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Le Guerre e il Regno dei Cieli

“Padre, come si fa a vivere con questo salario?” Teresa è una mamma con due figli e un marito dileguatosi da tempo nell’immensità di Kibera. E’ fortunata perché ha un lavoro regolare con uno stipendio di 12,000 scellini al mese, che molti se lo sognano. Già, come si possa vivere con 12,000 scellini al mese, che sono quasi esattamente 100 euro, con due figli, è difficile da capire.

In un post di ieri, ragionando sul deterioramento della situazione economica a Nairobi e sulla difficile scelta che la ONG Amani ha fatto anni fa di dare pasti sostanziosi (oltre ad affetto, educazione e cure mediche) ai bambini ospiti nelle nostre case di Nairobi, Antonio Spera ha scritto:

“Nel supporto alla comunità locale qui a Nairobi c’è anche l’acquisto delle cosiddette commodities: farina per preparare l’ugali (la polenta locale), olio per cucinare, the, riso locale, sale, zucchero, sapone solido per lavare i panni. Di questo parliamo. Un decimo di un qualsivoglia paniere nazionale. Questo è ciò che viene acquistato per la gestione ordinaria dei centri, per quello che viene chiamato family support all’interno di un più complesso programma di reintegro dei bambini e delle bambine più vulnerabili all’interno del loro nucleo familiare.
Analizziamo: 1 litro di olio di semi da gennaio a luglio passa da 205 scellini kenyani a 395. Ancora? La farina locale per l’ugali da 97 a 202; riso da 90 a 140; una bustina di sale da 10 a 20 scellini; lo zucchero da 95 a 130 scellini e infine una comunissima barra di sapone per lavare i panni, quando c’è l’acqua, da 160 a 210. Di questo stiamo parlando. L’abc della spesa. Facciamo i conti facili facili: quella stessa spesa a gennaio ti costava circa € 7,50 e ora ti costa circa € 11,50”.

Questa spesa, sottolineo io, è per un litro di olio, due chili di farina di polenta, mezzo chilo di sale, un chilo di zucchero e una barra di sapone per bucato più economico, che viene usato anche per l’igiene personale perché la saponetta profumata è un lusso. Ben lontano dal bastare per un mese per una donna con due figli. E il resto? Proteine di fagioli o uova o carne? Verdura e frutta fresca? L’acqua che devi comprare in tanche perché in casa non c’è? La carbonella per cucinare? Qualche vestito e scarpa sia pure occasionalmente lo si compra o no? L’affitto, quell’incubo mensile?

Le conseguenze economiche delle crisi internazionali, Covid e guerra Russia-Ukraina, e della siccità che sta progressivamente inaridendo i pochi pascoli rimasti e uccidendo il bestiame nel nord del paese, sono devastanti. Eppure oggi, aprendo il più diffuso quotidiano locale non ne trovo cenno. Già, il quotidiano lo comperano solo i benestanti.

Che campeggia nei quotidiani sono le elezioni per la Presidenza, il Senato e il Parlamento, che si terranno il 9 agosto. Elezioni che nella recente storia del Kenya sono sempre state occasioni di tensioni sociali capaci di esplodere in violenza generalizzata. Ai disperati si vorrebbe far credere che il loro destino dipende dalla vittoria elettorale di un rappresentante della loro etnia. La vera divisione invece non è fra gruppi etnici, o fra gente che ha il colore della pelle diverso.

“Teresa, lo chiedo io a te, come puoi vivere con 12,000 scellini al mese”. Sorride. “Mia mamma dal villaggio ogni tanto mi manda del cibo, una gallina, un sacchetto di fagioli, qualche uova. Ci aiutiamo. Anche con i vicini”. Vicini che vivono come lei, ogni giorno una lotta. La necessità ci fa riscoprire che abbiamo bisogno degli altri e gli altri hanno bisogno di noi. Per tutto, non solo per mangiare. Per sentirci persone umane.

Però ci sono situazioni in cui la solidarietà fra poveri non basta più, i beni che la gente di Kibera ha a disposizione non sono più sufficienti neanche se condivisi. Lo si vede dai segni di fame cronica, i volti emaciati, i bambini smagriti che non hanno più voglia di giocare. I tentativi di suicidio in aumento. Troppa gente è al limite della disperazione.

E’ una delle tante crisi che vengono dal di fuori, e della quali i poveri sono vittime. I “grandi e potenti di questo mondo” di questo ventunesimo secolo sono regrediti e conoscono solo violenza e guerra per risolvere le loro dispute. La guerra Russia-Ukraina, al di la di tutte le considerazioni geo-politiche, ci spaventa perché oscura nei poveri e nei giovani l’orizzonte della speranza, e rallenta il cammino verso l’umanizzazione – il Regno dei Cieli che è già in noi lo chiamava Gesù – che vogliamo testardamente percorrere.

