello che rischiano di perdere, per molto che sia? Sarà Obama, prematuro un premio Nobel per la Pace, a dichiarare giusta una guerra solo perché ha la forza militare necessaria per imporre i suoi interessi, perché solo i suoi interessi sono giusti? O è tutto un bluff?

Mi dice un conoscente italiano incontrato per caso qualche giorno fa in un vicolo di Gerusalemme, “ragionava cosi anche Gesù, non ricordi? Quale re, andando in guerra contro un altro re, non siede prima a calcolare se con diecimila soldati può affrontare il nemico che avanza con ventimila? Se vede che non è possibile, mentre il nemico è ancora lontano, gli manda messaggeri a chiedere quali sono le condizioni per la pace”.
No, Gesù usava la parabola della guerra per dimostrare che le vie della pace sono ancora più impegnative. Immediatamente prima e immediatamente dopo, quei versi, dice “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle ed anche la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo. Così, dunque, chiunque di voi non rinuncia a tutti i propri beni, non può essere mio discepolo”. Sta parlando esattamente dell’opposto, della guerra contro se stessi, il proprio egoismo, il desiderio di potere e di dominazione sugli altri. Sta attento, sta dicendo all’ascoltatore, calcola bene le tue forze, perché seguirmi sulla strada della pace è difficile, molto più difficile che non fare la guerra.

Invece il criterio fondamentale di questa nuova guerra annunciata è calcolare il momento che dà la certezza di poter annientare l’avversario. La due parti sanno bene che non sono i vinti a scrivere la storia e a istituire i processi per crimini contro l’umanità. Quando hai vinto, hai ragione. Guai ai vinti! L’importante è vincere, usa tutti i mezzi che vuoi. Che arma usò Caino per uccidere il fratello? Oggi, a parte le armi, non abbiamo fatto molti progressi sulla strada dell’umanizzazione.

Stamattina ho fatto una visita alla grotta della Natività, poi sono andato a Gerusalemme, per un’ultima preghiera vicino al Santo Sepolcro. II due estremi della vita che Gesù ha vissuto con un corpo come il nostro. Perfino le pietre in questi luoghi gridano “basta con le guerre”. Con la guerra perdono tutti, con la pace vincono tutti. La guerra non elimina le ingiustizie e le sofferenze, ne crea altre. Ingiustizia, oppressione, odio vanno superate con l’incontro, il dialogo, il rispetto della reciproca umanità. Anche i teologi di tutte le fedi, sempre tentati dal fondamentalismo, cominciano a capire che non non ha senso di parlare di guerra giusta. Guerra e giustizia oggi sono antitetiche, perché le armi sono diventate ancora più ingiuste – si, perché se si poteva pensare che una spada potesse essere usata per ristabilire la giustizia, una bomba atomica non potrà mai essere usata per fare giustizia – e anche perché sta crescendo una coscienza, una consapevolezza più alta. La pace è umana, la guerra non lo può più essere.

E’ stato un periodo prezioso. Il tempo per la riflessione e la preghiera serve per ricaricarsi e ripartire. Anche se certi luoghi – come il Monte delle Beatitudini – ti fanno pensare che sarebbe bello restarci, ho poi sempre sentita imperiosa la voce interiore che mi intimava di andare a cercare il Risorto altrove, insieme alla persone con le quali ho camminato in questi anni.

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Don Andrea Santoro, era giovane prete della Parrocchia della Trasfigurazione a Roma, durante i primi anni settanta, quando alcuni giovani della parrocchia frequentavano la redazione di Nigrizia. Don Andrea fu ucciso in Turchia, da un esaltato, mentre pregava con la Bibbia fra le mani il 5 febbraio 2006, aveva pochi mesi prima scritto un bel testo sul tema “Silenzio e deserto” da cui estraggo qualche passo.

Silenzio e deserto: due termini che sia nell’Ebraismo, sia nel Cristianesimo che nell’Islam sono non soltanto simbolo ma realtà vissuta. Israele è nato nel deserto: quello “interiore” di Abramo che tutto lascia per entrare nella solitudine di Dio, quello “fisico” di Mosè che proprio nell’assenza di tutto scopre “Colui che è” e conduce davanti a Lui il suo popolo. Il Cristianesimo di Gesù è nato nel silenzio di una notte, nel silenzio di alcuni anni in Egitto, nel silenzio di molti anni trascorsi in un villaggio sconosciuto, nella solitudine di 40 giorni nel deserto a tu per tu con Dio e faccia a faccia con Satana. L’Islam è figlio dei deserti sconfinati dell’Arabia e delle notti silenziose trascorse da Mohammed sul monte Hira.

Ebraismo, Cristianesimo e Islam sono concordi nel dire che Dio si “ri-vela” solo quando l’uomo “vela” ogni altra immagine o parola. La paura e l’angoscia terribile che derivano da questa solitudine sono seguite subito dopo da una luce e da una gioia immensa. E’ solo dal silenzio e dal deserto che nasce un uomo nuovo, capace cioè di stare in mezzo agli uomini, di annunciare una parola e indicare una direzione.

Silenzio e deserto significano “ascolto” e l’ascolto di Dio è l’inizio dell’incontro con Dio e della preghiera. “Ascolta Israele” è il ritornello più ripetuto nell’Antico Testamento. “Chi ha orecchi per intendere intenda”, dice spesso Gesù a conclusione delle sue parabole e in un altro luogo dice che “suo fratello, sorella, madre” è chi “ascolta” la parola di Dio e la mette in pratica. A Mohammed, secondo il Corano, lo “Spirito fedele (cioè Gabriele) pone nel cuore la parola di Dio” perché poi “ammonisca gli uomini”.

Ma come è possibile che dalle profondità del silenzio e dei deserti sconfinati di queste tre religioni sia nato così spesso il rumore assordante della guerra, il clamore dell’odio, del disprezzo e dell’intolleranza, i deliri di grandezza, di onnipotenza e di distruzione dell’altro?

Dio ha parlato ma l’uomo si è “impadronito” della Parola di Dio e si è fatto onnisciente ai propri occhi. Dio ha manifestato le sue vie ma l’uomo si è “appropriato” dell’agire di Dio e si è reso onnipotente. In nome di Dio giudica, emette sentenze e le esegue. Occorre spingere più lontano quella logica di “silenzio e deserto” da cui le tre religioni hanno avuto origine. Se è davvero Dio che parla, l’uomo non può sopraffare la Sua voce urlando agli altri uomini. Se è Dio che agisce l’uomo non può strafare sostituendosi a Lui. Se è davvero Dio l’arbitro dei popoli e il detentore della vita l’uomo non può asservire gli altri popoli o distribuire a suo piacimento vita e morte. Se è Dio che di sua iniziativa si rivela e chiama, l’uomo non può forzare il cuore, la coscienza, l’anima di un altro uomo.

La logica del silenzio e del deserto è l’umiltà, il camminare lento, l’attesa di Dio e il rispetto del suo mistero, il lasciare che sia Dio a toccare il cuore di ogni uomo, il rispondere ai propri richiami di grazia senza imporre la propria grazia agli altri. “In principio è Dio”, così è scritto all’origine delle tre religioni nell’esperienza di silenzio e di deserto da cui sono nate. In principio non può esserci l’assoluto di un uomo. Non c’è peggior Dio di un uomo che voglia farsi Dio.

Silenzio e deserto parlano di spogliamento, di povertà di spirito, di essenzialità, di interiorità, di apparizione di Dio in tutto il suo fascino, di gioia intima che viene dall’abbraccio di Dio ma che si propaga per irradiazione, non per violenza.

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