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Frammenti di vita Nuba (4)

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A Gidel il dottor Tom Catena cura ammalati e feriti dei Monti nuba da oltre dieci anni. Il suo è un servizio che nasce dalla fede cristiana in modo cosi evidente che la rivista americana Time ha parlato di lui come di un “living saint” un santo vivente, e nel 2016 lo ha inserito nella lista delle 100 persone più influenti al mondo. A lui di questo non importa molto, ed essendo l’unico dottore in un’area di mezzo milione di persone, la sua giornata nell’ospedale “Mother of Mercy”, dove ci sono anche tre suore comboniane africane, è spesa nel consultorio e in sala operatoria. L’ho incontrato diverse volte e c’è fra di noi una certa complicità per il legame che entrambi abbiamo con questo popolo. Ora che le situazione è abbastanza tranquilla e che ha trovato qualcuno che lo può sostituire – risultato dell’articolo del Time – si è permesso una breve vacanza casa, negli Stati Uniti, da dove è appena tornato. Proviene da una famiglia molto unita, di origine siciliana. Ma perché ritorni sempre qui, Tom? “Una cosa che mi ha colpito molto del Nuba è che sono persone orgogliose, indipendenti, franche e per questo mi hanno sempre trattato alla pari. Mi piace il fatto che anche una donna anziana che non ho mai visto mi chiami per nome, non si rivolga a me come “dottore”, e non mi tenga a distanza come un estraneo. Poi la connessione forte è nata condividendo bombardamenti, paure, sofferenze. Dopo qualche anno questo legame è diventato fortissimo, e mi sento sempre più in comunione con questa gente dimenticata dal mondo”. Questa comunione è visibile anche nella casa in cui vive, in pietra col tetto di paglia. Unico lusso per il dottore è un telo di plastica nera sistemato sotto la paglia, per proteggere da ospiti indesiderati come scorpioni o serpenti. E’ preoccupato per gli sviluppi recenti “Il governo di Kharotum è abilissimo nel manipolare la gente. Certamente ci sono in giro spie di Khartoum che cercano di fomentano conflitti. I Nuba sono molto uniti, ma sappiamo tutti quanto male possano fare i seminatori di zizzania.”

Per arrivare a Gidel ho percorso in quaranta minuti d’auto i quindici chilometri di pista che fra il 1995 e il 2006 ho fatto a piedi oltre una cinquantina di volte. Ne conoscevo ogni metro, ogni collinetta, ogni cosa che mi poteva servire da punto di riferimento e segnalarmi che mi stavo avvicindo alla meta.

Avevo due punti fissi. Dopo circa cinque chilometri c’era un grande baobab che poi nel 2000 crollò di lato. I baobab sono imponenti ma deboli, il tronco è di legno spugnoso e capita che dentro si svuoti e poi improvvisamente, quando ha magari un paio di metri di diametro, l’albero cade di lato sotto il suo stesso peso, e marcisce. Il legno non serve a nulla, non per costruire e neanche per fare fuoco. Questo particolare baobab, coricato sul fianco e vuoto all’interno, per anni servì di rifugio notturno alle sentinelle dei ribelli che sorvegliavano l’inizio della valle di Komu. Avvicinandomi al posto pensavo che non l’avrei più trovato. Invece eccolo, ha addirittura generato tre nuove piante, là dove il vecchio tronco ha toccato terra! Non ho mai visto un baobab cosi testardo. Autentico simbolo della resistenza nuba, della vita che continua e vince la morte.

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L’altro punto di riferimento dopo altri 5 chilometri era un enorme mango. Qui, un caldissimo pomeriggio di qualche anno fa, Gian Marco ed io ci sdraiammo esausti alla sua ombra, incuranti dei ricordi lasciati da un gregge di capre, giurando che non saremmo mai più fatto quel percorso a piedi in pieno giorno.

Più avanti c’è un bosco. In tempo di guerra, in piena notte, stavo andando a Kerker con un catechista, naturalmente a piedi, quando un un razzo segnaletico rosso si alzò dal quel bosco. Sapevamo entrambi che i ribelli non avevano in dotazione nulla del genere. Era una pattuglia governativa? Io sperimentai per la prima volta cosa vuol dire l’espressione “ghiacciare il sangue”, e anche “mettere le ali ai piedi”.

Sono venuto a Gidel per visitare l’Yusuf Kuwa Teachers Training Insitute, che Koinonia con un finanziamento dell’8×1000 delle Chiesa Cattolica ha costruito nel 2001 e sostenuto per diversi anni. Grande disappunto quando mi dicono che ha chiuso l’anno accademico proprio ieri. Tutte le scuole di tutti i livelli cominciano i tre mesi di vacanza all’inizio della stagione delle piogge, per permettere agli studenti di lavorare nei campi con la famiglia. C’è bisogno di tutte le braccia per assicurarsi che al tempo dei raccolti più importanti – novembre dicembre gennaio a seconda che si tratti di durra, mais, girasole, sesamo, noccioline o fagioli – si possa festeggiare in abbondanza la fertilità della terra e la cura che Dio ha per le sue creature.

C’è ancora un tempo prima del buio. Convinco l’autista ad andare a Sarbule, bisogna girare intorno ad una catena di colline e ci vorrà un’ora. Incredibilmente arriviamo mentre sta per chiudersi la celebrazione di fine anno scolastico. Evitiamo di attraversare un wadi che potrebbe essere pericoloso e facciamo l’ultimo tratto a piedi. Vedo gli edifici della scuola molto degradati, ma la scuola è viva, studenti, maestri e parenti sono in un grande cerchio e stanno distribuendo i premi ai migliori alunni: un quaderno nuovo nuovo al miglior maschio e alla migliore femmina di ogni classe. Quando mi vedono il cerchio si scompone, devo stringere la mano a tutti, fare l’inevitabile discorso. Li ringrazio per l’impegno che ci mettono a mandare avanti la scuola con le solo loro forze, e ascolto tante sentite parole di bentornato. L’ultimo a prendere la parola è Matta, l’anziano capo-villaggio di Kerker, che conclude dicendo “Tu ti muovi troppo, tu vuoi bene a troppe altre persone. Adesso che sei qui non ti lasciamo più andar via, devi restare qui fino al tuo ultimo giorno”. Con esagerato sfoggio di autorità intima all’autista di andar via senza di me. Grande applauso. E’ una prospettiva allettante, e quasi mi dispiace che si convincano troppo facilmente che oggi proprio non posso restare, ma devo promettere che la prossima volta, davvero, tornerò per restarci.

Mi guardo intorno: i volti degli anziani scavati dalla fatica, i piccoli con occhi luminosi di speranza. Quasi tutti a piedi nudi, vestiti con abiti sdruciti che prima di arrivare qui probabilmente hanno girato mezzo mondo. Cosa faccio qui con loro? Cosa mi posso illudere di fare insieme a questi perdenti? Niente, assolutamente niente. Semplicemente questa è la gente che mi vuol bene e riempie di senso la mia vita. Sarei io a essere perso, inutile, senza di loro.

(continua)

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