Laudato Sì

Adagio adagio, quatti quatti, con la lentezza che tanti pensano sia tipica dell’Africa, destreggiandoci fra siccità, inondazioni, colera e coronavirus, a Lusaka abbiamo quasi completato il centro/scuola di agricoltura organica che avevamo sognato tanti anni fa, e cominciato a costruire nel 2012, sul grande terreno di Koinonia dove sorge anche Mthunzi. Dopo l’enciclica di papa Francesco chiamarlo Laudato Sì è stata una decisione unanime.

In questi otto anni siamo andati avanti con il contributo di molti amici, inclusa una fondazione spagnola, un’associazione di volontariato italiana, un’associazione francese e infine una fondazione italiana. Senza contare il contributo di amici vari. In modo particolare vorrei ricordare due amici romani di lunghissima data. Li ho conosciuti giovani studenti nei primi anni 70 a Roma, sono stati poi tra i soci storici della piccola Koinonia Onlus a Roma, si sono sposati hanno avuto tre figli ed hanno anche avuto la gioia di vedere un nipote prima di lasciarci prematuramente, Daniela agli inizi dello scorso anno e Michele Clementelli pochi mesi fa. Hanno sempre accompagnato Koinonia con impegno e affetto e Michele aveva desiderato che durante la messa per Daniela fossero raccolti degli aiuti per arredare la nascente Laudato Si. Amici cosi rendono più leggere il cammino.

Costruendo la Laudato Sì, abbiamo conosciuto e iniziato a collaborare con Plant a Million, un’organizzazione zambiana che promuove le buone pratiche agro-forestali, e insieme a Plant a Million abbiamo pensato di coinvolgere un’università che ci permetterà di offrire corsi per piccoli gruppi altamente qualificati. La registrazione dei corsi con il Ministero dell’Educazione è in stato avanzato e il primo gruppo di studenti dovrebbe arrivare entro fine ottobre. Da allora Laudati Sì potrà anche garantire un formazione di basa all’agricoltura organica a tutti i ragazzi di Mthunzi. Il primo direttore sarà David Mubita, arrivato nel 2002 ancora bambino a Mthunzi, che è sostentuto da Amani, e che poi ha frequnetato la scuola superiore sostenuto,come tanti altri studenti di Mthunzi dagli amici scozzesi di ZamScotEd. Quando in dicembre i bambini mangeranno i manghi che nel video si vedono in fiore, gusteranno il sapore dell’amicizia di mezza Europa.

Fiori e figli

Ieri mi sono svegliato a Lusaka, pronto per andare in aeroporto e rientrare a Nairobi. Esco nel grande cortile interno per salutare i bambini e – sorpresa! – vedo che la grande jacaranda ha deciso di iniziare lo spettacolo annuale proprio stamattina: aveva perso tutte le foglie già da parecchie settimane, oggi, col primo sole, è esplosa un una nuvola di fiori blu. Continuerà a fiorire, finché le prime piogge a fine ottobre faranno cadere gli ultimi fiori, e solo allora appariranno le nuove foglie.

Vicino alla jacaranda mi aspettano Martin, Godfrey ed Innocent, che hanno voluto farmi un’altra sorpresa prima della mia partenza: hanno in mano la tanto agognata carta d’identità. Nel loro caso hanno dovuto aspettare per dimostrare di avere almeno 18 anni, e vogliono che le legga ad una ad una, perché adesso si chiamano Martin Nkhoma Sesana, Godfrey Kasongo Sesana e Innocent Tembo Sesana. Con tre tipi così la discendenza della famiglia Sesana è assicurata. I tre ragazzi hanno alle spalle delle storie tormentate, solo a Mthunzi si sono stabilizzati ed hanno costruito una loro identità. Non sono diventati stinchi di santi, semplicemente dei ragazzi semplici, pieni di sogni e felici di essere al mondo come tnati altri. Avevamo pensato che forse un’adozione formale avrebbe potuto dar loro un senso di appartenenza più solido, ma poi eravamo rimasti frenati dai possibili costi. Loro hanno risolto brillantemente la situazione: quando un operatore sociale di Mthunzi li ha presentati all’anagrafe, garantendo che sono cresciuti con noi negli ultimi cinque anni, al momento di dichiarare il loro nome, seri seri, hanno aggiunto Sesana, ai nomi di origine abbastanza incerta che già avevano. Senza batter ciglio l’ufficiale ha fedelmente registrato i nomi sui documenti.
“Padre”. Quasi sempre è un appellativo che si da, e nel mio caso si riceve, per abitudine. Raramente essere chiamati “padre” diventa un dono cosi prezioso e impegnativo.

Sabato sera durante la messa avevo ricordato che papa Francesco pubblicherà presto un nuova enciclica intitolata “Fratelli tutti” che dovrà diventare un testo da conoscere bene per tutti i membri della comunità a per i nostri giovani. Koinonia, fraternità, insieme, comunità, solidarietà, pace, giustizia, corresponsabilità sono parole che tornano sempre nei nostri discorsi e nelle nostre visioni e Francesco ci aiuterà a capirle meglio Poi dopo cena, i ragazzi, con uno spettacolo di acrobatica che ha coinvolto anche alcune delle figlie piccole dei membri della comunità, hanno dato un esempio di cooperazione, coinvolgimento, fraternità molto più efficace del mio fervorino.

