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July 11th, 2018:

Frammenti di vita nuba (1)

Sono rientrato a Nairobi settimana scorsa da un viaggio di una decina di giorni sui Monti Nuba, in Sudan. Ho tentato di scrivere alcune note ogni giorno, con scarso successo. Registro qui alcune sensazioni e ricordi.

Nella prima fase della resistenza nuba, iniziata nel 1988, si poteva accedere questo territorio solo arrivandoci clandestinamente da Loki, nel nord del Kenya. Da li si sorvolava per circa 1,200 km il Sudan del sud, dove ribelli e governo controllavano il territorio a chiazza d leopardo, atterrando in una delle piste in terra battuta preparate dai ribelli. Dopo l’accordo di pace del 2005 fino al 2011 è stato possibile arrivare ai Monti Nuba anche dal nord, passando da Khartoum e viaggiando via terra, cosa che ho fatto un paio di volte. L’indipendenza del Sud Sudan – che ha visto i Nuba forzatamente collocati in Sudan -e il riesplodere della guerra fra Nuba e il governo di Khartoul a metà del 2011, ha di nuovo negato la possibilità di entrarci legalmente. Il governo di Khartoum ha tentato di sigillare l’area e ancor oggi vieta l’accesso anche gli aiuti umanitari. Così due settimane fa ci sono arrivato prendendo un regolare volo di linea da Nairobi a Juba, dal 2011 capitale dello stato indipendente del Sud Sudan (trascinato in una una insensata guerra incivile da un gruppo di criminali), poi da Juba sono andato con un volo umanitario delle Nazione Unite (pagandolo) fino a Yida, nell’estremo nord del Sud Sudan, a pochi km dal confine con il Sudan, e sede di un campo profughi di circa 50,000 persone. Il confine fra Sud Sudan e Sudan per diverse decine di km è controllato dai Nuba e si può entrare nella loro regione, grande come la valle del Po, via terra. Da Yida a Kauda, che funge da capitale dell’area liberata sono circa 180 km di pista.

Fra Yida e Kauda si passa non lontano dal quartier generale dei ribelli. Basta lasciare la pista principale e in pochi chilometri si arriva in una località protetta da colline rocciose. Qui ho incontrato Abdel Aziz Adam Al Hilu, il loro capo. Mi spiega come si sia evoluta la crisi politica interna dello scorso anno e come lui sia stato rieletto. Racconta come i colloqui di pace col governo di Khartoum siano in fase di stallo. “Siamo in una situazione di no peace, no war”. Non c’è pace e non c’è guerra, ciascuno sulle sue posizioni, senza scontri. Da oltre due anni l’esercito governativo non tenta di penetrare nel territorio nuba controllato da ribelli, quasi la totalità, ed non effettua più bombardamenti che fino a fine 2015 devastavano sopratutto le aree più fertili, creando uno stato di carestia perché i contadini non potevano lavorare i campi. Come mai? “Hanno troppi fronti aperti – commenta – oltre a Darfur e Ingessena Hills c’è la Libia, e il loro impegno maggiore che è in Yemen, a sostegno dell’Arabia Saudita, dove combattono molti militari sudanesi, evitando ai sauditi di correre rischi. In cambio ricevono aiuti economici e militari e consolidano la loro alleanza servile con Riad”. Il colloquio è lungo, anche perché mi accorgo solo in ritardo che pure lui sta diventando un po sordo, e dobbiamo ripeterci.

Riprendendo il viaggio verso Kauda dobbiamo fare un lungo giro per evitare 20 km di strada che la prime piogge della stagione, a metà giugno, hanno reso impraticabile. La pista si snoda ai piedi delle colline, solo ogni tanto si arrampica un po sulla costa per evitare fango e acque ristagnanti. Passiamo Lado, che prima dell’accordo di pace del 2005 era sempre stato in mano governativa, un villaggio trasformato in guarigione militare. Poi dopo neanche cinque minuti di strada mi ritrovo in un posto che avevo visitato oltre vent’anni fa, indimenticabile. Un villaggio a mezza costa sulla collina. di forse 100 capanne coniche, tetto spiovente, vicinissime una all’altra, come per proteggersi. Appena più a valle c’è un bosco di 30 o 40 enormi piante di mango. Sembra un’illustrazione per un libro di favole nuba. Qui avevo passato una notte, credo nel 1999, con due amici italiani. Siamo arrivati stremati dalla stanchezza, (allora ci si muoveva solo a piedi), salutato stringendo mille mani (ma quanta gente vive in queste poche case?), mangiato alla luce di un fuocherello ciò che la gente ci aveva portato e il mattino successivo nel bosco di manghi avevo celebrato Messa e battezzato alcun bambini i cui genitori erano stati preparati da un catechista locale. Una gioia incontenibile. Una mamma che mi porge un bebè da battezzare mormorando qualcosa fra le le lacrime che il catechista mi traduce “lo chiamo John Fenzi, come il comboniano che ci visitava quando io ero piccola”. Adesso il villaggio è vuoto, tutti sono a lavorare i campi nella speranza che le piogge continuino e portino un abbondante raccolto.

Yunan, l’accompagnatore nuba di vent’anni fa, ci aveva raccomandato di non fare un fuoco troppo grande la notte e di non lasciare che la gente facesse canti a voce troppo alta durante i battesimi, perché i governativi non erano lontani e avrebbero potuto vederci o sentirci. Erano ormai quattro anni che ogni due o tre mesi andavo a fare passeggiate sui monti Nuba ed avevo penato che Yunan stesse esagerando perché i due giornalisti italiani potessero aggiungere pathos al loro reportage
Adesso, mentre la vetusta 4 ruote riparte, mi rendo conto che davvero avevamo corso un gran rischio. Lado in linea d’aria è e meno di due chilometri. Se solo un informatore avesse riportato la nostra presenza saremmo stati fatti prigionieri con un’azione di pochi minuti.
(Continua)

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