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April 24th, 2012:

Educare alla Vita – Education for Life

Ian Stanley ha poco più di 17 anni, al primo contatto è timido, taciturno, riservato, al punto da poter apparire scontroso. Eppure quando è fra i suoi compagni a Kivuli emerge subito come un leader. Non si fa notare, non si mette in mostra, ma in un gruppo di coetanei Ian diventa presto un punto di riferimento. Da quando è arrivato a Kivuli ed ha ripreso la scuola, non solo ha bruciato le tappe recuperando quasi tutti gli anni perduti e riuscendo così a finire la classe ottava lo scorso novembre, ma nella scuola pubblica che ha frequentato è sempre stato capoclasse, e negli ultimi due anni rappresentante di istituto. Agli esami ha avuto risultati molto alti e ha ottenuto una borsa di studio stanziata da Equity Bank in una delle scuole pubbliche più prestigiose del paese. Il primo giorno di scuola, in gennaio, è stato nominato capoclasse.

Catherine Odongo, 21 anni, anche lei proveniente dalla strada, letteralmente da una vita randagia, in una miseria umiliante che ne avrebbe potuto fare un’eterna vittima, è invece una ragazza della Casa di Anita determinata a diventare sempre più indipendente. Sta già frequentando il primo anno di università, e basta parlare con lei pochi minuti per capire di essere alla presenza di una forza capace di superare ogni ostacolo.

Moses Chimwanga, 23 anni, ha un carattere completamente diverso dagli altri due. È una persona solare, è difficile sorprenderlo senza che sorrida. La sua storia è stata pubblicata lo scorso novembre sul quotidiano inglese The Guardian con il titolo “From street child to college boy” con una foto, ovviamente con un sorriso smagliante, nel cortile di Mthunzi. Per il suo carattere vivace la sua carriere scolastica non è stata così lineare come quella di Catherine e di Ian, ma ce l’ha fatta. I tempi in cui viveva in strada, facendo di tutto pur di riuscire a procurarsi un po’ di alcol da bere o di jenkem (solvente per vernici) da sniffare, sono un ricordo vivido ma superato.

Tre belle storie, tre persone straordinarie che ci convincono che il sostegno che abbiamo dato loro e che continuiamo a offrire con passione e amore a tanti altri bambini di strada a Kivuli, alla Casa di Anita, a Mthunzi è ampiamente ripagato.

Ma non possiamo evitare qualche riflessione. Innanzitutto misurare il successo di un’educazione alla vita, come quella che noi intendiamo offrire, col solo metro dei risultati scolastici sarebbe sbagliato. Ci sono tanti ragazzi che sono passati dalle nostre case e che non hanno avuto grandi successi accademici o che, a causa della loro storia e dei loro limiti personali, hanno smesso di studiare alla fine della scuola dell’obbligo. Ma sono meccanici, sarte, segretarie, falegnami, camerieri e cuochi che si guadagnano la vita onestamente e dignitosamente.

Non ci piace la mentalità prevalente in Kenya, dove i giornali pubblicano con grande risalto i risultati scolastici della classe ottava e della dodicesima (rispettivamente ultima classe della scuola primaria e ultima classe della secondaria). Per diversi giorni in prima pagina ci sono le foto dei migliori studenti a livello nazionale e nelle diverse province, con la classifica delle scuole che hanno avuto gli studenti migliori. Per le scuole è motivo di vanto – e soprattutto di guadagno, visto che quasi sempre le prime sono scuole private – essere nei primi posti in questa classifica. Nei giorni successivi non mancano mai, sempre riportati con evidenza, i casi di studenti che si suicidano perché non sono passati o non hanno avuto i risultati che si aspettavano. È un’educazione pensata e vissuta come strettamente funzionale ad un tipo di società che esalta la competizione e il successo. Gli esami sono test scritti, uguali per tutti gli studenti a livello nazionale, col risultato di confondere spesso educazione con memorizzazione. Se agli insegnanti, alle scuole e ai genitori interessa solo che gli studenti passino gli esami con voti alti, non c’è una vera educazione alla vita, destinata all’intera persona umana.

La Carta Africana dei Diritti e il Benessere del Minore (1990) è una lunga lista di speranze disattese. Ma è una buon punto di partenza per vedere quali dovrebbero essere gli obiettivi di un sistema educativo statale. Le prime righe dell’articolo 11 affermano che «ogni bambino ha diritto ad un’educazione. L’educazione del minore deve essere volta alla promozione e allo sviluppo della personalità del minore, dei suoi talenti e capacità fisiche e mentali, in tutto il loro potenziale, ad alimentare il rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali».

Troppo facile constare che invece in Kenya, in Zambia, in Sudan, là dove siamo presenti, il sistema educativo è ben lontano dal raggiungere tutti i bambini, e che quando li raggiunge non li educa, non li abitua a ragionare con la propria testa e a sviluppare uno spirito critico, a scegliere i valori che daranno forma alla loro vita: semplicemente li indottrina, o li ammaestra.

Gli esclusi, i marginalizzati, non hanno bisogno di un sistema educativo che li confermi nella certezza del loro senso di inferiorità e li convinca delle loro inadeguatezze. Hanno bisogno di una mano amica che offra loro la possibilità di educarsi, di e-ducere da se stessi le potenzialità della loro persona. Non scopriremo mai abbastanza quanto bene possa fare e quanto Vangelo possa annunciare una mano tesa a un bambino in difficoltà.

Catherine Odongo.

Moses Chimwanga.

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