La vita, a Mthunzi e in tutta Lusaka, si è adattata al coronavirus. I numeri in termini di morti (295) dall’inizio dell’epidemia sono molto ridotti. Obbligo di mascherina osservato in strada e nei luoghi pubblici, acqua e sapone per lavarsi le mani ovunque, distanziamento fisico un po meno osservato. A Mthunzi i ragazzi delle classi 9 e 12 continuano regolarmente a frequentare le lezioni nella vicina St. Columba?s Secondary School. La “curva” si sta appiattendo e non è escluso che prima della fine di questo mese riaprano anche tutte le altre classi.

Nelle ultime due settimane ho scritto poche righe al giorno – mentre mi preparavo per le messe e gli incontri con i diversi gruppi, e inframmentate ad attività apparentemente meno spirituali come insegnare a preparare i chapati keniani, come moltiplicare una pianta di rosmarino facendone talee supervisionare la piantumazione di altri 50 avocado – del testo che accompagnerà il calendario fotografico di Amani 2021 dedicato proprio a Mthunzi con le straordinarie fotografie di Lorenzo Cicconi Massi. Vi invito a metterlo nella lista dei regali di Natale da fare agli amici più cari.

Laici. Davvero.

Sono da più di una settimana nella Koinonia di Lusaka (Zambia). Ci sono arrivato fisicamente molto stanco e dovendo osservare le due settimane in isolamento ho rallentato i ritmi, prendendomi molto tempo per leggere, anche online. Sono rimasto colpito constatando quanti amici laici cattolici – italiani soprattutto – manifestino opinioni livorose su fatti di chiesa e interventi di preti e vescovi. Li capisco molto bene. Ma mi sembra anche che siano impegnati in un esercizio sterile.

Lusaka mi ha fatto ricordare alcuni momenti degli inizi di Koinonia, lezioni che mi hanno segnato a vita, insegandomi ad essere sempre attento a valorizzare l’impegno dei laici..

Verso la fine del 1981 ero a Lusaka, avevo 38 anni, e mi pareva giunto il momento di consolidare l’esperienza comunitaria che avevo iniziato con sette o otto ragazzi ventenni che ospitavo nella piccolissima casa costruita dal missionario precedente nella parrocchia di Bauleni, la baraccopoli “al di là del cimitero”. Era considerato il posto degli esclusi, come lo è ancora oggi, ed oggi vi è presente un laico italiano, Diego Mwanza Cassinelli, seriamente impegnato in un lavoro di promozione umana integrale. Nel 1981 i ragazzi si domandarono: “Dove andremo in futuro? Non possiamo stare per sempre nella casa del prete”. La diocesi possedeva a Bauleni ben 100 acri di terra e il vescovo era Emmanuel Milingo, che sarebbe diventato famoso dopo pochi anni per le sue attività di guaritore, e non solo. Andai dal vicario generale della diocesi, che era un missionario irlandese più giovane di me, gli spiegai che volevo trovare una sede per quella nascente iniziativa e gli chiesi come secondo lui avrebbe reagito Milingo se gli avessi chiesto di sistemare i ragazzi su in pezzetto di quella terra. Padre Taylor mi rispose che certamente Milingo mi avrebbe dato il permesso, perché mi stimava molto, ma aggiunse “Però secondo me è meglio se vi cercate un vostro pezzo di terra e ve lo intestate come gruppo. Sai com’è, anche i vescovi cambiano parere, o magari ne arriva un altro con idee diverse. Se fra qualche anno ci sarà un vescovo con altre idee e altri progetti per quella terra e vi vorrà sloggiare vi trovereste nei pasticci”. Cercammo. Dopo meno di un anno avevamo ricevuto in dono da una signora i cento acri che sono ancora oggi la sede di Koinonia. La famiglia Goodfellow aveva lasciato il Sudafrica in protesta contro l’incarceramento di Mandela. Il marito allevava cobra e serpenti vari per estrarne e commercializzarne il veleno ed era morto alcuni mesi prima. Due figli erano diventati preti anglicani.

Altri 4 anni, e due dei ragazzi si erano sposati. La piccola comunità di laici -. insegnanti, contadini, falegnami – si stava ulteriormente consolidando ed io, ancora sotto gli effetti della mentalità clericale che avevano disperatamente cercato di inculcarmi durante la formazione, mi posi il problema di far in qualche modo registrare l’iniziativa nella chiesa locale. Volevamo una “carta” dal vescovo. Milingo e il suo profetico vicario generale erano stati trasferiti, allora andai a chiedere un parere ad un gesuita, anche lui irlandese, che era incaricato dell’ufficio laici nel segretariato della conferenza episcopale zambiana. Padre Cremins mi ascoltò attentamente e alla fine disse più o meno: “Ma chi ti ha detto che per fare qualcosa di buono bisogna farlo registrare da un vescovo secondo qualche canone del diritto canonico? Certo per operare avete bisogno di una personalità giuridica. Registratevi come fondazione qui in Zambia e andate avanti così, e che Dio vi benedica”. E così fu. Koinonia fu registrata in Zambia come Charitable Trust o Fondazione..

Da allora non mi posi più il problema della registrazione di Koinonia, e quando re-iniziai in Kenya ci facemmo semplicemente registrare come Charitable Trust secondo le leggi del paese. In Sudan e Sud Sudan gli stravolgimenti provocati dalla divisione del paese e dai successivi eventi sanguinosi hanno fatto fallire – finora – i nostri tentativi di registrazione.

I problemi sia in Zambia che in Kenya non sono mancati, nati da nostre incapacità e anche da interferenze esterne, ma sono stati risolti nei termini delle leggi dello stato che valgono per tutti i comuni mortali. Il diritto canonico invece ha procedure non trasparenti, nelle quali la stessa autorità ha anche funzione di investigatore, di pubblico ministero e di giudice. E’ un segno del ritardo che la chiesa ha rispetto al mondo, anche se Papa Francesco sta lentamente ma testardamente muovendosi per accorciarlo. Diciamo che il diritto canonico è fondato sul presupposto che tutti coloro che sono nella linea di autorità siano capaci di gestire la comunità e i conflitti con sapienza e amore. Però se in quella linea c’è chi non ha ne sapienza ne amore allora il diritto canonico può diventare uno strumento che soffoca creatività e libertà.

Ho imparato che non bisogna lasciarsi soffocare. Ho imparato che i laici cristiani hanno molti più spazi di quanto credano, anche all’interno della chiesa. Bisogna averi il coraggio di osare il nuovo e rischiare il fallimento. D’accordo, il contesto in cui Koinonia si è mossa è molto diverso dal contesto italiano. Abbiamo trovato difficoltà diverse e maggiori opportunità. Ma in Italia i laici sono più preparati professionalmente, hanno una adulta consapevolezza dei loro diritti, sanno distinguere meglio i sermoni intelligenti dagli sproloqui. Perché perdere tempo e mareggiarsi la vita in brontolamenti, lagnanze e sarcasmi sulle inadeguatezze del clero?

Oggi è stata una giornata in pieno stile clericale. Al mattino abbiamo posizionato la lastra di marmo sulla base di mattoni cotti dell’altare all’aperto, sotto la cappellina della “Nostra Signora di Koinonia”. Trasformando un angolo che avevamo trascurato per tanti anni in un luogo di quieta preghiera. Vi abbiamo celebrato messa al tramonto, terminandola nel buio e nel silenzio più profondo, quando i canti degli uccelli si erano quetati, e si sentivano solo i rumori degli insetti notturni.

Il Dio delle piccole cose

Oggi i musulmani celebrano l’Id al-Adha, la festa del sacrificio, in memoria di Abramo che sacrificò un montone invece del figlio Isacco dopo essere stato fermato dall’angelo. Una storia molto difficile da capire per noi, ma letta dalla tradizione cristiana prima e musulmana poi come esemplare per l’abbandono alla volontà di Dio.

A Nairobi, dove i musulmani sono una minoranza numerica, la celebrazione non ha un grande impatto, ma sulla costa è molto sentita. Ken Nyangweso nostro operatore sociale nel progetto che Koinonia sta avviando a Kilifi e calciatore professionista (ma in Kenya è più rimunerativo lavorare con Koinonia che fare il calciatore…) mi ha mandato un foto accompagnata da parole commosse perchè stamattina alcuni dei i ragazzini musulmani delle squadra di calcio che ha creato si sono presentati alla porta delle nostra casa con un piccolo dono. Ken li ha accolti con il suo immancabile rosario al collo..

Il nostro è il Dio del lievito, del sale e del seme di senape. Di piccole cose che fanno lievitare, che crescono, che danno sapore. Beato chi sa vederle. Beato chi sa leggere l’azione di Dio e capire le lezioni che ci vengono dai piccoli. Loro vedono il futuro. Se questo non è il Regno di Dio annunciato come presente dal falegname di Nazareth, dove altro lo possiamo trovare?

26 luglio. Coronavirus in Kenya (30)

Nell’ultima settimana c’è stata un’impennata dei casi accertati di Covid-19, che hanno raggiunto i 16,643, e anche dei morti, arrivati ad un totale di 278. Ci sono anche 7,574 guariti. Dall’inizio della pandemia sono anche aumentati i posti letto attrezzati con ventilatori, comunque largamente insufficienti se la situazione dovesse evolversi secondo le previsioni più negative.

La risposta è una crescita in solidarietà. Ieri l’Hindu Council of Kenya, che raggruppa tutte le associazioni della comunità di origine indiana e di religione Indù (molti indiani sono musulmani, e c’è anche un piccolo numero di cattolici) ha organizzato una distribusione di cibo e anche Koinonia è stata invitata: Nella foto Jack Matika, debitamente mascherato, che ringrazia a nome di Koinonia.

Queste sono occasioni di concreto ecumenismo di base che sono più eloquenti delle grandi dichiarazioni. Le grandi dichiarazioni servono e indicano una direzione, tant’è che chi presiedeva la semplice cerimonia ha riecheggiato le parole di Papa Francesco e al termine, salutandoci, mi ha detto di voler continuare ad aiutare Koinonia e di visiate le nostre case. Le dichiarazioni devono essere vissute nella vita reale, altrimenti restano solo parole.

Koinonia in questi mesi ha accettato donazioni da cristiani di ogni confessione, da musulmani, da indù, da credenti nella religione tradizionale africana, e, immagino, anche da agnostici e atei. Non sono sicuro perché al primo incontro non domandiamo la fede di appartenenza ne a chi ha necessità ne a chi si presenta per donare magari un semplice pacchetto di farina per polenta. Noi sappiamo che i nostri giovani ospiti sono di tante fedi diverse, ma la fame è uguale per tutti. Cosi come il dolore fisico e morale, la sofferenza per l’abbandono e l’emarginazione sono uguali per tutti. Il cibo condiviso non ha religione, è il più semplice e forte segno di fraternità.

Ieri, guadandomi in giro nel grande prato fuori dalla sede dell’Hindu Council, constatavo di essere non solo il più vecchio, ma anche il solo non-indiano e non-keniano. Certamente l’unico prete. Eppure a me pare la presenza in momenti come questi sia un modo per essere missionari.

16 luglio. Coronavirus in Kenya (29)

Oliver ha vinto. Ha vinto le allucinazioni che la sera non gli lasciavano prender sonno, ha vinto i fantasmi della strada che tornavano a visitarlo in piena notte, ha vinto i ricordi dell’infanzia che volevano impedirgli di perdonare. Ha vinto perché ha ammesso di aver perso e adesso vuole ricominciare da capo. Forte, determinato. Coi piedi piantati bene a terra. E che piedi! Numero di scarpe non in commercio.

Oliver, 23 anni mi ha dato il permesso di pubblicare la sua foto e un po della sua storia. Era nel gruppo di giovani adulti sgomberati dal centro città su ordine del Presidente, perché considerati un pericolo per l’igiene e la sicurezza e arrivati a Koinonia a fine marzo. Come gli altri, appena arrivato si era buttato sul prato, per stanchezza, ma anche perché, come mi ha confidato, avrebbe voluto sparire negli stracci che aveva addosso, Un mucchio di stracci insieme ad altri stracci. Ma già il giorno dopo aveva capito che a Koinonia c’era una forza che non gli era mai capitato di incontrare. Più forte della sua forza fisica. Ha discusso, ha battagliato con gli altri e ancor di più con se stesso. All’inizio di settimana scorsa, risoluto, mi aveva detto di voler tornare in strada. Ho rispettato la sua decisione spiegandogli che è la sua vita, la deve vivere lui, ma che se avesse deciso di fidarsi ancora di noi ci avrebbe trovati sempre dalla sua parte, Harrison, Besh, io e tutta Koinonia. E’ andato. Poi sabato mi ha chiamato “Padre, volevo mettermi alla prova. Adesso ho deciso di tornare al villaggio” Il villaggio di Olive è vicino al lago Vittoria, il più grande specchio di acqua dolce in Africa e il secondo al mondo. Gli sono rimasti solo una nonna e un cugino, più un pezzo di terra da coltivare. Cosi lunedì mattina è partito, accompagnato da Besh. .

Oliver è il primo del suo gruppo che ha fatto la conversione dalla strada alla famiglia di origine e alla terra. A Dio. Con lui hanno camminato i suoi amici di strada e i ragazzi di Koinonia. Cambiare è in cammino che si fa insieme. Ci sono momenti personali, esclusivi, dove si fa corpo a corpo con Dio, come Giacobbe, tuttavia la più parte del camminare la si fa insieme agli altri. Ci sono momenti di illuminazione, in cui la coscienza coglie una verità, ancora vaga, impalpabile.. Ma poi quella verità deve essere messa alla prova del confronto con gli altri.

Lo sperimentiamo nei momenti serali del dopo cena quanto con tanta allegria, intorno al tavolo, si ricordano episodi della giornata e si parla di giustizia e di solidarietà. Dell’importanza che giustizia, solidarietà e perdono siano sempre insieme. Ieri sera mentre Harrison condivideva una sua esperienza di come sia importante avere un atteggiamento di rispetto per tutti, anche i più piccoli, e ho visto un paio di occhi illuminarsi, mi son ricordato di fratel Valentino Fabris. Era un fratello laico comboniano vecchio stile che non aveva studiato niente ma che negli oltre sessant’anni passati in Africa, fra la gente dei villaggi, aveva distillato una sapienza del cuore che incantava chiunque lo ascoltasse. Rientrato a Verona dalla missione ultranovantenne, nel 2013, immancabilmente concludeva i vivacissimi e colorati racconti delle sue avventure missionarie con “Vedi padre – Valentino parlava sempre ad una persona, anche se erano tanti ad ascoltarlo – se io sono qui – e indicava con la mano una certa altezza – e tu sei qui – e indicava più in basso – è inutile che io cerchi di insegnarti il Vangelo. Non mi crederai mai. Dobbiamo essere così – e metteva le mani allo stesso livello – allora sì che insieme capiremo il Vangelo”.

Così lunedì mattina mentre io partivo in auto verso Kilifi, dove Dimba e Ken stanno avviando un progetto in una piccola comunità di pescatori – esperienza nuovissima per Koinonia che avrò modo di raccontare in altri momenti – Oliver e Besh sono partiti per Kisumu. In una foto li vedete insieme: Oliver, l’ex “bambino di strada” che torna a casa, è quello alto, mentre Besh è quello piccolo. Besh è con noi dal 2005 e adesso è un assistente sociale diplomato che sa mettersi al livello degli altri. Anche se in questo caso fisicamente non lo potrebbe fare neanche alzandosi sulla punta dei piedi.

10 luglio. Coronavirus in Kenya (28)

“Il gioco rischioso di Uhuru” (Uhuru’s risky gamble) titolava il giornale più importante del Kenya lo scorso martedì, riportando la decisione annunciata dal presidente Uhuru Kenyatta in conferenza stampa la sera precedente di riaprire confini interni ed esterni, pur mantenendo il coprifuoco dalle 21 alle 4. Dallo stesso giorno ci si può muovere liberamente su tutto il territorio del Kenya, dal 15 luglio riprenderanno i voli interni, e dal primo agosto i voli internazionali. Doccia fredda il pomeriggio del martedì, quando il ministro dell’educazione ha annunciato che se la situazione non peggiora le università e gli istituti di istruzione superiore (come il nostro Diakonia Institute) possono riaprire a settembre, ma le scuole primarie e secondarie (come la nostra Domus Mariae) rimarranno chiuse certamente fino a fine dicembre. Potranno riaprire a gennaio, che è la solita data di apertura dell’anno scolastico. Gli studenti dovranno re-iscriversi nella stessa classe in cui erano a gennaio 2019. Un anno completamente perso per tutti gli studenti del Kenya. Col rischio che molti studenti di famiglie povere in questi lunghisismi mesi si perdano.

La decisione del governo sembra cercare un equilibrio fra i catastrofisti che continuano a prevedere centinaia o migliaia di morti per le strade in agosto e settembre, e chi vuole far ripartire l’agonizzante economia. Di fatto le statistiche di oggi ci dicono che ci sono stati dall’inizio di marzo 8,973 casi di Covid-19 confermati, 2,657 guariti e 173 morti. Il numero dei morti è ancora inferiore a quello degli annegati durante le alluvioni di febbraio-marzo. Cresce invece il numero di persone, moltissimi giovani, che prima dell’epidemia avevano magari un lavoro decente, e adesso sono letteralmente alla fame. A Koinonia, in particolare a me, pervengono quotidianamente richieste di persone che chiedono solo farina per la polenta. Anche maestre di scuole elementari, gestori di bancarelle, laureati in informatica.

I nostri bambini e ragazzi sono tutto sommato fra i fortunati. Le bambine della Casa di Anita nel periodo di isolamento sono diventate un specie di felice repubblica indipendente, i ragazzi di Tone la Maji studiano al mattino e giocano a calcio il pomeriggio, i grandi che sono a Kerarapon seguono i vari corsi che abbiamo organizzato per loro, catering, saldatori, falegnami. Ristabiliscono i legami con la famiglia attraverso il telefono che abbiamo messo a disposizione. Ieri R***, diciassettenne e magro come un “omena”, i pesciolini essiccati che si mangiano con la polenta, mi tira in disparte e mi mostra uno spiegazzato biglietto da cento scellini (un po meno di un euro) e, usando tutti i trucchetti per intenerire che ha imparato in strada, mi dice “guarda cosa sono riuscito a conservare dalle elemosine che raccoglievo in strada, Vorrei mandarlo a mia mamma con Mpesa (il sistema telefonico per trasferimento di denaro). L’ho chiamata e mi ha detto che ha fame, ma se tu me lo raddoppi sarà più contenta…”.

Per alcuni maggiorenni abbiamo fatto un contratto con una scuola guida perché possano avere la patente auto. Solo due o tre sembrano non fare progressi, ed uno ha dato segnali di squilibrio mentale, costringendoci a ricoverarlo in un un ospedale psichiatrico, da dove è tornato ieri in condizioni che sembrano stabili. Per molti di loro il problema di base è l’autostima. Non hanno la percezione di essere vittime. Piuttosto si sentono colpevoli. Colpevoli di essere scappati da una casa dove magari erano abusati, colpevoli per non essere mai andati a scuola, colpevoli per aver fatto piccoli furti per mangiare. Hanno interiorizzato il disprezzo che “la società” ha per loro. E’ una vecchia storia. Scriveva Frantz Fanon un secolo fa che la cultura dominante (nel suo caso in Francia) fa si che i dominati interiorizzino il disprezzo che il dominatore ha per loro. Il caso di questi ragazzi è lo stesso, si sentono inadeguati ad essere parte di una società che per anni li ha scartati e dimenticati. Bisogna camminare al loro fianco perché possano riscoprire la loro dignità e il loro valore.

3 luglio. Coronavirus in Kenya (27)


Il giornale di stamattina diceva che ad oggi, dai primi di marzo, ci sono in 6,673 casi confermati, 2,889 guarigioni e 149 decessi. Gli esperti prevedono un drammatico peggioramento in agosto e settembre. Ma nell’ambiente in cui vivo, fra le persone che conosco, la percezione diffusa è che il pericolo sia passato e si dovrebbero riaprire le scuole, i ristoranti, e le altre istituzioni che sono state chiuse all’inizio della pandemia, sopratutto che finiscano le restrizioni sui viaggi interni. I viaggi all’estero via aerea sono il privilegio di pochi, e non sono un problema per i miei amici. Stiamo facendo fatica a mantenere Kivuli chiusa, la vita dall’esterno preme sul grande cancello blu.

Già due settimane fa Alex, un sedicenne di Tone la Maji, mi ha chiesto di essere circonciso. Mi sono consultato con gli operatori e la richiesta ci è parsa ragionevole, addirittura un bella idea per approfittare di queste vacanze forzate, visto che di solito la completa guarigione dalla circoncisione richiede dall’una alle tre settimane. Altri si sono aggregati, abbiamo ottenuto il consenso dei genitori, e mercoledì della scorsa settimana un gruppo di 14 ragazzi è stato circonciso dal nostro personale medico del Kivuli Dispensary.

La circoncisione nelle tradizioni di molti popoli africani – con elementi particolari molto diversi – segna il momento di passaggio dall’infanzia all’età adulta, e a fa parte di un periodo di iniziazione in cui solo alcuni anziani maestri di vita possono stare insieme agli iniziandi e li istruiscono sui comportamenti e sopratutto sui doveri che un uomo ha verso la comunità. Al termine dell’iniziazione c’è una festa comunitaria per l’accoglienza dei neo-adulti.

Nella vita tradizionale l’iniziazione era un rito di importanza difficile da sopravalutare, e creava coesione sociale, solidarietà, senso di comunità. In città è sopravvissuta solo la circoncisione, anche perché promossa in quasi tutta l’Africa nera dai governi, in base a studi fatti durante la precedente pandemia, quella di HIV- AIDS, che l’abbinavano ad una diminuita diffusione della malattia.

Fra i nostri ragazzi tutto è andato bene e naturalmente abbiamo cercato di dare un significato a quato momento, sottolineando l‘importanza dei valori della tradizione e facendo con loro lettura del breve racconto delle circoncisione di Gesù e anche degli Atti degli Apostoli dove si riporta la decisione degli apostoli che la circoncisione può essere eseguita ma non è obbligatoria. Abbiamo soprattutto insistito sui doveri di un cristiano adulto.

Non siamo i primi a scopriere che la Cresima ha una affinità particolare con i riti tradizionali di passaggio che erano comuni, con circoncisione o senza, a tutte le etnie africane, ma, da quel che so, i tentativi di inculturazione in questa direzione hanno incontrato profonde resistenze. Come tutto il processo di inculturazione che ironicamente – o tristemente? – è stato bloccato dopo la celebrazione del primo Sinodo Africano nel 1994. Si sono fatti più progressi o per lo meno più tentativi, nel “cristianizzare” i riti, molto meno praticati, che venivano fatti per le ragazze a comportavano anche le inaccetabili mutilazioni genitali.

Oggi, conclusione seconda settimana di corso di catering, H*** un quasi trentenne che è arrivato a Nairobi otto anni fa dal villaggio nell’assurda speranza di trovare lavoro e invece è finito quasi subito in strada, annuncia a tutti: “Non sono mai rientrato al villaggio perché mi vergognavo. Partendo avevo promesso a mia nonna che da Nairobi le avrei inviato dei soldi per essere tranquilla nella sua vecchiaia. Adesso sono felice, mi impegno al massimo e so che presto la potrò aiutare”. La forza dell’amore delle nonne! H***, come la maggioranza di questi ragazzi appartiene alla generazione che è stata allevata dalle nonne perché i genitori erano morti per l’AIDS.

La foto è un attimo rubato durante la Messa di domenica scorsa. Come d’abitudine tutti i ragazzi di Tone la Maji erano curvi, il volto fra le mani, nel momento della preghiera dei fedeli, con tanti interventi di preghiere anche molto lunghe…. interminabili. Ad un certo punto alzo la testa, mi guardo in giro, e vedo il piccolo Kevin, che seminascosto dalla schiena del vicino mi lancia uno sguardo d’intesa. Non ho resistito, ho preso il telefonino che era in modalità silenziata ed ho scattato questa foto. Chiedo pietà ai liturgisti. Spero nessuno mi denunci alla santa Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Ma se la forza della preghiera si misura con l’amore lo squardo di Kevin mi rassicura. Non sarò condannato.

26 giugno. Coronavirus in Kenya (26)

Oggi un gruppo di tredici ragazzi maggiorenni del gruppo riscattato della strada in situazione di emergenza ha completato la prima settimana di corso pratico di ristorazione, organizzato da Diakonia Institute per dieci settimane. Molto lavoro in cucina, servizio in sala e nozioni di management, tutto a Shalom House e Baraza Café. Come gestire un piccolo ristorante – o eating point – e quali sono i permessi da ottenere e le tasse da pagare.

Per necessità logistiche sono ospitati a Kivuli. Ogni mattina fanno una camminata di 30/40 minuti fino a Shalom, e alle 9 iniziano a lavorare, in gruppi, al forno o in cucina. Parte della lezione è preparare il loro pasto, e aiutare a servire al tavolo gli eventuali clienti, pochi in questi giorni. Si sono subito appassionati. Oggi mi hanno voluto servire il pasto preparato da loro, un hot dog con riso pilau.

Oggi S***, che sta ancora imparando ad usare forchetta e coltello, a fine pasto nel nostro immacolato – se cade una briciola fanno il turno a pulire – ma modesto Baraza Café guarda stupefatto il suo piatto vuoto, poi mi dice, “Grazie padre, è la prima volta in vita che mangio in un ristorante. Finora li avevo visti solo in televisione”. Quale televisione? Quelle che i negozianti espongono accese in vetrina o sulla strada per attirare i clienti. I vestiti sporchi, il sacco con i rifiuti di metallo o plastica che poi andranno a vendere, i bambini di strada che guardano queste televisioni sono essi stessi uno spettacolo. Assorbono ogni dettaglio delle telenovelas che vanno tanto di moda, sognando un mondo fasullo che non sarà mai il loro. Per fortuna.

La vita che loro portano è molto più bella e genuina. La loro presenza ha fatto rivivere Kivuli, temporaneamente privato della presenza dei bambini. Le scatenate partite di pallacanestro sullo sgangherato campetto, i capannelli che parlano di calcio, i fanatici di reggae che in nel salone ballano senza sosta intono ad un computer che ripete all’infinito Buffalo Soldier, mentre i due di turno in cucina di danno da fare a praticare l’arte imparata il mattino, perché a tavola non ci saranno solo loro tredici, ma anche i tre ragazzi che ancora vivono a Kivuli, Peter con il suo eterno problema alla gamba, e stasera anche sette ragazzi Sud Sudanesi ed Evelyn, la responsabile di Kivuli.

Tutto intorno al grande tavolo nel locale che a Kivuli è conosciuto come “Italian Restaurant”. Dileggi e risate e non finire ricordando gli impacci e gli errori di ognuno durante la pratica in cucina, lo stupore del cliente che si vede attorniato da sei camerieri, il rimprovero del capocuoco/istruttore Kasanga che ha sorpreso uno di loro che si si era fatto una fetta di pane e marmellata… Poi si alza J*** al quale da quando è arrivato non ho sentito dire più di 10 parole, con un cenno chiede il silenzio e recita una preghiera in inglese impeccabile. Applauso generale, J*** si guarda in giro e dice in un inglese non più perfetto perché improvvisato qualcosa tipo “Io chiedo scusa perché qui siete tutti troppo miei amici”. Altre risate, e M*** lo corregge “Non dovevi dire chiedo scusa, ma vi ringrazio”. J*** accetta la correzione con un sorriso, e non si azzarda a dire altro ma con un cenno invita ad incominciare il pasto. Spaghetti aglio olio peperoncino con contorno di cavoli stufati. Cala il silenzio. Il cibo lo si mangia con rispetto, quasi con devozione.

Ma cosa c’entra organizzare un corso di cucina con fare il missionario? Forse non c’entra niente con “fare il missionario” ma c’entra molto con l’”essere missionario”. E se non lo capisci io non posso spiegartelo, perché non lo capiresti mai, anche se te lo spiegasse un grande biblista. Ma ci provo. Le parole possono spiegare il Vangelo e approfondire la fede di chi già crede, solo eccezionalmente lo comunicano. Essere missionario è creare fraternità. Solo lo stare insieme, il vivere fianco a fianco, il condividere, l’amore vissuto possono comunicare il Vangelo. Questo è il linguaggio che tutti capiscono e che può comunicare la Vita.

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